Fenomeno in rapida crescita nel circuito alternativo internazionale, le Otoboke Beaver sono una delle band punk-rock giapponesi più influenti degli ultimi anni. Formatasi nel 2009, la band ha origine a Kyoto ma attraversa un lungo periodo di scarsa produttività e cambi di formazione, arrivando a presentare solo nel 2019 l’assetto definitivo composto da Accorinrin, Yoyoyoshi, Hiro-Chan e Kahokiss, rispettivamente voce, chitarra, basso e batteria del gruppo.
La band appartiene al genere “riot grrrl”, fenomeno musicale e sociale nato negli USA negli anni 90′ dai colori sostanzialmente liberali e femministi che vedeva la musica, in particolare musica punk, come medium per affermare con fervore temi quali l’autodeterminazione e l’emancipazione femminile e porsi contro i disequilibri di genere. Le Otoboke Beaver si pongono, quantomeno in Giappone, come picco creativo e stilistico di questo filone e col rilascio del loro primo vero LP “Itekoma Hits” (2019), si presentano fin da subito ad alti livelli mostrando un’incredibile capacità di coniugare meticolosità tecnica con uno stile frenetico e incontrollato.
Super Champon
Nel 2022 rilasciano “Super Champon“, un album incredibilmente veloce (18 tracce per soli 21 minuti di ascolto complessivo) ma non per questo di poco impatto. L’album, infatti, si muove tra rapidi e repentini cambi sia ritmici che melodici, conservando però una forte coesione strutturale. La vibe riot-grrrl si mescola a melodie molto colorate ed elementi noise-rock, aumentando ancora di più l’intensità dell’album precedente; le tracce scorrono in maniera frenetica non lasciando tempo per respirare tra un cambio e l’altro, chitarra e la batteria producono un sound fortemente abrasivo e presentano cambi imprevedibili, così come le linee vocali, capaci di passare dal bambinesco al brutale nel giro di pochi secondi. Prova della grande capacità musicale sono brani come “PARDON?” o “Don’t call me mojo”, in cui la band riesce a gestire un numero esorbitante di salite e discese di tempo, pause e layer vocali ripetitivi e schizofrenici senza mai però risultare ridondante.
L’unica piccola perdita rispetto ai lavori passati è forse una leggera perdita nella scorrevolezza, complice la presenza di tracce davvero brevi ammassate verso la fine dell’album. Nonostante non sia presente una grande varietà di strumenti (la band conserva il classico assetto di batteria, chitarra e basso elettrici tipico del punk), l’album è sostanzialmente un’esperienza divertente, grazie al noise incessante ma mai statico e alla energica rabbia e aggressività con cui performa ogni singolo membro della band. Sul piano contenutistico l’album ripresenta temi già comuni alla band e facilmente comprensibili già dai titoli stessi: in generale il rifiuto di piegarsi a qualsiasi tipo di istituzione e più nello specifico il rapporto di amore e odio verso l’amore stesso, come in “Leave me alone! no, stay with me!” eil rifiuto nell’abbracciare ruoli di genere tradizionali, in tracce come “I am not maternal” o “I won’t dish out salads”. La band affronta tutti i temi con ironia e un humor a tratti demenziale, ponendosi contro essi in chiave provocatoria.
Bentornati a un altro appuntamento con Takamori J-Sound! In questo short vi parleremo dell’artista giapponese Shimomura Yōko.
Shimomura Yōko è una celebre compositrice e pianista giapponese, nonché l’autrice di svariate colonne sonore di opere videoludiche e non solo. Tra le tante si ricordano quelle di Street Fighter 2, Super Mario RPG, la saga di Kingdom Hearts e il più recente Final Fantasy XV.
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Avvolta da un’impenetrabile aura di mistero, “Il teatro fantasma”, opera pubblicata di recente da Sellerio Editore, raccoglie tre racconti del maestro del genere investigativo giapponese Yokomizo Seishi tradotti per la prima volta in italiano. Il talentuoso detective Kindaichi Kōsuke riesce a risolvere grazie alla sua arguzia casi complessissimi, tra macabri omicidi e inspiegabili sparizioni, raccogliendo con il suo occhio attento indizi apparentemente insignificanti e districando complessi intrecci di luoghi, sentimenti e personaggi.
Nel primo racconto, “Una testa in gioco”, il ritrovamento della testa recisa di una spogliarellista e la scomparsa apparentemente inspiegabile del resto del corpo aprono una lunga indagine che coinvolge il mondo distante dei night clubs della Tokyo degli anni ’50, fatto di sregolatezze, passioni e ombre inquietanti, capaci di proiettarsi molto lontano; un mondo di amanti e di protettori, di apparenze che ingannano e di luci che distorcono, celando loschi segreti che si riveleranno essere molto al di là dell’immaginabile.
Nel secondo racconto, “Il teatro fantasma”, il lettore si trova invece proiettato nell’universo del teatro kabuki. Il sesto senso del detective lo spinge a ricominciare a indagare su un vecchio caso: la scomparsa irrisolta del vecchio amico Raizō, acclamato attore kabuki, avvenuta durante uno spettacolo quindici anni prima. L’intuito dell’investigatore lo spinge a sospettare che qualcosa di grave avverrà durante una incombente rappresentazione commemorativa dello stesso spettacolo in cui il figlio dell’amico scomparso, divenuto nel frattempo un talentuoso giovane attore e adottato a sua volta il nome di scena di Raizō, reciterà nello stesso ruolo del padre proprio il giorno dell’anniversario della sua scomparsa. La narrazione si svolge su due fili paralleli e complementari: uno cerca di ricostruire e comprendere il passato, attraverso continui flashback e il dialogo con vecchie conoscenze, l’altro si svolge nel presente e tenta tanto di sventare quanto di risolvere i crimini, in un’atmosfera di suspense costante e di frenetica tensione. Lo spazio marginale di un teatro in rovina, su cui una serie di eventi sinistri e inspiegabili proiettano un’atmosfera quasi spettrale, ben lontana dai fasti di un passato non troppo remoto, costituisce la suggestiva cornice in cui si svolge la narrazione che con il suo incalzare sempre più vertiginoso ci trasporta in una realtà a prima vista indecifrabile, un labirinto di bugie, finzioni, travestimenti e messinscene su cui si proiettano i mostri ancora irrisolti del passato. Dietro (o meglio, sotto) il mondo artificiale del palcoscenico si celano nell’ombra entità ignote, pronte a colpire nella maniera più subdola, covando rivalità e rancori passati, progettando in segreto losche trame; ma allo stesso modo vi si trovano gli affetti umani più puri e commoventi, come la devozione di chi non ha mai rinunciato a trovare un vecchio amico nonostante il trascorrere inclemente degli anni o la speranza di una sorella che crede ancora di poter riabbracciare il fratello perduto. E il mistero viene complicato ancora di più dal fatale flusso degli eventi, dallo svolgersi imparziale della Storia che sconvolge il mondo e travolge le vite dei personaggi. Il Secondo Conflitto Mondiale interferisce in maniera ambivalente con l’avanzare della narrazione: impedisce infatti per anni l’avanzamento delle indagini, ma fornisce anche, casualmente, indizi fondamentali e permette di scoprire verità insospettabili, mentre la sua lunga ombra si proietta minacciosa ad anni di distanza sul fluire degli eventi. A impreziosire ulteriormente questo racconto è il riferimento costante al teatro kabuki, che tradisce la profonda conoscenza dell’autore in materia e contribuisce ad alimentare un’atmosfera di irrealtà e di finzione, intensificando la dimensione drammatica e, appunto, teatrale dell’intero racconto.
I fatti narrati ne Il Corvosi svolgono invece lontano dalle luci della capitale, portando in scena la realtà di un Giappone rurale. Ambientato nello spazio chiuso della provincia, nei pressi di un santuario shintoista in declino, quest’ultimo racconto indaga una misteriosa sparizione avvenuta in seno a una famiglia benestante della zona, inestricabilmente legata al santuario e alla sua divinità. Qui traspare una maggiore attenzione per lo spazio familiare percepito non come luogo idealizzato di armonia ma come una realtà sfaccettata, caratterizzata da rapporti interpersonali spesso indecifrabili e interessi contrastanti; il mistero si svolge in uno spazio sacro e si arricchisce di una dimensione più spirituale, fondendosi con la profonda fede nella divinità del santuario e con l’alterità quasi arcana degli sconfinati e reconditi spazi montani. Una fuga inspiegabile dal perimetro chiuso del tempio sacro, una lettera criptica rinvenuta subito dopo sull’altare e soprattutto la blasfema uccisione di un corvo, messaggero sacro della divinità del tempio, nello spazio nascosto di un eremo di montagna consacrato al Buddha contribuiscono a circondare la narrazione di un’aura di sacralità, facendo penetrare in ogni suo aspetto una vena di profondo esoterismo. Mantenendo però immutata la lucida razionalità che lo contraddistingue, il detective Kindaichi Kōsuke riesce a venire a capo del difficile caso, scoprendo –anche grazie a un insospettato aiuto esterno- una verità terribile e inaspettata, oltre che ben lontana da qualunque spiegazione sovrannaturale. Sullo sfondo, a muovere gli eventi, le passioni e le credenze di un Giappone ancora lontano dalla frenesia della vita cittadina.
Tre racconti diversi quindi per ambientazione e per personaggi, tenuti insieme dai temi comuni dell’investigazione, del crimine e del mistero. Oltre a saper intrattenere con maestria il lettore mediante un’articolazione sapiente della narrazione, che permette di mantenere sempre alta la suspense e di catturarne l’attenzione, e attraverso un uso magistrale e coerente dei colpi di scena, l’opera riesce a fornire una descrizione efficace e suggestiva della società giapponese dell’epoca, gettando luce in particolare sui suoi paurosi coni d’ombra, sui suoi spesso dimenticati spazi marginali e sui traumi che hanno contribuito a plasmarla, come la ferita ancora sanguinante della difficile esperienza bellica. Radicata saldamente nel contesto nipponico, la sua analisi lucida delle passioni e delle bassezze umane la rende però pienamente capace di rivolgersi a un pubblico universale.
“Le nostre adorate ragazze” (titolo in giapponese: 最愛の子供) è l’ultimo libro di una delle autrici più rappresentative del panorama letterario giapponese contemporaneo, Matsūra Rieko, pubblicato nel 2017. L’autrice si è distinta fin dai primi anni di università per le sue opere, vincendo il premio letterario Bungakukai per esordienti. Tutta la sua produzione non manca di varietà di contenuti e nelle sue opere l’autrice parla di minoranze sessuali e relazioni famigliari al di fuori delle convenzioni, con un particolare focus su tematiche come il corpo e la sessualità femminile.
“Le nostre adorate ragazze” parla di tre studentesse che frequentano una classe femminile dell’Istituto privato Tamamo: Hinatsu, Mashio e Utsuho. Qui, il trio di ragazze ha formato quella che le loro compagne definiscono una “famiglia”, all’interno della quale ognuna ha il suo ruolo: Hinatsu è il papà, Mashio la mamma e Utsuho il principe.
Hinatsu e Mashio, come veri genitori, riservano sempre particolari attenzioni per la dolce Utsuho, coccolandola come fosse davvero la loro figlia, e tra di loro il legame affettivo è sempre più forte. Quello che però andrà a intaccare questo felice quadretto famigliare è lo sguardo pregiudicato e severo degli adulti che le circondano. Come viene spiegato sin dai primi capitoli, nessuno ricorda con esattezza come è nata l’idea di quella loro famiglia né come siano stati assegnati i ruoli, ma nessuna delle ragazze dell’istituto sembra trovare nulla di strano in quella situazione.
Tutto ciò viene raccontato dal narratore, o meglio da un “noi narrante” rappresentato dalle compagne di classe delle tre protagoniste. Quello che più emerge dalla narrazione è come le narratrici desiderino semplicemente vedere la loro “famiglia” felice e unita, per poter continuare a “osservare, interpretare, edulcorare e raccontare la loro storia”. Non si delinea altro che curiosità, nessuna critica o pregiudizio nei confronti delle tre ragazze e, grazie alle loro parole, Matsūra Rieko smonta ogni preconcetto riguardo la famiglia “tradizionale”, slegandola dai rapporti di sangue e allontanandosi dalla visione delle vecchie generazioni ancora chiuse al cambiamento e alle novità. In questa maniera, l’autrice amplia il concetto stesso di famiglia e fornisce di questo nuovo tipo di rapporto una visione molto positiva.
Benritrovati! Questa è Meijin Film Directors, la rubrica Takamori sui registi giapponesi, e oggi continuiamo a parlarvi di Kurosawa Akira.
Nel 1954 dirige uno delle più importanti opere giapponesi di sempre, “I sette samurai”: ambientato durante il periodo feudale, narra la storia di un villaggio di contadini che ingaggia un gruppo di samurai per difendersi dai briganti, esaltando il sacrificio e il senso di comunità. Questo capolavoro immortale, oltre ad aver portato per la prima volta il cinema asiatico all’attenzione internazionale, ha ispirato grandi artisti americani delle generazioni successive attraverso le sue innovazioni narrative e tecniche.
“Anatomia di un rapimento” del 1963 è il film più americano del regista: Gondo è un socio azionario di un’importante azienda di cui sta per prendere il totale controllo senonché riceve una telefonata dove viene a sapere che suo figlio è stato rapito. Si scoprirà che per errore il bambino in ostaggio è il figlio del suo autista. Siamo di fronte a un film investigativo tecnicamente sublime che gioca con la geometria degli spazi, in una dialettica tra alto-basso che rappresenta il dualismo tra paradiso-inferno. Un’opera che tiene col fiato sospeso dal primo all’ultimo minuto mostrando l’intera stratificazione della società giapponese.
“Sogni” del 1990 è il testamento cinematografico di Kurosawa: un lungometraggio suddiviso in otto storie dal carattere onirico che attingono al folklore nipponico e alla storia del Giappone, con alcuni riferimenti biografici dello stesso regista. Nonostante il carattere non convenzionale dei racconti, Kurosawa esprime chiaramente le sue idee sull’inutilità della guerra, la cattiveria intrinseca dell’essere umano, la perdita del legame primordiale con la natura e la vita in senso più ampio.
Se volete scoprire le vite e le opere di altri registi giapponesi, continuate a seguirci! A presto!
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