No longer human || Recensione

Regista: Ninagawa Mika

Anno: 2019

Durata: 2 ore

Genere: Drammatico, romantico

Attori principali: Oguri Shun, Nikaidō Fumi, Sawajiri Erika, Miyazawa Rie

No longer human di Ninagawa Mika è un film che, riprendendo il titolo di uno dei più celebri romanzi di Dazai Osamu, mostra la vita dello scrittore stesso e di come è arrivato a scrivere i suoi due romanzi di più grande successo: Shayō (Il sole si spegne) e Ningen shikkaku (Lo squalificato, traduzione italiana di No longer human).

La vita dissoluta, fatta di alcol, droghe e donne che lo distraggono dalla vita da padre di famiglia, porta ad una costante ricerca del malessere, l’unico che gli permette di scrivere i suoi capolavori. Sono le sue esperienze negative che gli permettono di essere l’autore che è.

Fin dai primi minuti si capisce che la sua vita è bloccata in un vortice da cui non riesce ad uscire, sempre lontano dalla famiglia. Nonostante la vita sfrenata fatta di debiti e tradimenti, la moglie Michiko è sempre pronta a riaccoglierlo a casa, pur sapendo delle sue relazioni parallele. Due in particolare sono presentate: quella con Ota Shizuko (interpretata da Sawajiri Erika) e quella con Yamazaki Tomie (interpretata da Nikaidō Fumi).

La prima relazione sarà quella che ispirerà Shayō, grazie al diario di Shizuko, la quale, in cambio del favore di far leggere il suo diario a Dazai, chiede dallo scrittore un figlio. Nonostante la riluttanza, lui acconsente. Dopo aver mantenuto la promessa di mettere incinta la ragazza, scrive il suo romanzo, ottenendo un enorme successo di pubblico. Non mancano le critiche da parte di Mishima Yukio e Kawabata Yasunari.

Nonostante il grande successo, Dazai non riesce a farsi pubblicare facilmente, in quanto si trova in un periodo caratterizzato dalla sfiducia negli intellettuali e dalla disillusione generale in seguito alla seconda guerra mondiale.

In una delle varie serate per locali, incontra Tomie, con la quale inizia una relazione che durerà fino al suicidio dei due, seguendo una promessa che si sono fatti: Dazai deve scrivere il suo ultimo capolavoro e poi possono lasciarsi morire per abbandonare quella vita di malessere e vivere insieme nella morte.

La moglie, per poter pagare i debiti del marito, lo forza a distruggere la famiglia che entrambi hanno creato per poter scrivere l’ultimo capolavoro, anche per potersi liberare dalla grande sofferenza che le comporta vedere il marito con altre donne.

Dopo la stesura di Ningen shikkaku, arriva il momento per i due amanti di suicidarsi, anche se Dazai non sembra convinto della conferma che dà all’amante alla sua rinnovata richiesta di morire insieme. Tuttavia, l’autore mantiene la promessa e i due si buttano nel bacino di Tamagawa.

Con la prima amante, viene presentato in modo esemplare il periodo di transizione in cui si trova il Giappone: Dazai Osamu indossa ancora gli abiti tradizionali, sempre di colore scuro, austeri, mentre Shizuko indossa abiti occidentali dai colori accesi. Ciò sta a rappresentare anche la visione che la ragazza ha della vita: nonostante l’abbandono che subisce da parte dell’autore che lei tanto ama, prosegue la sua vita felicemente con la figlia.

Al contrario, si possono notare dei toni più scuri negli abiti occidentali della seconda amante, infatti sarà con lei che Dazai si toglierà la vita.

Si possono notare alcune somiglianze tra la vita dell’autore rappresentata nel film e Shayō: la moglie Michiko potrebbe essere vista come l’ultima vera donna giapponese, dedita ai figli e alla casa e sempre in abiti tradizionali, anche se non aristocratica, come nel caso invece della madre della protagonista del romanzo; la scena che vede Dazai bere insieme agli altri clienti del locale ignorando la presenza di Shizuko, già incinta e alla quale viene chiesto se vuole mangiare dei noodles nell’attesa, che è molto simile a quella che vede la protagonista di Shayō, Kazuko, aspettare che il suo amato Uehara, anche lui sposato, si allontani dagli intellettuali con cui sta bevendo, sempre mangiando noodles.
Le idee di distruzione e nichilismo necessarie a Dazai per scrivere un capolavoro, che vengono portate avanti dall’inizio alla fine del film, vengono espresse visivamente in una delle ultime scene. Durante la stesura di Ningen shikkaku, la stanza che circonda l’autore di disassembla in uno spazio indefinito, fino a raggiungere la sua essenza, ovvero la struttura in legno che la compone.

Kurosawa Kiyoshi parte 2 || Meijin Film Directors

Benritrovati! Questa è Meijin Film Directors, la rubrica Takamori sui registi giapponesi, e oggi continuiamo a parlarvi di Kurosawa Kiyoshi.

Il primo grande successo è Cure (1997): il detective Takabe assieme allo psicologo Sakuma indagano su una serie di omicidi inspiegabili che sembrano tutti essere riconducibili a Mamiya, un ragazzo che paia ipnotizzare le persone per commettere sanguinosi delitti. Dichiaratamente ispirato a “Il silenzio degli innocenti”, il film alterna violenza e tensione con sequenze oniriche e matafisiche, dando nuova linfa all’horror nipponico.

Kairo (2001) è il secondo celebre horror di Kurosawa: ancora una volta siamo davanti a un’opera che rielabora il cinema di genere per portare avanti un discorso autoriale sulla personale visione che il regista ha del mondo. Uno dei primi a usare Internet e le nuove tecnologie come espediente narrativo, questo film riflette sulla solitudine come condizione inevitabile dell’essere umano.

Premiato con il premio alla giuria al Festival di Cannes, “Tokyo Sonata” narra le vicende che ruotano attorno a una normale famiglia del ceto medio. Questa conduce una vita tranquilla fino a quando Ryuhei, il padre, non perde il lavoro e non ha il coraggio di dirlo. Come suggerisce il titolo, lo svolgersi della storia è caratterizzato da una struttura musicale con la quale si racconta il lento e inesorabile declino di un piccolo nucleo familiare colpito, come tanti, dalla crisi economica degli anni 2000.

Se volete scoprire le vite e le opere di altri registi giapponesi, continuate a seguirci! A presto!

LiSA || Recensione

Oribe Risa (織部 里沙) meglio conosciuta come LiSA (リサ) è originaria della prefettura di Gifu, nata il 24 giugno del 1987. Ha venduto milioni di copie dei suoi singoli e album in tutto il mondo, contribuendo notevolmente alla promozione della musica giapponese oltre i confini nazionali. 

Nella primavera del 2010 è stata scelta come cantante per il personaggio di Yui, la seconda voce della band immaginaria “Girls Dead Monster” (conosciuta anche come GalDeMo) nel popolare anime televisivo “Angel Beats!”. Sotto il nome di GalDeMo ha venduto più di 400.000 singoli e album in totale guadagnandosi una grande popolarità. Nel 2011, ha fatto il suo debutto da solista con il mini-album “Letters to U”. 

In seguito, ha interpretato le canzoni principali di numerose serie anime di successo, tra cui “Fate/Zero”, “Sword Art Online”, “The Irregular at Magic High School” e “Demon Slayer”, ottenendo successo non solo in Giappone ma anche in tutto il mondo. Nell’aprile 2019, il brano “Gurenge” (紅蓮華) rilasciato in digitale ha raggiunto la vetta di numerose classifiche giornaliere e ha conquistato 38 premi in classifiche giornaliere di download, diventando il singolo digitale più venduto nella prima settimana dell’era Reiwa. Alla fine dello stesso anno, ha fatto la sua prima apparizione al 70º NHK Kohaku Uta Gassen

Nell’ottobre 2020, ha pubblicato contemporaneamente l’album “LEO-NiNE” e il singolo “Homura” (炎), raggiungendo il primo posto nelle classifiche giornaliere di Oricon per entrambi. Alla fine del 2020, ha vinto il Japan Record Award durante il 62º Japan Record Awards di TBS ed è apparsa al 72º NHK Kohaku Uta Gassen per il terzo anno consecutivo. 

Tra i suoi ultimi traguardi troviamo la sua prima colonna sonora per un film di Hollywood: “REALiZE” per la versione doppiata in giapponese del film animato “Spider-Man: Across the Spider-Verse”. Inoltre, ha collaborato con la famosa K-pop band Stray Kids a quello che è stato definito il loro primo EP giapponese “Social Path (feat. LiSA)” pubblicato il 6 settembre 2023 tramite Epic Records Japan. 

LiSA è nota per le sue esibizioni dal vivo altamente energetiche e coinvolgenti. Il suo stile musicale è molto diversificato e spazia dal pop-rock al J-pop, con influenze rock e anime. Le sue canzoni sono spesso caratterizzate da melodie orecchiabili, testi emozionali e voci potenti. La sua musica non solo è ampiamente apprezzata dai fan degli anime, ma ha anche un seguito ampio grazie al suo talento e alla sua versatilità. Ha una forte presenza sul palco e interagisce spesso con il pubblico durante i suoi concerti. La sua personalità positiva e il suo entusiasmo traspaiono nelle sue performance dal vivo cariche di energia. Queste ultime, le sue capacità vocali e il suo messaggio positivo durante i suoi concerti l’hanno resa rapidamente popolare non solo nella scena delle canzoni degli anime, ma anche in numerosi festival rock, dimostrando così la sua forte presenza. Il motto che ripete durante le sue esibizioni è: 今日もいい日だっ。 (Anche oggi è una giornata meravigliosa). 

Recensione di Chiara Girometti 

Favole del Giappone – Niimi Nankichi || Recensione

“Favole del Giappone” è una raccolta selezionata di cinque favole tratte dalla vastissima produzione favolistica di Niimi Nankichi, uno dei più importanti autori giapponesi per l’infanzia del Novecento. Sebbene queste favole siano state realizzate in fasi diverse della produzione dell’autore e siano caratterizzate da personaggi e luoghi differenti, vi è possibile leggervi una soggiacente coerenza dei temi trattati, un costante ricorrere di alcuni motivi tipici poi dell’intera opera dell’autore, una struggente unità di toni e atmosfere.

Nella favola che apre la raccolta, Gon la volpe (ごん狐, Gongitsune) la vita del Giappone rurale è presentata parzialmente da una prospettiva “altra”, quella non umana della volpe Gon. Il mondo del villaggio è presentato nella sua interazione, non sempre pacifica ma comunque reciproca e costante, con l’universo animale; le due sfere scorrono parallele e caratterizzate da esperienze simili, come la solitudine e la perdita della figura materna.

La volpe è capace di comprendere i sentimenti degli umani e di empatizzare con loro, in fondo così simili. Proprio quest’empatia si trasforma in azione finalizzata a migliorare la condizione comune, a unire e curare due solitudini, quella dell’uomo e quella dell’animale, unite dal lutto materno.

Nonostante le buone intenzioni la comunicazione appare però impossibile; le due sfere si sfiorano brevemente, di nascosto, senza mai riuscire a instaurare un vero dialogo. E in assenza di comunicazione le buone azioni assumono conseguenze imprevedibili: a ciò contribuisce una certa cecità umana, incapace di comprendere il ruolo della volpe e di scorgerne le nobili motivazioni.

Questa distanza comunicativa, questa inabilità sarà quindi il motore dell’epilogo del racconto;

qui l’improvvisa, futile realizzazione delle azioni animali apre finalmente una finestra di comunicazione oramai effimera, ma comunque genuina e totale. E proprio su questo momento si chiude il racconto: i protagonisti vi rimangono fermi, protraendolo per sempre, incapaci di costruirvi una solitudine condivisa e avvolti da una luce di soffusa tristezza.

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Nella seconda favola, L’ultimo suonatore di kokyū (最後の胡引き, Saigo no kokyūhiki) vengono tratteggiati tre diversi momenti della vita di un suonatore di kokyū, dal momento in cui impara a suonare lo strumento fino alla vecchiaia.

Qui il mondo rurale è dipinto nella sua graduale evoluzione, delineata attraverso la progressiva scomparsa di una vecchia tradizione. Ogni anno, infatti, il giorno di Capodanno il suonatore intraprendeva assieme al cugino il lungo cammino per la città per suonarvi e ricevere le donazioni degli abitanti, ritornando poi al proprio villaggio. Tuttavia, con gli anni la modernità occidentalizzante avanza inesorabilmente; gli abitanti iniziano a preferire le nuove tecnologie come la radio e la vecchia tradizione ne soffre le conseguenze.

Nessuno vuole più ascoltare la musica del kokyū; ormai non voluti, i suonatori smettono di effettuare il pellegrinaggio annuale e solo il vecchio Kinosuke si appiglia ostinatamente al passato, decidendo di recarsi in città nonostante il parere contrario della famiglia, gli acciacchi dell’età, la defezione del cugino e il clima ostile.

A convincerlo ad affrontare tutte quelle difficoltà è il ricordo del gentile anziano che sin dai giorni lontani della sua infanzia l’aveva accolto nella sua casa e aveva ascoltato con passione la sua musica.

La scomparsa del vecchio rappresenta la sparizione dell’ultimo frammento vivo del vecchio Giappone:

ora il kokyū non ha più nessuno che ascolti il suo canto e viene suonato, per l’ultima volta, per commemorare un uomo e un mondo ormai perduti per sempre nel passato. Il cambiamento non viene qui accettato ma è piuttosto subito impotentemente dal suonatore, travolto dall’avanzare inclemente della modernità; ogni resistenza appare futile e la nostalgia si configura come l’unico rifugio possibile di fronte a un mondo ormai irriconoscibile.

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Anche nel terzo racconto, Il lume a petrolio del nonno (おじいさんおランプ, Ojisan no ranpu) la modernità  irrompe in un piccolo villaggio rurale. Il giovane protagonista visita la città vicina e rimane sorpreso dalla sua modernità, esemplificata dal grande numero di lampade e dalla sua luminosità, così diversa dall’oscurità dei villaggi della campagna.

Le luci del progresso entrano ora nel mondo rurale, illuminano gli spazi e le vite dei contadini, diradano le “retrograde” tenebre circostanti.

Il protagonista vede il proprio lavoro di venditore di lumi come una vera e propria missione “civilizzatrice”, nutrendo fiducia nel proprio ruolo e nella propria capacità di migliorare la vita del villaggio, aprendolo al nuovo mondo e portandovi il Progresso: questa fiducia è però messa in crisi dall’ulteriore evoluzione della tecnologia. L’arrivo della luce elettrica minaccia infatti il mondo delle lampade; la vita del protagonista ne viene scossa e la sua stessa professione viene messa a repentaglio.

Colui che si era posto fino a quel momento come un campione del progresso si oppone ora ostinatamente all’avanzare del nuovo.

Anche in questo caso la resistenza appare futile; tuttavia, la risposta del protagonista e il messaggio sono nettamente diversi da quelli della storia precedente. Dopo un breve, incompleto tentativo di opporsi in maniera violenta al nuovo che avanza, il venditore di lumi comprende la necessità di adattarsi al nuovo mondo e di ritagliarvisi un nuovo ruolo. Scegliendo di rimanere fedele ai propri principi etici anche a scapito degli interessi concreti più immediati, decide di assecondare il cambiamento.

Il rito dell’abbandono e della rottura delle lampade rappresenta quindi un atto di rottura totale col passato, il marchio inequivocabile di un nuovo inizio.

Impossibilitato a portare la luce “fisica” nel mondo rurale, il protagonista sceglie di dedicarsi alla professione del libraio e di portarvi la luce spirituale della cultura. Mutano quindi circostanze e oggetti, ma la missione etica e il sereno ottimismo rimangono gli stessi; avanti negli anni, il protagonista si trova infine a ricordare con gioia quei giorni lontani della sua gioventù, con la voce velata da una dolce nostalgia.

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Il quarto racconto, Andando a comprare i guanti (手袋を買いに, Tebukuro o kai ni) ha il mondo animale come vero protagonista. Un cucciolo di volpe ci viene presentato nel suo angolo sicuro, mentre gioca felice nella neve accompagnato dalla sua premurosa Mamma Volpe.

Il viaggio verso la città che il volpino è costretto a intraprendere da solo per acquistare dei guanti  lo costringe ad abbandonare per la prima volta la tranquillità della tana materna e a interagire con il pericoloso mondo degli uomini, da cui era stato messo in guardia. Nonostante i pericoli corsi e gli errori commessi, il viaggio ha un esito positivo.

Sulla via del ritorno, il cucciolo scorge da una finestra aperta una mamma umana che culla il suo bambino nel sonno, cantandogli dolcemente una canzone: il cucciolo pensa quindi alla sua mamma, che fa lo stesso per lui nel caldo della sua tana, e corre immediatamente da lei trovandola tremante ad attenderlo nella neve. Dimensione umana e dimensione animale sembrano di nuovo incontrarsi e assomigliarsi, accomunate dall’affetto incondizionato delle madri per i figli.

Ben diverso dall’epilogo del primo racconto, il finale esprime qui un totale ottimismo: uomo e animale riescono a interagire soddisfacentemente senza ricorrere alla violenza, contrariamente ai timori di Mamma Volpe, che inizia a ricredersi sul conto degli umani mentre imbocca col suo piccolo, felice e illeso, la sicura strada di casa.

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Nell’ultima storia, Piede di contadino, piede di bonzo (百姓のあし、坊さんのあしHyakushō no ashi, bōsan no ashi) la sfera religiosa e sociale del Giappone rurale sono tratteggiate più nel dettaglio da Niimi Nankichi.

A questa descrizione più complessa e sfaccettata, e certamente meno idealizzata e bucolica, della vita di villaggio si affianca una forte dimensione etico-religiosa alimentata da forti suggestioni provenienti dalla spiritualità buddhista.

Durante la raccolta del komebatsuho (la pratica di ritirare, casa per casa, il riso nuovo che i contadini offrono al vicino tempio buddhista) l’abate del tempio locale e il contadino Kikuji si ubriacano con il sake offertogli dai contadini e mancano di rispetto, calpestando il riso bianco offerto da uno zoppo. Nelle pagine successive traspare l’essenza del mondo contadino descritto nella sua intimità familiare, con il suo sistema morale di valori forti; il cibo, ottenuto solo grazie a lunghe ore di fatica e con l’amaro sudore della fronte, deve essere rispettato e le azioni di Kikuji sono condannate dalla stessa madre, rappresentante intransigente dell’etica contadina, che prevede tremante l’arrivo di una punizione.

Tale punizione non esita ad arrivare ma non colpisce tutti allo stesso modo: mentre il contadino è costretto a letto da un terribile dolore al piede con cui aveva calpestato il riso, l’abate appare in perfetta salute, sempre più rubicondo mentre consegna alla popolazione sermoni pieni di ipocrisia.

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Il contadino si scaglia quindi contro l’apparente ingiustizia del Cielo, che sembra in fondo replicare l’ingiustizia della Terra; mentre lui e la sua famiglia sono costretti a trascinarsi nella polvere dei campi, sopravvivendo solo grazie al duro lavoro, il monaco vive una vita tranquilla nello spazio sicuro del suo tempio, apparentemente estraneo alle conseguenze delle sue azioni. La sofferenza, però, si rivela indispensabile per la comprensione; solo grazie al dolore il contadino capisce il proprio errore e la giustizia della punizione ricevuta: a differenza dell’abate, lui coltivava la terra e conosceva il dolore del raccolto, lo sforzo amaro della vita dei campi, e proprio questo rendeva l’atto che aveva commesso ancora più grave.

La comprensione del proprio sbaglio permette il perdono, apre la strada della rinascita spirituale. Alla fine del racconto, il Cielo appare tutt’altro che ingiusto: nel loro incontro dopo la morte, mentre camminano su una lunga strada fiorita, l’abate continua a maltrattare il contadino che si dimostra al contrario umile e compassionevole.

Il religioso continua ad applicare le categorie umane anche dopo la morte, trascinandosele dietro dal mondo dei vivi: dall’alto delle sua posizione sociale, è convinto della propria superiorità rispetto al mite Kikuji, certo che la propria posizione sia sufficiente ad aprirgli la strada per il paradiso. Ma la giustizia sovrumana non sembra interessata allo status sociale. Trascinando la gamba, il contadino viene indirizzato sul sentiero di destra, quello che conduce al paradiso; mentre l’arrogante abate viene trasportato, in un risciò non destinato a lui ma che pretende come proprio di diritto, sull’altro sentiero, verso la perdizione.

Il messaggio del racconto è consolatorio ed esprime un totale ottimismo. All’apparente ingiustizia del mondo terreno fa da contrappeso la giustizia suprema della vita dopo la morte; la sofferenza che si prova in vita, percepita come una punizione, è in realtà lo stimolo maggiore per la comprensione delle proprie colpe e porta al raggiungimento della felicità ultraterrena.

Si può leggere in questo una dimensione autobiografica; tormentato dai terribili dolori della tubercolosi, che lo stroncherà alla giovane età di 30 anni, l’autore si confrontava quotidianamente con l’esperienza della sofferenza e questa alimentava la sua riflessione e il suo pensiero; in questa favola si potrebbe leggere quindi il tentativo autoconsolatorio di trovare una spiegazione per il proprio male e al tempo stesso la speranza di una fuga da esso, sia pure nella cornice mistica del mondo ultraterreno.

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È possibile quindi identificare una serie di temi che accomunano i cinque racconti della raccolta tratti dalla vastissima produzione di Niimi Nankichi.

Innanzitutto la centralità costante del mondo rurale e della vita di villaggio; lungi dall’essere vagheggiata bucolicamente, la realtà della campagna è descritta nella sua concretezza sociale, fatta di fatica, di profondi rapporti familiari, di sentite tradizioni, di un sistema di valori radicato alla terra e di resistenze al cambiamento. Si tratta di un mondo Altro rispetto a quello lontano della città, con le sue luci e i suoi negozi: al tempo stesso opposto e complementare, l’ambiente urbano incombe però sempre sul mondo delle campagne, fonte simultaneamente di minacce e di opportunità.

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La città è il luogo della modernità, del nuovo che si espande verso la realtà del villaggio minacciando di modificarla irrimediabilmente e di annichilirne le profonde tradizioni; luogo “liminale” in cui i protagonisti si recano solo brevemente per ottenere qualcosa (che si tratti di denaro, di lumi o di guanti) per poi tornare immediatamente alla sicurezza del proprio villaggio; a essa si guarda con timore, ma anche con fascinazione.

Questo movimento segue in fondo l’esperienza di vita dell’autore che, dopo aver vissuto e studiato nella capitale, spinto anche dalla malattia aveva scelto di ritornare in provincia, dove aveva riscoperto una dimensione più autenticamente rurale che sarebbe poi divenuta uno dei tratti più caratterizzanti della sua produzione letteraria.

Ogni forma di resistenza sembra in ogni caso futile: il vecchio viene travolto inesorabilmente dal nuovo e il mondo delle città avanza. La modernità può essere abbracciata con entusiasmo o rigettata totalmente, affrontata con rassegnazione o con un sereno ottimismo; in entrambi i casi il processo non è indolore e il nostalgico ricordo del passato risulta essere, se non l’unica consolazione di fronte a un mondo che diventa sempre più rapidamente estraneo come nel caso estremo della seconda favola, quantomeno un sereno rifugio di fronte al rapido fluire degli eventi.

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In tutte le storie di Niimi Nankichi è poi fondamentale la dimensione familiare (o la sua dolorosa assenza).

La casa – o la tana – è il luogo sicuro di una sommessa intimità, del calore umano e della cura reciproca, degli affetti più spontanei, il focolare che illumina un mondo avvolto dalla neve. L’amore materno accomuna uomo e animale, fornisce una guida sicura di fronte alle difficoltà del mondo, crea un luogo sicuro in cui rifugiarsi.

La solitudine, vissuta come assenza e compagna del lutto, è un’esperienza dolorosa che i personaggi sperimentano spesso e che provano a superare costruendo un nucleo nuovo, tentando di forgiare nuovi rapporti di cura reciproca, con esiti assai diversi. Essi spaziano dalla tragicità della prima favola, in cui la costruzione di una “famiglia” fallisce a causa dell’incomunicabilità reciproca, al successo del terzo racconto, in cui l’orfano venditore di lumi arriva a raccontare al proprio nipotino una vecchia storia nella tranquillità della propria casa e nella serenità della vecchiaia.

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Anche in questo caso traspare l’influenza dell’esperienza personale dell’autore: orfano di madre sin dalla più tenera età, la vita familiare di Niimi Nankichi era stata particolarmente travagliata.

Alla luce di questo dato andrebbero letti quindi i ricorrenti temi della solitudine e della perdita, ma anche le ricostruzioni di una vita familiare ideale:

quasi come in una forma di sublimazione del desiderio, l’autore esprime così la propria volontà di regredire verso una dimensione protetta, contemporaneamente una forma di ritorno alla culla e uno slancio verso la paternità di cui però la malattia e la sofferenza lo avrebbero privato. Per la complessità dei temi trattati e la profondità della visione l’opera non si rivolge quindi esclusivamente a un pubblico infantile, fornendo anzi interessantissimi spunti di riflessione e immagini suggestive anche a un pubblico più adulto.

Recensione di Mattia Natali