Shōso Strip – Shiina Ringo || Recensione

Considerata una dei più importanti musicisti del Giappone contemporaneo, Shiina Ringo è un’artista caratterizzata dalla sua profonda conoscenza di svariati strumenti e generi musicali, e la capacità di fonderli con maestria ed eleganza. Il suo secondo album intitolato “Shōso strip” e uscito nel 2000 è uno dei dischi più rappresentativi della sua versatilità artistica. Scritto quando l’autrice aveva solo 21 anni e composto di 13 tracce, l’album spazia da pop rock tradizionale a pezzi elettronici e sperimentali, riuscendo comunque a mantenere un’identità forte e coesa.

Il primissimo brano, “Kyogen-shō”, cattura immediatamente l’attenzione grazie alla chitarra elettrica distorta, il flauto campionato e la batteria che entra in scena con una certa prepotenza. Anche la voce di Shiina Ringo stessa fa di tutto per farsi notare con una performance carica di energia; il timbro squillante della sua voce si addice perfettamente al caos sonoro che l’accompagna. La canzone successiva, “Yokushitsu”, capovolge completamente l’atmosfera, presentandosi come un pezzo quasi completamente elettronico e da una composizione molto più eterea e non convenzionale.

L’alternarsi di pezzi più convenzionali e pezzi più sperimentali è una costante dell’intero disco. “Gips” e “Honnō” sono tra i brani più vicini ad un tipico stile pop, ma neanche in questi Shiina può resistere dal distorcere batteria, chitarra e anche la propria voce. “Identity” e “Stoicism” si presentano invece come due completi opposti: Se la prima è un vero e proprio pezzo Noise rock dalla forte aggressività e slancio ritmico, la seconda è una breve traccia elettronica a tratti inquietante, dove la voce della cantante si ritrova travolta di effetti sonori, quasi come se fosse un sintetizzatore.

Il settimo brano, “Tsumi to batsu”, divide l’album in due metà e si fa riconoscere per la sua unicità rispetto alle tracce restanti. Dal punto di vista strumentale è abbastanza in linea con il resto del disco, ma si distingue per lo stile e per la performance di Shiina. Rifacendosi al titolo (In italiano “Delitto e castigo”), ci viene proposto una sorta di ballata rock stile anni ‘70 e Shiina canta con un’enfasi e un tono drammatico assente dal resto dell’album. Sentendola, si può facilmente immaginarla come una scena di un film poliziesco, tanto che è carica di tensione.

In conclusione, “Shōso Strip” è un album incredibilmente vario ma che riesce con successo a raccogliere tutte le capacità di Shiina ringo come compositrice e polistrumentista in un singolo disco di 55 minuti.

Recensione di Biagio Furno

La foresta nascosta – Radhika Jha || Recensione

“Non sarebbe mai dovuto tornare, pensò amareggiato, ma ormai era troppo tardi”

“La foresta nascosta” è la storia di Kōsuke, uomo giapponese trasferitosi a New York per lavoro. La sua vita tranquilla viene sconvolta dalla notizia della morte del padre, con cui non aveva più contatti da anni; decide di tornare in Giappone e si trova costretto ad ereditare il tempio Shintoista di famiglia. Diviso tra i propri doveri di Kannushi e la sua vita negli Stati Uniti, Kōsuke cerca con grandi difficoltà di trovare una soluzione che possa soddisfare tutti, sé stesso incluso.

La trama è caratterizzata da un misto tra romanzo psicologico ed elementi tipici del giallo. Il dilemma interiore di Kōsuke è reso ancora più complesso dall’entrata in scena di personaggi  quasi surreali come Akemi e Andō, e dall’irruzione della Yakuza che cerca di comprare il tempio di famiglia. L’incontro di questi elementi narrativi è però gestito molto bene, al punto da intensificare i momenti più intimi ed emotivi che coinvolgono gli attori principali: nello specifico, oltre al protagonista, la sua compagna Kirsten e sua sorella Asako sono dei personaggi molto veri, con cui è facile empatizzare, anche quando commettono errori.

Nel corso della storia, Kōsuke cerca di raccattare da qualunque personaggio che incontra le memorie di suo padre, scoprendo che tipo di persona fosse, cosa pensava di lui mentre era all’estero e come ha affrontato la vita e le difficoltà economiche del santuario fino alla sua morte. Nonostante sia un personaggio già morto a inizio storia, ha un’influenza costante e duratura sugli eventi e suo figlio non può permettersi di ignorare la cosa, deve anzi scontrarsi costantemente con le proprie mancanze, la sua assenza da casa, e il rimpianto di non aver mai riallacciato i rapporti con suo padre.

L’occhio di Kōsuke per l’architettura è un ulteriore elemento fondamentale per la storia. Non solo nota con attenzione ogni singolo dettaglio del proprio tempio e degli altri che visita, ma la sua esperienza negli Stati Uniti gli fa riconoscere quanto il Giappone contemporaneo stia cambiando. Molti templi della sua infanzia sono o stati distrutti, o riammodernati in grattacieli all’occidentale e lui si scopre profondamente ferito dalla cosa. Nonostante abbia vissuto per almeno sette anni a New York, un simbolo della “modernità”, appena mette piede in Giappone diventa quasi un conservatore.

Con questo libro, l’autrice riflette su come una parte della nostra terra natia resti sempre con noi, anche inconsciamente. Il Kōsuke in Giappone è completamente diverso da quello in America. Radhika Jha stessa, infatti, ha vissuto per anni in Giappone: ha visto lo scontro tra tradizione e moderno, ha visto i templi Shintoisti venire venduti per profitto, e probabilmente ha vissuto anche il conflitto interiore che coinvolge l’intero romanzo dall’inizio alla fine.

Il conflitto che caratterizza l’intera storia non riceverà mai una risposta definitiva. L’unica persona che può davvero sapere cosa vuole è Kōsuke stesso e nessun altro. 

Recensione di Biagio Furno

Ikkon no Keifu – Genealogia del Saké || Proiezione

L’Associazione Takamori è lieta di invitarvi a partecipare alla visione del documentario “Ikken no Keifu – Genealogia del Saké”, presso il Teatro del Baraccano, a Bologna, il giorno 10 giugno alle ore 19!

L’evento, a scopo benefico, devolverà i suoi proventi a sostegno della popolazione risiedente a Noto, penisola nella prefettura di Ishikawa, colpita da un violento terremoto il 1° gennaio 2024

Al termine della proiezione verrà servito un delizioso aperitivo giapponese, gentilmente offerto da Yuzuya e JFC Italia!

Attenzione: i posti sono limitati, per cui affrettatevi! Per prenotarsi basta scannerizzare il QR code presente su questa locandina, e sempre su quest’ultima troverete ulteriori dettagli

Vi aspettiamo numerosi!

Maschere di donna – Enchi Fumiko || Recensione

Titolo: Maschere di donna
Autrice: Enchi Fumiko
Traduttrice: Graziana Canova Tura
Editore: Marsilio
Edizione: 1999

“Per quanto un uomo si dia da fare non arriverà mai a capire le trame che una donna ordisce in silenzio, lenta ma inesorabile. […] Anche il sadico malanimo di Buddha o di Cristo verso la donna non è stato altro che un tentativo di sottomettere un avversario col quale non potevano competere.”

Parte di una trilogia informale di romanzi legati al Genji Monogatari, “Maschere di donna”, pubblicato per la prima volta nel 1958, è il titolo più cupo e inquietante dei tre.
La storia ruota attorno a Toganō Mieko, donna colta e studiosa di letteratura classica e di teatro Nō, che vive insieme a Yasuko, la moglie del defunto figlio. In un intrigo di vendette e rancori segretamente covati per anni, si sviluppa la trama del romanzo, in grado di ammaliare il lettore e renderlo un’altra vittima dell’inquietante fascino di Mieko.

Enchi Fumiko è tra le autrici che più hanno scosso il panorama letterario nipponico dello scorso secolo. Ancorata alla tradizione classica, dai monogatari ai grandi autori dell’Ottocento, le sue pagine risplendono di amore e dedizione per la letteratura del passato. In particolare, in Onnamen, Enchi si concentra sulla figura di Rokujō, uno dei personaggi femminili più famosi ed emblematici del Genji Monogatari. Dapprima amante del principe Genji, quando viene messa da parte e perde il suo status a corte, si trasforma, a sua insaputa, in un mononoke, uno spirito vendicativo che possiede le nuove consorti di Genji e ne causa la morte.

“Maschere di donna” parla esplicitamente di Rokujō e della sua vendetta soprannaturale, l’unica arma che le è concessa, e Mieko stessa si inserisce nella stessa tradizione karmica che la lega a Rokujō, alla dea Izanami, e tutte le donne ingabbiate dal potere maschile, il cui amore per il proprio uomo inevitabilmente si è tramutato in odio. In questo senso Rokujō diventa una vendicatrice del genere femminile, e Mieko è determinata a seguire le sue orme.

Mieko, imperturbabile come una maschera del Nō, agita l’animo degli altri protagonisti del romanzo. Questi non possono fare a meno di percepire le correnti torbide che scorrono sotto la superficie della sua quieta bellezza, ma non riescono a sondarle, non sanno decifrare i suoi piani, e rimangono irrimediabilmente intrappolati nella sue rete.

“Così come esiste un archetipo muliebre amato dagli uomini attraverso i secoli, nello stesso modo vi deve essere un genere di donna da essi eternamente temuto, possibile proiezione dei mali insiti nella natura maschile.”

Recensione di Elena Angelucci