Fermento dell’attesa ed elogio della tradizione ne Il maestro di go di Kawabata
Una leggenda del go conclude la sua carriera con un ultimo, appassionante duello contro un astro nascente del gioco. Una sfida lunga ed estenuante, che contrappone un maestro a una promessa, quando la vita si fa arte e il gioco una rivalità di prospettive.
Paese che vai, ritmo che trovi
Meijin, o Il maestro di go in traduzione italiana, deve essere stata una sorpresa a inizio anni ’90, quando esordisce sul mercato nostrano con l’editrice SE. In quella decade ci trovavamo già immersi in una densa rete globale, dove i minuti fuggono, i piaceri si strappano e si consumano in un battito di ciglia, in una foga edonistica che non dimora che un’istante in ogni sensazione. Deve essere risultata un’opera inattesa, quantomeno agli occhi di un pubblico che si libra nella nube culturale occidentale, così votata all’estetica (splendida) della superficie e al facile e turbolento trasporto emotivo. Il nobel Kawabata in questo libro ci restituisce invece un’immagine classica, che nel XXI secolo percepiamo forse come folle e distante, di uno scontro tra titani di un gioco da tavola. Per noi la lunghezza di una simile partita, per esempio nel gioco degli scacchi, si misurerebbe in ore. Dieci, venti nei casi più estremi. Ma non è così nella cornice culturale nipponica: questa sfida durò in realtà sei mesi, e così, da giornalista inviato, il giovane Kawabata la mise nero su bianco e la inviò al quotidiano per cui lavorava, il Tōkyō nichinichi.
Gare lontane dallo spazio e fuori dal tempo
Il maestro Shūsai, leggenda del go col titolo di Meijin (名人) giunta all’ultimo atto della propria carriera professionistica, si appresta allo scontro con il più quotato degli avversari, Otake (nella realtà Kitani Minoru). È il 1938, da sei anni ormai il Giappone, spinto dal nazionalismo imperante delle forze armate, ha invaso la Manciuria e creato lo stato fantoccio del Manshūkoku, mentre i rapporti con le maggiori potenze occidentali sono incrinati, anche se presto si salderanno quelli dell’Asse tripartito, nell’anno 1940. Nonostante questi fondamentali eventi storici e l’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale, i giornali impazzano per la sfida, seguitissima da tutti i maggiori quotidiani dell’epoca: nell’arco di mezzo anno i due contendenti si incontrano e scontrano a più riprese e Kawabata, con dovizia di particolari, ci riporta mossa dopo mossa lo sviluppo del confronto sul goban. Le scelte richiedono anche giorni di riflessione, spesso lontano dal campo di gioco, immersi in luoghi sperduti, lontani dal nevrotico urbanismo delle metropoli. Al termine, la partita conterà più di 230 mosse e sarà vinta dalla nuova, ascendente leva della disciplina, per una manciata di punti sul decano del gioco, decretandone così la fine professionistica e il passaggio di testimone a una nuova generazione di giocatori.
Se la psiche si fa orizzonte
Nelle righe de Il maestro di go ci si può immergere solo se si apprezza il dettaglio, la pazienza, la contemplazione e la riflessione. In questo libro non c’è spazio per la fretta, né per le emozioni semplici da guardare e decodificare. Tutto è misurato, costruito con attenzione e devozione agli aspetti interiori: si sviscera la tribolazione psicologica dei due goisti, la tensione che li lacera sul campo e nell’attesa del ritorno alla fase attiva della partita. Si confrontano la vecchia e la nuova generazione, una forma artistica e una razionale di giocare, più fredda e aggressiva, a tratti irrispettosa dell’aura simbolica che ammanta il Meijin, ma infine vittoriosa. È una contesa tra due modi di vivere il gioco, due modi di approcciarsi alla tradizione e alla sua eredità, in un periodo di pesanti cambiamenti e influenze che dall’Occidente portano nuove forme di pensiero e atteggiamenti inusitati. La lentezza, la descrizione certosina delle pedine e delle mosse che si susseguono può essere straniante per un pubblico come il nostro, abituato a trame dinamiche costellate di rivolgimenti che si avvicendano senza soluzione di continuità. Eppure, questa narrazione sa ghermire soavemente, parola dopo parola, e ci insinua tra i meandri delle menti dei due protagonisti, illustrandoci quadri verosimili dei loro paesaggi psicologici.
In sintesi, questo libro è un’opera apprezzatissima di Kawabata, tra le sue più riuscite in una lunga produzione che va dall’avanguardia alla riscoperta dei grandi classici del Sol Levante. Rientra a pieno titolo tra gli scritti imprescindibili del grande ingegno letterario di questo autore e risulterà appassionante per chi sia disposto a farsi contagiare dalla febbre competitiva dei grandi maestri del go.
—recensione di Antongiorgio Tognoli.
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