Autore: Murakami Ryū
Titolo originale: 限りなく透明に近いブルー Kagirinaku tōmei ni chikai burū
Editore: Atmosphere Libri
Traduzione e postfazione: Bruno Forzan
Edizione: 2020
Pagine: 149
Contesto storico e letterario
Siamo ormai nella seconda metà degli anni ’70, il Giappone è nel pieno della floridezza e della prosperità economica e la prostrazione dovuta alla pesante sconfitta nel Secondo Conflitto Mondiale sembra ormai alle spalle. Sotto il velo dell’apparenza, tuttavia, un Giappone nel vivo del suo boom economico cela gli aspetti più oscuri della propria società. Se c’è un autore che meglio di chiunque altro riesce ad infilare la propria penna ben dentro al cuore della società in cui vive, questi è certamente Murakami Ryū. Il suo romanzo d’esordio, Blu Quasi Trasparente (pubblicato nel 1976, quando Murakami ha solo 24 anni), vince il più importante premio letterario giapponese: l’Akutagawa, riservato agli autori di letteratura alta (jūn bungaku). Un’assegnazione quanto mai controversa, che divide in modo netto la giuria: chi vota contro il romanzo, lo fa muovendovi critiche violente.
La frattura della giuria è però la stessa che fa breccia nel canone letterario del Giappone. Blu Quasi Trasparente apre la strada ad un nuovo tipo di letteratura alta: una letteratura scritta da giovani, per giovani. E se in questo Murakami Ryū anticipa autori come l’omonimo Haruki o Banana Yoshimoto, certamente non lo fa dal punto di vista dei temi trattati. Il suo romanzo d’esordio è crudo, violento, onirico, spietato. Non dà punti di riferimento al lettore, non gli regala una bella trama o un’estetica piacevole. Ed è proprio questo il punto fondamentale da tenere a mente prima di affrontare la lettura di quest’opera.
Romanzo dell’io?
Il romanzo è ambientato a Fussa, vicino alla base militare di Yokota, e segue le vicende di un gruppo di giovani poco più che ventenni. È narrato in prima persona dal protagonista il cui nome, non a caso, è proprio Ryū. Appare chiaro fin da subito come l’opera voglia apparire in forma di testimonianza personale dell’autore, che aveva vissuto sulla propria pelle l’ingombrante presenza americana in Giappone, in particolare a Sasebo. Malgrado non ci sia dato sapere quanto la percentuale di autobiografismo sia consistente nell’opera, la novità del romanzo si manifesta anche in questa scelta. In un mondo letterario dominato dal romanzo dell’io (shishōsetsu), in cui l’esperienza del protagonista tende ad essere lo specchio di quella dell’autore, Murakami ne riprende certe caratteristiche e le sposta in un’ambientazione del tutto nuova, trattando un nuovo tipo di tematiche con uno stile di scrittura frammentario e scomposto. Non sembra esserci una logica consequenziale nella successione degli eventi: Murakami scaglia addosso al lettore una serie di immagini sfuocate ma raccapriccianti, che sembrano avere come unico fine il suscitare disgusto e ribrezzo.
Soffocamento e violenza
“Nella stanza sprofondata nel buio più totale si percepisce soltanto il respiro di Reiko; mentre cerco di resistere alla nausea, vado man mano perdendo coscienza di me stesso. Dalle ascelle di Reiko, che è di sangue misto, proviene un odore dolciastro simile a quello dell’ananas andato a male.”
A dominare il romanzo è un costante senso di chiusura, di oppressione fisica e mentale: una perenne asfissia, un’impressione di soffocamento. I personaggi sembrano non distinguere i contorni della realtà che li circonda, e di conseguenza nemmeno il lettore ne è in grado. Sono personaggi che ci vengono presentati come fogli di carta velina, senza alcun spessore, in preda agli eccessi di cui si nutrono ogni giorno. Ci appaiono persi nel nuovo tessuto urbano, rimodernato dopo le difficoltà del primo dopoguerra e l’arrivo del boom economico. Tutto è violenza, tutto è eccesso. La costante assuefazione dovuta al consumo di droghe riduce al delirio i rapporti umani: un delirio che invade ogni situazione e cancella i sentimenti. Murakami non fa filtrare alcuna aria di romanticismo: persino l’amore è violenza allo stato puro, mera soddisfazione carnale derivante dal sesso estremo e dall’utilizzo di sostanze stupefacenti.
L’influenza americana
L’influenza culturale esercitata sul Giappone dagli USA è importantissima nel primo dopoguerra. Dalla costituzione scritta sul modello americano fino ad aspetti più propriamente culturali, come la passione per il baseball, l’America sembra plasmare un nuovo Giappone a propria immagine e somiglianza. Figlia di un periodo in cui non si è vissuto l’orrore della guerra, la generazione di Murakami Ryū vive nel pieno del boom economico, dove sembra che nulla possa mancare.
Ciò che l’autore tenta di sottolineare è la mancanza di valori di un’intera generazione, che è costretta a rincorrere i falsi miti del sogno americano e l’idealizzazione di quella cultura. Gli stessi soldati americani amici del protagonista sono interessanti solo in quanto americani, non sembrano avere altra reale attrattiva. Figli una generazione cresciuta con il mito del rock’n’roll, delle droghe sintetiche e degli hippie; una generazione che idealizzava questi concetti e li seguiva senza quel tipo di distacco che differenzia un semplice interesse da una fissazione morbosa. Questo aspetto, peraltro, verrà trattato da Murakami in modo ancora più esplicito undici anni dopo, con 69.
Un grumo di umanità
Tuttavia attraverso il sogno Murakami riesce a dare voce al mondo interiore dei suoi personaggi. I loro pensieri più profondi paiono spesso insondabili, sembrano accontentarsi dei loro eccessi, che estremizzano per raggiungere l’apatia, per non sentire ciò che davvero provano. È nei pochi momenti di vera quiete che i personaggi di questo libro sembrano essere davvero loro stessi. L’esistenza di questi momenti dimostra che esiste un qualcosa di autentico in loro; un nocciolo di umanità e probabilmente di innocenza perduta che vorrebbero recuperare, pur senza esserne coscienti. Un’innocenza perfettamente rispecchiata dal personaggio di Ryū, che guarda il mondo con occhi da bambino e costruisce con la mente città immaginarie, perché la città in cui realmente vive non gli appartiene.
“E ad un certo punto, immancabilmente… Immancabilmente tutto diventa una sorta di gigantesco palazzo, mi si crea dentro alla testa questa specie di palazzo dove si riunisce tantissima gente che fa un mucchio di cose diverse. Quando è finito e ci guardo dentro è davvero divertente, sembra proprio di guardare la terra dall’alto di una nuvola. Perché c’è di tutto, ci sono tutte le cose di questo mondo.”
La dicotomia tra la città e una cultura che non è realmente propria porta a vivere una contraddizione, a percepire un certo distacco verso il posto in cui si vive. In questo romanzo la città è freddamente ordinata, banale, fatta di persone con cui i personaggi del romanzo non riescono ad interfacciarsi realmente, neanche nella più banale delle interazioni sociali. Sono una realtà, una città ed una condizione vissute come qualcosa di non realmente proprio, guardate quasi con distacco. Un distacco che i personaggi raggiungono solo tramite l’eccesso, infliggendosi continuamente del male (sia con droghe pesanti, sia con sesso selvaggio finalizzato solo all’autoannientamento), finché persino l’eccesso diventa normalità. L’unico modo per uscirne è cercare di soffermarsi su se stessi e condividere con gli altri la propria ritrovata umanità.
— recensione di Simone Lolli e Pietro Spisni
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