13 Assassini (2010)

13 Assassini, 十三人の刺客
(Giappone, 2010)

Regia: Miike Takashi

Cast: Yakusho Kōji, Inagaki Gorō, Yamada Takayuki

Genere: drammatico, storico

Durata: 125 minuti

13 Assassini è un film del 2010 diretto da Miike Takashi. Si tratta di un remake del lungometraggio del 1963 con lo stesso titolo, diretto da Kudō Eiichi. La pellicola ha da subito riscosso un grande successo di critica in patria, ricevendo ben dieci candidature al 34° Japan Academy Prize e vincendone quattro. Inoltre, è stato presentato al Yokohama Film Festival, dove ha vinto i premi come Miglior Film e Miglior Sceneggiatura. L’opera ha riscosso un notevole successo anche all’estero, ricevendo critiche positive in Europa e Nord America, che lo avvicinano alla produzione di Kurosawa Akira.

Siamo nell’anno 1844, lo Shogunato Tokugawa è ormai in declino e il sadico Signore di Akashi, Matsudaira Naritsugu, commette indisturbato le più indicibili atrocità sulla popolazione e sui nobili delle altre casate. Dato che il suo fratellastro è niente meno che lo Shogun, nessuno sembra essere in grado di mettere un freno alle sue barbarie, e quando egli diventerà membro del consiglio shogunale, sarà guerra civile.

La pellicola si apre sul cortile di una residenza nobiliare dove un uomo, che si scopre essere il Signore di Mamiya, commette pubblicamente seppuku (una forma di suicidio rituale) in protesta al rifiuto dello Shogun di punire Naritsugu per aver massacrato la sua famiglia. Quando lo Shogun insiste nel volerlo promuovere nonostante tutto, il suo vecchio consigliere, Doi Toshitsura, decide che è arrivato il momento di intervenire. Egli va in cerca di una vecchia conoscenza, il samurai Shimada Shinzaemon, e lo ingaggia in segreto per assassinare lo spietato Signore. Shinzaemon riunisce altri undici samurai e insieme pianificano l’attacco, che dovrà compiersi nel corso del viaggio di ritorno di Naritsugu da Edo ad Akashi. I fedeli sottoposti di Naritsugu non rimangono certo con le mani in mano e, venuti a conoscenza del piano segreto, si preparano al contrattacco. Però, non hanno idea di cosa gli aspetta.

In 13 Assassini, l’assoluta spietatezza e apatia di Naritsugu si contrappongono ai saldi principi e alle forti passioni del piccolo gruppo di samurai. Siamo ormai al crepuscolo dell’epoca Tokugawa, un tempo periodo di splendore della classe samuraica, e questa decadenza si riassume proprio nella figura di Naritsugu, crudele ed efferato, per cui l’unico valore da perseguire è l’assoluta e indiscriminata obbedienza al proprio signore. Il sadismo, la ferocia, la perversione e la totale disumanità che caratterizza il Signore di Akashi lo rende una presenza a schermo assolutamente ripugnante, grazie all’eccezionale performance di Inagaki Gorō. 13 Assassini è un film avvincente, emozionante e a tratti scioccante, in grado di catturare l’attenzione dello spettatore per la sua durezza e la sua travolgente drammaticità.

 

—recensione di Matteo Aliffi.

Tasogare Seibei – The Midnight Samurai

Titolo: The Midnight Samurai

Titolo originale: たそがれ清兵衛

Regista: Yamada Yōji

Uscita al cinema: 2 Novembre 2002

Durata: 129 minuti

 

La Trama

Seibei Iguchi è un samurai di basso rango del Clan Unasaka che dopo la morte della moglie per tubercolosi si trova ad affrontare mille difficoltà quotidiane; infatti, deve crescere e accudire le due figlie di 5 e 10 anni e curare la vecchia madre affetta da demenza senile, ed è costretto a sfuggire alla vita sociale e la compagnia degli amici guadagnandosi così il nome di “Seibei il Crepuscolo”. Tuttavia le cose cambiano quando Seibei rincontra dopo tanti anni un’amica d’infanzia, Tomoe, sorella di un suo vicino tornata a casa dopo il divorzio da un prepotente Samurai più anziano di lei. Egli a seguito di un litigio con il fratello di Tomoe, si troverà a sfidare a duello Seibei, subendo un’umiliante sconfitta. A seguito di ciò un anziano samurai si avvicinerà a Seibei, portandolo a riavvicinarsi alla sua vecchia vita da guerriero.

Il Crepuscolo del Samurai

Narrato in retrospettiva dalla figlia adulta del protagonista, il cui voice-over mai invadente scandisce l’incedere della trama e poi la chiude su una nota di ineluttabile amarezza, The Twilight Samurai è un film profondamente umano sull’amore corrisposto ma impedito dalle circostanze, tutto giocato su un senso pudicissimo del romanticismo e sulla gravità della violenza, mai cinematografica ma essenziale e realistica anche grazie all’uso reiterato della profondità di campo, che dona alle scene prossimità ma anche distacco.
Tutto com’è incentrato su un uomo piegato, ma mai schiacciato, sotto il peso dei suoi doveri, sia istituzionali che privati, sia professionali che affettivi, è un’opera che della figura del samurai esalta la disciplina ma anche la dolcezza, la poesia, un’opera in grado di aggiungere sempre qualcosa in più ai propri personaggi con ogni dialogo o sguardo: che sia un’emozione o un pensiero, un timore o una diffidenza, Yamada Yōji è attentissimo a trasmettere sensazioni e aspettative attraverso ogni inquadratura. Ben più interessato ai sentimenti che all’azione il regista delinea un’epica del quotidiano e un’esaltazione della vita – anche di fronte alla morte – senza trascurare nulla dell’esistenza di un uomo, dai grandi rimpianti alle piccole gioie, dalle fatiche alle leggerezze.
Arriva addirittura a tratteggiare, con estrema padronanza del mezzo filmico, un passato sempre fuori campo e un futuro già scritto che però non si vedrà mai.

—recensione di Massimo Magnoni.

Shokudō Katatsumuri || Cineteca JFS

Shokudō katatsumuri, in inglese Rinko’s restaurant, è un film del 2010 diretto da Tominaga Mai e ispirato dall’omonimo romanzo di Ogawa Ito.

A seguito di un’infanzia complicata, la piccola Rinko decide di lasciare il paesino natio per fuggire dalle cattive voci che tormentano la sua vita quotidiana. Arriva così a Tōkyō dove si sistema con la nonna dalla quale impara a conoscere i segreti della cucina e ad amarne l’arte, maturando così il desiderio di aprire un posto tutto suo. Tuttavia, per lo shock dovuto alla morte della nonna e al brusco allontanamento del fidanzato che la deruba dei soldi messi da parte per il ristorante, la giovane perde la propria voce.

Rinko decide perciò di tornare nei luoghi della sua infanzia e riallaccia i rapporti con l’eccentrica madre con la quale ha sempre avuto un rapporto freddo. Qui la giovane decide di perseguire il suo amore per la cucina e, con l’aiuto di un vecchio amico, trasforma il magazzino della madre in un piccolo ristorante nel quale accetta però solo una prenotazione al giorno che le permette di dedicare una cura particolare alla preparazione di ogni pietanza.

Immersa nella verdeggiante campagna giapponese, la vicenda ritrae in maniera unicamente leggera le storie dei vari clienti, tutti con una delicata e personale storia alle spalle. Grazie alla sua cucina, che sembra quasi avere poteri magici, Rinko riesce a scaldare il cuore dei suoi avventori e a colorare la loro quotidianità in un percorso che le farà riscoprire affetti mai veramente vissuti.

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Gemini (1999)


Titolo: Gemini
Titolo originale: 双生児
Regista: Tsukamoto Shin’ya
Uscita al cinema: 15 settembre 1999
Durata: 84 minuti

Gemini è un film drammatico del 1999, diretto da Tsukamoto Shin’ya, presentato alla 56ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia nella sezione ‘Cinema del Presente’.
La pellicola è ambientata all’inizio del 20° secolo, al tramonto dell’epoca Meiji; Yukio è un medico di successo che gode di grande fama in città e vive una vita apparentemente perfetta.

L’unica macchia d’ombra nella sua esistenza è l’amnesia della moglie che ne rende misteriose le origini ed è proprio per questo motivo che i genitori del protagonista osteggiano la loro unione.

A mettere in moto l’azione, però, è il ritrovamento del cadavere del padre morto in circostanze sospette. È proprio in questo momento che la vita perfettamente in bilico di Yukio viene stravolta e il gemello del protagonista, abbandonato dai propri genitori, torna a riprendersi ciò di cui è stato
privato.

La pellicola è liberamente ispirata a un racconto breve di Edogawa Ranpo, considerato il padre del giallo giapponese. L’originale, tuttavia, è più interessato a dipingere un nuovo metodo d’indagine; l’inchiesta ritratta nel racconto è considerata, infatti, una delle prime investigazioni scientifiche della letteratura per l’uso delle impronte digitali. Il cineasta, al contrario, sembra più interessato al tema dell’identità e come lo sviluppo di essa viene fortemente influenzata dal milieu, l’ambiente sociologico e culturale nel quale l’identità dell’individuo viene a formarsi.

Il film è molto distante dal tipico stile di Tsukamoto e dalle sue ambientazioni futuristiche che lo hanno reso capofila del cinema cyberpunk giapponese. Questa pellicola, infatti, ritrae la società del tardo periodo Meiji in tutti i suoi aspetti più controversi. L’astio dei genitori per la nuora e le sue misteriose origini è uno di questi e sta proprio a sottolineare l’importanza dell’identità nella società giapponese di inizio Novecento.
Un altro tema sicuramente fondamentale nello sviluppo della storia è quello del doppio. Nel film non si scontrano solo due gemelli ma anche le realtà dalle quali gli stessi provengono; la vita statica, fredda e silenziosa del medico di successo è giustapposta a quella sgargiante e caotica dei bassifondi della città nei quali il gemello Sutekichi è cresciuto che vengono ritratti nel film in maniera estremamente pittoresca.
Questo forte accostamento è volto, ancora una volta, a dare un’immagine più completa del periodo Meiji come complessa fase di transizione fra il passato samuraico e il progresso di stampo europeo imposto dalle istituzioni.

 

—recensione di Pietro Neri.

Achille e la tartaruga (2008)

Titolo originale: アキレスと亀
Regista: Takeshi Kitano
Uscita al cinema: 20 settembre 2008
Durata: 119 min

La Trama

Machisu è nato da una famiglia benestante ma rimane presto orfano di entrambi i genitori. Quando il padre si suicida dopo il fallimento della propria azienda, la matrigna lo manda a vivere con una coppia di zii che lo maltrattano, sino a quando lo mettono in un orfanotrofio. Da adolescente Machisu studia presso una scuola d’arte e trova il proprio stile di pittura sfidato dai lavori più sperimentali e concettuali dei compagni di studio. Tuttavia, Machisu riesce a stringere amicizia con un’altra studentessa, Sachiko, che è un “partner che capisce”. I due si sposano e nasce loro una figlia. Con il tempo, l’ossessione di Machisu di raggiungere gli standard dell’arte contemporanea aumenta sempre di più sino a sopraffarlo e annullare la sua esistenza, lasciandolo insensibile a tutto quanto avviene attorno, inclusa la morte della figlia e l’essere lasciato dalla moglie. Mentre le persone che lo circondano muoiono e se ne vanno, Machisu prova come meglio può a tenere il passo con le attese degli esperti d’arte, rimanendo senza un soldo e divenendo sempre più patetico.

Durante la pellicola sorgono molte situazioni leggermente umoristiche, ma il film non punta in ogni momento a grasse risate. Le scene dell’artista “di mezza età” (interpretato da Kitano) che convince la moglie solidale a realizzare la sua arte sono anzi lunghe, e diventano progressivamente crudeli. Inoltre, Achille e la Tartaruga a volte risulta un po’ confusionario e incoerente, similmente alle altre due parti della trilogia, da cui differisce a causa delle prime due parti del film, divertenti e accessibili al pubblico. La terza parte del film, tuttavia, spesso ricade in una serie di sketch comici scollegati tra loro e dal resto del film.
Un’arte pericolosa

Kitano infilza la cultura dell’arte moderna globale e si prende gioco anche del suo stesso lavoro.
Questo film sul mondo dell’arte moderna, afferma che quasi tutti gli artisti contemporanei hanno interpretato male il valore artistico e la creatività cercando solo la fama e il successo commerciale.
È un racconto crudele dell’arte, come spiega l’autore, una parabola dell’artista “maledetto”, che, come Achille, resta indietro e non riesce a raggiungere mai la tartaruga del successo e della perfezione, finendo per logorarsi.

Inoltre, tramite questa passione, Machisu affronta le situazioni dolorose che la vita gli pone, con uno sguardo oggettivo, come se gli eventi fossero semplicemente qualcosa da rappresentare su tela. L’artista passa dalle vicende drammatiche a momenti di ilare leggerezza, come se fossero solo spennellate di colore su una tela scura, mostrando una distanza quasi inquietante.

 

—recensione di Paolo Segala.

Yōkame no semi (2011)

Yōkame no semi, in inglese Rebirth, è un film drammatico del 2011 diretto da Narushima Izuru e ispirato al romanzo omonimo della scrittrice Kakuta Mitsuyo.

Spinta a rinunciare al proprio bambino a seguito della fine del rapporto extra-matrimoniale con Takehiro, Kiwako decide di rapire la bambina che l’uomo ha avuto con la propria moglie. Così, la donna inizia a crescere da sola la neonata, che ribattezza Kaoru, col desiderio di vivere la maternità che le era stata portata via.

Solo dopo 4 anni Erina viene ritrovata dalle autorità in una sperduta isola del sud del Paese e riportata ai genitori che però non riesce a riconoscere come tali. Con una madre ormai estraniata dal proprio ruolo e un padre sempre più distante, la giovane non è in grado di trovare pace e decide presto di lasciare casa per vivere da sola. È l’incontro con Chigusa, una giornalista freelance curiosa di conoscere il suo passato, che la porterà a rivivere il suo doloroso vissuto e a ritornare nei luoghi della sua infanzia.

Fra i numerosi premi ricordiamo quello per miglior film e regista alla 35esima edizione del Japanese Academy Prize e quello per migliore attrice ai Cinema Junpo Awards.

I continui salti temporali e la profondità dei personaggi permettono alla pellicola di approfondire la psicologia dei personaggi non catalogabili nelle dicotomiche etichette di ‘buono’ o ‘cattivo’. Comprendiamo il dolore di Kiwako nel rapire una bambina non sua e i profondi traumi che accompagneranno Erina per tutta la vita ma che le permetteranno anche di trovare un nuovo entusiasmo per il suo futuro di madre.

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