Monster – Kore’eda Hirokazu || Recensione

Regia: Kore’eda Hirokazu

Anno: 2023

Durata: 125 minuti

Genere: Drammatico

Attori principali: Sakura Andō, Eita, Mitsuki Takahata, Shido Nakamura, Yuko Tanaka

Kore’eda Hirokazu ritorna con la sua nuova pellicola dal titolo “Monster” (Kaibutsu 怪物), meritatamente premiata alla 76° edizione del Festival di Cannes.

Saori è una mamma single che, purtroppo, comincia ad accorgersi troppo tardi dell’atteggiamento alquanto preoccupante del figlio, Minato. Quest’ultimo, infatti, mostra dei comportamenti autodistruttivi che portano Saori a pensare che debba essere necessariamente successo qualcosa a scuola. Minato confessa, allora, di aver subito degli abusi, sia verbali che fisici, da parte del professor Hori: a sua detta viene strattonato, spinto e accusato di avere “il cervello di un maiale”. Saori decide di farsi avanti a scuola e di voler far assolutamente licenziare il presunto colpevole di questi atti, fino a quando non viene messo in mezzo anche il nome di un altro bambino, Hoshikawa. Ma quale sarà la verità? Esisterà davvero questo colpevole? E qualora esistesse, sarà davvero il professor Hori?

“Monster” mette alla prova lo spettatore fin dall’inizio: capiamo subito che qualcosa non quadra, e siamo portati a diffidare di tutti i personaggi, dal primo all’ultimo. È per questo motivo che è importante conoscere tutte le versioni dei fatti per arrivare alla verità che, come ben sappiamo, sta sempre nel mezzo. I punti di vista presentati, rispettivamente quello di Saori, del professor Hori, e dei due bambini Minato e Hoshikawa, fanno sì che venga messa in atto una sorta di staffetta in cui il ruolo di carnefice passa da un personaggio all’altro. Mentire si rivela essere l’unico modo per impedire che il nostro vero io sia rivelato agli altri.

Concetto ricorrente all’interno della storia è quello della corrispettività tra diversità e mostruosità. Se si è diversi, si è dei mostri. Chi ha il cervello di un maiale, non può essere umano. Ma che cos’è davvero la diversità? Non siamo già tutti diversi? È a queste domande che Hoshikawa ormai ha già risposto da tempo, mentre Minato, pur sapendo qual è la risposta, non trova il coraggio di accettarla. Non possiamo scegliere chi e come essere, e la “malattia” non può essere curata a forza di botte, contrariamente a ciò che crede il padre di Hoshikawa. L’unica risoluzione finale concepibile è che nessuno è un mostro, ma alla fine tutti siamo dei mostri.

“Monster” è una storia piena di paura: paura di se stessi, dei propri sentimenti; paura degli altri e di ciò che potrebbero fare o pensare; paura di scoprire la verità su chi abbiamo di fianco. Ma soprattutto, paura di essere diversi, di essere mostri.

Recensione di Sara Orlando

Tokyo Sonata – Kurosawa Kiyoshi || Recensione

Regia: Kurosawa Kiyoshi

Anno: 2008

Durata: 121 minuti

Genere: Drammatico

Attori principali: Kagawa Teruyuki, Koizumi Kyōko, Yakusho Kōji

Film di maggiore successo dell’ormai consolidato regista Giapponese, “Tokyo Sonata” è un’avvincente esplorazione delle difficoltà vissute all’interno di una famiglia giapponese contemporanea e del suo progressivo sgretolamento. Il film approfondisce la complessità delle relazioni familiari, delle aspettative sociali e della ricerca della realizzazione personale.

Nella pellicola, seguiamo appunto le vicende della famiglia Sasaki, una famiglia di media classe composta da Ryūhei e Megumi, rispettivamente padre e madre di due figli, Takashi e Kenji.
Il nucleo familiare è immerso in un contesto il quanto più possibile capitalista: Ryūhei, padre e patriarca, si impone all’interno delle mura domestiche in maniera autorevole, ignorando le esigenze e le emozioni della propria moglie e dei propri figli; Megumi, nonostante le buone intenzioni non riesce a scrollarsi di dosso il ruolo sottomissivo che un matrimonio fondato puramente su basi opportunistiche le ha conferito, finendo per assecondare passivamente il fare del marito; i figli Kenji e Takashi, nonostante una buona capacità nel comportarsi educatamente a casa, finiscono per riversare poi all’esterno le ribellioni causate dalle svariate iniziative stroncate dal proprio padre.

Il film si apre con il licenziamento di Ryūhei dall’ufficio per cui ha lavorato per diversi anni. Questo evento sarà la singola goccia che romperà l’equilibrio di una famiglia all’apparenza normale.
Ryūhei infatti, incapace di mostrare il proprio fallimento e allo stesso tempo di accettare un’offerta di lavoro qualitativamente inferiore, fingerà di non essere mai stato licenziato, anche grazie all’aiuto di un suo amico di liceo, anch’esso disoccupato e finendo per vivere quasi una vita parallela alle spalle della famiglia.
Anche Kenji, figlio minore, inizia a seguire segretamente lezioni di piano, nonostante un categorico divieto del padre.
Takashi, il figlio maggiore vive dissociandosi dalla propria famiglia ed è quasi sempre fuori casa, nascondendo dentro di sé una grande insoddisfazione e incertezza nei confronti della vita.
Megumi, nonostante sia cosciente che il suo ruolo in quanto madre e moglie è quello di tenere unita la famiglia, non riesce comunque a trovare la forza necessaria per superare questi avvenimenti e finisce per scappare.
Questa serie di bugie e cose non dette finiscono progressivamente per sovrapporsi l’una sull’altra, culminando nel fallimento personale dei personaggi e nella conseguente dissoluzione della famiglia.

In seguito a svariati eventi che portano ogni singolo membro a vivere un’esperienza che lo porta a vivere il picco della propria inquietudine esistenziale, decidono alla fine comunque tutti di tornare nella propria casa, con un’iconica scena che mostra il solito pasto svolto nel totale silenzio, incapaci di comunicare e finendo col nascondere ancora una volta il proprio malessere.

L’esplorazione dell’identità, dell’impatto delle difficoltà economiche e della ricerca di uno scopo individuale nel film risuona universalmente, rendendolo un commento toccante sulla condizione umana. L’abilità di Kurosawa di fondere commenti sociali e drammi familiari intimi si traduce in un film che resta nella mente dello spettatore, invitandolo a riflettere sulle complessità della vita moderna e sulla ricerca della realizzazione personale.

The last 10 years || Recensione

Regia: Michihito Fuiji

Anno: 2022

Durata: 124 minuti

Genere: romantico, drammatico

Attori principali: Lily Franky, Hideko Hara, Nao Honda, Satoru Iguchi, Nana Komatsu.

The Last 10 Years”, con titolo originale 余命10年 (Yomei Jū Nen), è una pellicola del 2022 di Michihito Fuiji, regista conosciuto per film come “The Journalist” e “Ao no Kaerimichi”.

Si tratta della storia di Matsuri Takabayashi, una ragazza affetta da una grave forma di malattia polmonare a causa della quale le rimangono dieci anni di vita. Dopo essere stata dimessa dall’ospedale, si ritrova a dover affrontare la vita da adulta che per tanto tempo non ha conosciuto. Una sera, viene invitata da delle amiche di vecchia data a una rimpatriata con la classe delle scuole medie e qui incontra Kazuto Manabe. Kazuto vive una situazione complicata: la sua famiglia non vuole avere nulla a che fare con lui, e dopo essere stato licenziato per l’ennesima volta, tenta il suicidio. Tramite questo evento comincia prima un’amicizia e poi una storia d’amore speciale, sempre vissuta in modo più profondo da parte di Kazuto, che all’inizio non viene messo al corrente da Matsuri della sua malattia.

Per tanto tempo la protagonista è stata consapevole che un giorno sarebbe semplicemente scomparsa, e ormai l’idea non la spaventa più. Una ragazza rassegnata davanti alla morte e un ragazzo rassegnato davanti alla vita: questo è ciò che ci viene inizialmente presentato di Matsuri e Kazuto. O almeno, questo è quello che sono fino a quando non si incontrano, aprendosi a un nuovo capitolo nel racconto. La loro convergenza fa sì che uno rappresenti la ragione di esistere dell’altro, ciò che li rende capaci di prendere la loro vita in mano e di plasmarla in qualcosa di nuovo e bellissimo. Si spingono l’un l’altro a migliorare costantemente, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista lavorativo e dell’auto-realizzazione. Questi sentimenti provocano paura, perché rappresentano la prova vivente che entrambi, adesso, hanno qualcosa da perdere. Ma anche se sanno che non potranno rimanere insieme per sempre come tutte le coppie felici, sfruttano al massimo il tempo che hanno. Il film racconta una commovente storia d’amore che, però, non può fare a meno di aver come sottofondo storie di amicizia e di famiglia. Senza queste altre due componenti a farle da sostegno costante, Matsuri non potrebbe vivere la sua vita con la leggerezza che la caratterizza malgrado la sua malattia.

È interessante come per tutto il film la ragazza si impegni a riprendere con la sua videocamera ogni ricordo per lei importante; si tratta di un modo per rimanere per sempre nello stesso istante, per guadagnare un tempo che lei sa di non avere, per poter vivere se non nel futuro, almeno nel passato. Nonostante le tematiche trattate siano forti, la pellicola riesce ad esporle con dolcezza e a provocare nello spettatore un forte senso di nostalgia e di speranza, che riflette quella voglia di vivere e di poter sperimentare ancora la vita di Matsuri, che finalmente, grazie a Kazuto, ha ritrovato.

Recensione di Sara Orlando

Little Sister || Recensione

Regia: Kore’eda Hirokazu

Anno: 2015

Durata: 128 minuti

Genere: drammatico

Attori principali: Haruka Ayase, Masami Nagasawa, Kaho, Suzu Hirose, Ryo Kase

“Little Sister”, con titolo originale “Umimachi Diary”, è un film del famosissimo Kore’eda Hirokazu basato sull’omonimo manga di Akimi Yoshida.

Le tre sorelle Sashi, Yoshino e Chika, abbandonate ormai da 15 anni da entrambi i genitori, hanno imparato a vivere tranquillamente e in autonomia nella loro casa di famiglia a Kamakura. Questo equilibrio si scioglie quando ricevono un invito per il funerale del padre, che si era creato una nuova famiglia in un’altra città. Le sorelle si recano (più per dovere che per affetto) alla cerimonia, e qui incontrano la loro sorellastra, figlia del padre e dell’amante che rovinò il rapporto dei loro genitori, Suzu. Immediatamente Sashi, la sorella maggiore e colei che si è presa cura per tutti quegli anni delle due sorelle minori, sente di avere un’affinità particolare con la ragazzina. Anche Suzu, nel vedere da fuori il rapporto che le tre sorelle hanno e che lei essendo cresciuta da sola non ha mai avuto, vorrebbe costruire un legame con loro. Per questo motivo, Sashi  sente di voler liberare Suzu da quella cittadina in cui ormai non restava più niente per lei, e la invita a vivere con loro a Kamakura. Da qui comincia la storia delle, ora, quattro sorelle.

Il tema principale è, ovviamente, quello della famiglia, in particolare della sorellanza. L’unicità della pellicola sta nella delicatezza e nella sensibilità con cui Kore’eda si addentra in questa storia: ci viene mostrata una visione sorprendentemente ottimista che colpisce come una ventata di aria fresca; non si tratta del ritratto di un dramma familiare che ci aspetteremmo, anzi, viene a mancare proprio quello scontro generazionale che fa sì che i componenti della famiglia vadano via via allontanandosi per poi ritrovarsi alla fine. Suzu viene subito inglobata all’interno del meccanismo familiare nonostante i dubbi e le incertezze che la sua infanzia le ha lasciato, e la sua somiglianza con Sashi fa sì che quest’ultima riservi delle premure esclusive nei suoi confronti. L’ambiente-casa risulta essere il luogo sicuro, in cui le sorelle non possono essere separate da niente e nessuno, ed è quando si fuoriesce da questo che le situazioni si complicano. In questo senso, sono presenti dei fattori esterni che spesso vanno a intaccare, ma mai gravemente, il rapporto delle sorelle: delusioni amorose, lavorative, disaccordi su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Le quattro sorelle, che rappresentano anche quattro modi di essere, sono semplicemente donne che si amano l’un l’altra nonostante i rispettivi difetti.

La regia di Kore’eda ci catapulta nella loro intimità, ci fa sentire parte di questo rapporto speciale. L’andamento calmo e privo di straordinarietà fa sì che il film sia il riquadro della quotidianità, e soprattutto ci dimostra che una storia non deve essere un susseguirsi di eventi drammatici o sbalorditivi per considerarla degna di essere raccontata.

Recensione di Sara Orlando

L’ultimo Yakuza || Recensione

Regia: Takashi Miike

Anno: 2019

Durata: 108 minuti

Genere: azione, poliziesco, commedia

Attori principali: Masataka Kubota, Sakurako Konishi

L’ultimo Yakuza” è un film del rinomato regista Takashi Miike che mostra al pubblico la visione peculiare e controversa dell’autore di amore e violenza. Una pellicola portata in Italia nel 2019, nonostante il cinema occidentale non fosse abituato a film così fuori dagli schemi. Proprio per questo, il titolo originale 初恋 (letteralmente “primo amore”)  fu modificato in “L’ultimo Yakuza” nel nostro paese, per dare l’impressione al pubblico di star guardando un film classico sulla mafia giapponese.

Questa pellicola racconta di Leo, un giovane senza famiglia che fa il pugile e che apparentemente non mostra alcuna emozione, e di Monica, una ragazza abbandonata dal padre e costretta a prostituirsi per pagare i suoi debiti, finendo per diventare una tossicodipendente. Monica rimane coinvolta in un traffico di sostanze stupefacenti organizzato dalla Yakuza e un giorno, inseguita dal poliziotto corrotto Ōtomo, si imbatte in Leo. Il ragazzo mette al tappeto lo sbirro e decide di aiutarla a scappare. Lui intanto aveva scoperto di essere affetto da un grave tumore al cervello e quella notizia era stata la spinta necessaria per trovare il coraggio di farsi avanti e aiutare la ragazza di cui si era innamorato. I due si ritroveranno immersi in una folle avventura che, in una sola notte, porterà entrambi i protagonisti a scontrarsi con la triste e cruda realtà di quel mondo spietato da cui desideravano fuggire.

Il contrasto tra la storia dei due ragazzi, molto attenta alle loro emozioni e ai loro dolori più profondi, con racconti delicati e personali, e quella dell’inseguimento, dove la narrazione mostra evidente l’impronta del regista con sparatorie, tradimenti e violenze di ogni tipo, crea un film che riesce a passare dal dramma alla commedia, con dinamiche uniche e sopra le righe che hanno sempre caratterizzato tutta la grande produzione di Takashi Miike.   

Con questa pellicola, il regista vuole mostrare allo spettatore un’aspra critica del Giappone e degli aspetti più marci della sua società ma anche a scontrarsi con temi come la paura del proprio passato e il trovare il coraggio di affrontarlo a testa alta.

Sukiyaki Western Django || Recensione

Regia: Miike Takashi

Anno: 2007

Cast: Quentin Tarantino, Itō Hideaki, Kimura Yoshino et al.

Durata: 2 ore

Genere: Spaghetti Western

Colorato, originale e anarchicamente caotico, “Sukiyaki Western Django” rappresenta uno dei capolavori indiscussi dell’ampia produzione cinematografica di Miike Takashi. Con tinte ispirate ai classici Spaghetti Western, il regista ci propone un’inaspettata rivisitazione di un epos centenario saldamente radicato nella tradizione nipponica: lo storico scontro tra i Genji e gli Heike, calato nel film in un piccolo villaggio che pare uscito direttamente dai migliori film di Sergio Leone, fa infatti da sfondo e rappresenta il motore principale della trama. Dopo due secoli di battaglie, l’arrivo di un abile e misterioso pistolero sconvolgerà drasticamente i sottili equilibri del conflitto tra le due fazioni, riportando alla luce misteri dal passato e rancori apparentemente sopiti.

Dopo un inizio relativamente lento, il film è caratterizzato da un ritmo che si fa sempre più incalzante, in un turbinio di eventi contrastanti che si sovrappongono e si intrecciano senza tregua quasi sopraffacendo lo spettatore. Dietro la polvere di truculente battaglie, espressione cruda di un gusto tutto takashiano per uno splatter ai confini con il comico, emergono personaggi bizzarri, titanici nel loro essere ridicoli, veri e propri monumenti alla follia. Alla violenza onnipresente, agli eccidi volontariamente esagerati, alle risse da saloon e alle generose profusioni di litri di sangue delle sparatorie si affiancano senza nessun contrasto le tematiche dell’amore e del sacrificio.

Si tratta di un’opera fortemente autoironica che conosce e gioca con i limiti e con i topos del genere Western, portandoli alle loro estreme conseguenze: elementi tipici come la vendetta sono presenti e hanno un ruolo centrale nella trama ma sono manovrati con sapienza e con consapevolezza comica dal regista, che li svuota della loro valenza tipicamente drammatica e li spinge fino all’estremo, li deforma ben oltre il limite del risibile.

Elemento costante e unico dell’opera evidente già dal titolo è un tentativo costante di nipponizzare il genere, di avvicinare e fondere la tradizione prevalentemente occidentale del Western con l’elemento tipicamente giapponese. In questo modo si spiega una delle scelte stilistiche più evidenti e marcanti dell’intera opera: l’uso di un particolarissimo e sperimentale impasto linguistico, un inglese dall’accento e dalle forme marcatamente giapponesi, incrocio di due mondi che pur rendendo a tratti difficoltosa la comprensione contribuisce a dare ai dialoghi una connotazione particolarissima e rafforzare di volta in volta le possibilità drammatiche o comiche del linguaggio. Così come contribuisce ad avvicinare i due mondi il frequente riferimento alla Guerra delle Due Rose, autentica ossessione del personaggio di Kiyomori, vero esteta che vive (e muore) irriducibilmente fedele all’affinità che sente con il personaggio shakespeariano di Enrico IV.

Elemento d’eccezione è poi la presenza in qualità di attore di un inaspettato Quentin Tarantino, che apre il film e contribuisce in maniera decisiva alla sua conclusione.

“Sukiyaki Western Django” è quindi una pellicola estremamente singolare, movimentatissima, figlia unica e irripetibile dell’incrocio tra la tradizione tutta italica degli Spaghetti Western e il genio cinematografico di Miike, difficilmente dimenticabile nel suo sperimentalismo e sinceramente imperdibile per tutti gli affezionati e gli amanti del genere.

Recensione di Mattia Natali