Love at Least || Recensione

Regia: Sekine Kōsai
Durata: 109 min
Anno di uscita: 2018
Attori principali: Ishibashi Shizuka, Matsuhige Yutaka, Naka Riisa

La vita è difficile per Yasuko, soffre di depressione e ipersonnia e spende la maggior parte delle sue giornate sotto le coperte mentre la sorella maggiore la sprona a trovarsi un lavoro. Yasuko vive con il fidanzato, Tsunaki, che sembra riuscire sopportare la routine irregolare e ai cambiamenti di umore repentini della ragazza, ma che decide comunque di restare in una relazione con lei e supportarla economicamente. Lui è un impiegato per una rivista di gossip, non è felice durante le ore di lavoro e tornato a casa le sue cene consistono di tristi cibi preparati.

Nonostante il suo supporto, Yasuko ,frustrata dall’indifferenza del ragazzo e dalle costanti pressioni dalla sorella, incontra Ando, una ragazza che le procura un lavoro con l’obbiettivoperò di separare i due amanti per poter ritornare con Tsunaki. Yasuko viene assunta e questa esperienza la aiuterà a fare i passi giusti verso tempi migliori.

Love at least unisce elementi di dramma e romance, creando un’opera coinvolgente che mette davanti allo spettatore temi profondi: si potrebbe trovare la mancanza di motivazione e impegno da parte di Yasuko pesante ma vederla poi risbocciare dopo aver trovato un lavoro è rincuorante e porta lo spettatore a tifare per la ragazza.

I mucchi di vestiti e le sveglie che circondano il suo letto sembrano quasi proteggerla dalla realtà esterna, ed è proprio grazie a queste scelte cinematografiche che riusciamo a connettere con i personaggi. A questo concorrono anche le incredibili performance degli attori che riescono a portare in scena in maniera realistica ma rispettosa le emozioni dei personaggi.

La pellicola porta quindi non solo una rappresentazione di come la depressione può apparire in alcune persone, ma mostra anche l’influenza positiva che comprensione e supporto da persone esterne può avere sulle persone di cui ne hanno bisogno.

Recensione di Emma Dal Degan

Masquerade Night || Recensione

Titolo originale: マスカレード・ナイト
Regista: Suzuki Masayuki
Anno: 2021
Genere: Thriller detective
Durata: 2h 9min

Masquerade Night, film del 2021 di Suzuki Masayuki, è il sequel di Masquerade Hotel del 2019. Il primo film narrava l’infiltrazione sotto copertura di Nitta Kosuke, agente di Polizia, presso l’hotel Cortesia di Tokyo per catturare un serial killer. Qui, verrà aiutato e si scontrerà con la consierge dell’Hotel Yamagishi Naomi, venendo a creare una contrapposizione tra i metodi della Polizia, disposta a usare le maniere forti pur di catturare l’assassino, e gli ideali dell’Hotel stesso, che mette al primo posto il benessere degli ospiti.

Il secondo film riprende sin dal primissimo istante i meccanismi del primo: una donna viene uccisa in un modo piuttosto singolare, ovvero folgorata e vestita in stile Lolita; poco dopo, una lettera anonima viene consegnata alla Polizia, dichiarando che l’assassino colpirà ancora e che il teatro del crimine sarà proprio l’Hotel Cortesia durante il ballo in maschera di fine anno. In un istante, viene deciso di utilizzare la stessa strategia del film precedente, facendo infiltrare nuovamente Nitta tra lo staff dell’Hotel per catturare l’assassino entro la mezzanotte e impedire così il delitto.

Dove la prima pellicola si era presa tempo per caratterizzare i personaggi, costruire l’antitesi fra i caratteri dei protagonisti e generare una reale tensione nella storia creando una situazione al tempo stesso paradossale, drammatica e divertente, Masquerade Night invece liquida il tutto in quattro e quattr’otto, con il capo della Polizia che dice semplicemente a Nitta che dovrà infiltrarsi nuovamente nell’Hotel. In un istante e senza nessuna build up, è come se stessimo assistendo a un prolungamento dello scorso capitolo, con variazioni minime che riescono comunque a salvare il film il tanto che basta per renderlo piacevole, nonostante gran parte del merito vada al carisma degli attori, alla fluidità della sceneggiatura e alla sapiente regia.

Se a livello di trama, infatti, l’unico elemento degno di nota è il pressante countdown alla mezzanotte, inframezzato dalla presentazione dei vari personaggi e sospettati, il film è costruito in modo impeccabile, dai costumi alla fotografia, e ci porta a seguire le vicende con interesse e attenzione.

Assistiamo così all’evolversi della vicenda, con la Polizia che identifica due figure chiave nell’indagine, ovvero l’assassino, pronto a colpire nuovamente, e l’informatore anonimo che ha avvisato le forze dell’ordine e che sarà presente all’Hotel durante il ballo in maschera, con l’intenzione di ricattare l’omicida. Vari ospiti sono sospetti: Urabe, un uomo che sembra avere legami con l’ultima vittima; Sono, un uomo fedifrago accompagnato da moglie e figlio e che è in realtà solito incontrarsi al Cortesia Hotel con la propria amante, presente anch’ella alla serata; Kusakabe, un abbiente e viziato prepotente che potrebbe star utilizzando un nome falso; Nakane, una signora che ha prenotato una stanza per lei e il marito, il quale sembra tuttavia non esistere.

La Polizia lavora febbrilmente per schedare con discrezione tutti e 500 gli ospiti presenti, consci che da quando inizierà la festa tutti indosseranno una maschera e sarà impossibile identificarli. Il difficile equilibrio tra il proseguo delle indagini e il preservare il benessere e la privacy degli ospiti è tutelato dal lavoro di squadra di Nitta e Yamagishi, che non esiteranno a rischiare la vita per arrivare a scoprire la verità e a fermare il colpevole.

— Recensione di Chiara Coffen

The Yellow Handkerchief || Recensione

Regia: Yamada Yōji
Durata: 109 min
Anno di uscita: 1977
Attori principali: Takeda Tetsuya, Takakura Ken, Baishō Chieko, Momoi Kaori

Kinya non riesce ad accettare la rottura con la fidanzata e per questo lascia il lavoro, compra una nuova macchina e si mette in viaggio diretto in Hokkaido. L’uomo cerca disperatamente un compagno con cui condividere l’esperienza, preferibilmente una donna, e offre quindi un passaggio ad Akemi, una ragazza solitaria che sta cercando di dimenticare il tradimento del proprio ragazzo e che accetta controvoglia la proposta del giovane. La tensione tra i due è evidente ma sfumerà con il procedere del viaggio e con l’aggiunta di un nuovo personaggio.

Quando i due raggiungono finalmente il mare infatti, incontrano sulla strada per Sapporo Yusaku, un minatore di carbone sui trent’anni dalla personalità riservata, e gli offrono un passaggio. La storia passerà quindi dalle interazioni comiche tra Kinya e Akemi ai drammi mentali di Yusaku, che sta cercando di nascondere qualcosa riguardo al suo passato, senza far capire se ciò che vuole fare è ricordarlo o dimenticare.

All’inizio la pellicola può sembrare un semplice “slice-of-life” con qualche scena comica per intrattenimento ma con l’ingresso di Yusaku nella scena affiorano interessanti riflessioni introspettive attraverso flashback sul passato dell’uomo.

Yusaku diventa nel corso della storia il personaggio più interessante, con il quale ci si trova simpatizzare maggiormente provando il genuino desiderio di rivederlo felice dopo aver scoperto la sua tragica storia. Kinya e Akemi fungono quindi da tramite per lo spettatore, in quanto sono allo stesso modo ignari ma curiosi quanto il pubblico stesso di scoprire la verità.

Come sfondo a gran parte delle vicende vi è la regione dell’Hokkaido (nel nord del Giappone), che viene esplorata in tutta la sua bellezza con i numerosi scorci sempre presenti nella durata del film.

— Recensione di Emma Dal Degan

Linda Linda Linda | Cineteca JFS

Linda Linda Linda, è un film drammatico musicale diretto da Yamashita Nobuhiro ed uscito nelle sale giapponesi nel 2005.

In un liceo giapponese, una band composta da sole ragazze perde la propria cantante a causa di un infortunio di quest’ultima e di un conseguente litigio. Mancano pochi giorni al festival delle band studentesche e le ragazze si ritrovano così costrette a chiedere ad una studentessa a caso, Song intrepretata da Bae Doo-na, di partecipare alla band come cantante.
La ragazza è una studentessa coreana iscritta al liceo grazie ad un programma di scambio tra i due stati che però non capisce bene il giapponese e accetta senza aver capito di cosa si tratti.

Le ragazze si imbattono in una vecchia musicassetta anni ’80 della canzone Linda Linda della band giapponese The Blue Hearts da cui è tratto il titolo del film.
Sarà proprio grazie ai brani della punk band giapponese che l’amicizia tra le ragazze diventerà più solida. Così facendo, pian piano, Song riuscirà ad integrarsi e a trovare un canale di comunicazione nonostante l’ansia del palcoscenico e il problema della lingua.

Non si tratta di adolescenti problematiche né si parla di uno sfogo musicale da parte delle studentesse.
La pellicola infatti riesce a catturare l’estrema spontaneità di ragazze liceali che rappresentano a pieno la loro età.
Ciò grazie alla maestria del regista Yamashita Nobuhiro nel raccontare un periodo decisamente delicato ma altrettanto semplice.

Per maggiori informazioni vi invitiamo a visitare il nostro canale YouTube dove potrete visionare il nostro nuovo video insieme a tanti altri contenuti interessanti sul mondo della cinematografia giapponese e non solo!

Vi ricordiamo inoltre che il database di tutti i sottotitoli dei nostri film è a vostra disposizione qualora siate interessati a proiettarli all’interno delle vs manifestazioni. Oppure potete richiederci anche una nuova sottotitolazione scrivendo a info@takamori.it!

The Snow White Murder Case (2014) | Cineteca JFS

L’Associazione Takamori è lieta di presentarvi The Snow White Murder Case, thriller giapponese del 2014 diretto da Nakamura Yoshihiro.

The Snow White Murder Case, in giapponese Shirayuki Hime Satsujin Jiken, tratto dall’opera di Minato Kanae, è un film thriller diretto da Nakamura Yoshihiro ed uscito nelle sale giapponesi nel 2014.

Il corpo carbonizzato e violentemente accoltellato di una giovane donna viene ritrovato nascosto tra gli alberi di un parco. Si tratta della bellissima Miki Noriko, interpretata da Arai Nanao, una donna impiegata in nella ditta di cosmetici Hinode. La polizia interroga la collega Kana Risako, intrepretata da Renbutsu Misako, sua partner all’interno dell’azienda.
Risako, dopo essere stata interrogata dalla polizia, chiama il suo amico di vecchia data Akahoshi Yuji, interpretato da Ayano Go, il quale lavora come giornalista part-time per un programma TV.
Durante la conversazione, Yuji scrive le informazioni che ottiene da Risako su twitter e capisce che il caso in questione può essere un ottimo slancio per la sua carriera.
Decide quindi di interrogare gli altri colleghi di Noriko.

I sospetti cadono sulla timida quanto graziosa Miki, interpretata da Inoue Mao, la quale secondo quanto raccontato da un’altra collega provava forti sentimenti verso il manager della compagnia Shinoyama Satoshi il quale però non ricambia le attenzioni della donna e la respinge dicendo di avere una relazione con Noriko. La possibile gelosia di Miki verrà presa come possibile movente dell’omicidio di Noriko.

La pellicola si configura come un esperimento che unisce una componente social come Twitter ad una storia investigativa nella quale Yuji si trova a condividere ogni sospetto e informazione che si ritrova in mano.
L’opera di Nakamura esce dai paletti imposti dai canoni dei generi cinematografici in quanto non intende rimanere solo una storia investigativa ma, a più strati, esplora tematiche profonde come le problematiche di tipo personale che possono nascere sul posto di lavoro e quanto, oggigiorno, i media abbiano il potere di influenzare un caso di omicidio.

L’opera è stata presentata al Far East Film Festival 2014 e nominata al 38esimo Japan Academy Prize nel 2015 per il titolo di Miglior Attrice Protagonista grazie all’attrice Inoue Mao.

Per maggiori informazioni riguardo all’opera, vi invitiamo a visitare il nostro canale YouTube dove potrete visionare il nostro nuovo video (disponibile premendo qui), insieme a tanti altri contenuti interessanti sul mondo della cinematografia giapponese e non solo!

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Mori The Artist (2018) || Recensione

Titolo originale: モリのいる場所
Regista: Okita Shūichi
Uscita al cinema: 7 aprile 2018
Durata: 99 Minuti


RECENSIONE:

Tra i massimi esponenti della pittura giapponese del XX secolo, Morikazu Kumagai (1880- 1997) fu un personaggio altrettanto noto per il suo stile di vita; passò infatti trent’anni della sua vita senza mai lasciare l’abitazione, deliziandosi quotidianamente con delle lunghe escursioni nei rigogliosi giardini circostanti in piena contemplazione della flora e fauna.
Il film di Okita Shūichi, Mori, TheArtist’s Habitat, ambientato nel 1974 durante gli ultimi anni di vita dell’artista, desidera essere ben più che una semplice biografia.
Senza mai davvero concentrarsi sull’impegno di Morikazu nella pittura, il film vuole iniziarci piuttosto all’etica che precede l’operato artistico del pittore, che ogni giorno esplora il suo giardino incolto, osservando gli insetti, le trame delle pietre e il mutare della luce tra gli arbusti.
Scevro di conflitti e colpi di scena, il film si concentra sullo sguardo di un’artista che ha fatto della semplicità (ma non per questo invariabilità) la sua musa ispiratrice e che, liberato da ogni idea preconcetta sul mondo, è in grado di vederlo sempre diverso, trovando la gioia più grande sotto le rocce più piccole.
Okita fa del suo ritratto d’artista l’espediente per un’analisi ben più universale del tempo e dello spazio. La casa-giardino di Morikazu non può negare né frenare le forze motrici del mondo fuori, più vasto, difficoltoso e contraddittorio. Il giardino diventa un rifugio, allegoria di un mondo ideale, in cui l’artista (e quindi l’umano) cercano costantemente di rifugiarsi.
Come il pittore osserva gli insetti e il delicato universo che li circonda, così il registra osserva i propri protagonisti muoversi e relazionarsi. Nella casa-giardino Okita stesso si perde, trascinato dallo spirito contemplativo di Morikazu, e come lui si fa recipiente degli stessi concetti artistici, donandoci un’opera contemplativa, dai toni delicati, minimalisti, attenta alla natura multiforme della semplicità e che indaga la sottile linea che accomuna e separa il mondo naturale a quello umano.

Recensione di Claudia Ciccacci