The Ravine of Goodbye (2013) | Cineteca JFS

L’Associazione Takamori è lieta di presentarvi The Ravine of Goodbye, film drammatico giapponese del 2013 diretto da Ōmori Tatsushi.

Tratto dall’omonimo romanzo di Yoshida Shūichi, Sayōnara Keikoku, in inglese The Ravine of Goodbye, è un film drammatico diretto da Ōmori Tatsushi uscito nelle sale giapponesi il 22 Giugno 2013.

Il corpo di un bambino è stato ritrovato assassinato in un bosco e i sospetti ricadono tutti sulla madre del piccolo, Satomi, interpretata da Suzuki Anne, che durante un raid di giornalisti di fronte alla sua abitazione viene arrestata dalla polizia. Nel frattempo i vicini, Shunsuke e Kanako, interpretati da Ōnishi Nobumitsu e Maki Yōko, sembrano essere dei semplici spettatori della vicenda senza attrarre l’idea di essere coinvolti e fanno del loro meglio per evitare la folla di giornalisti in strada continuando con la loro vita.
Mentre la polizia continua ad indagare sulla vicenda, emergono voci riguardo una relazione sentimentale tra Shunsuke e la vicina Satomi.
Lo staff di un magazine incarica il reporter Watanabe, interpretato da Ōmori Nao, di scavare nel passato di Shunsuke dentro il quale scoprirà una serie di eventi oscuri accaduti nella vita dell’uomo che capovolgeranno totalmente la vicenda.

Screenplay di un romanzo di altissimo livello che riesce ad intrecciare visivamente passato e presente con un’ottima abilità narrativa. La presenza di Maki Yōko rende la pellicola ancor più di qualità per il modo in cui interpreta Kanako.
Il tentativo, ben riuscito, di Ōmori è sicuramente quello di portare una storia nella quale è evidente che il messaggio sia l’impossibilità di rimarginare ferite che scavano troppo a fondo.

La pellicola ha partecipato agli Hōchi Film Awards nel 2013 e ai Japanese Academy Prize nel 2014 vincendo in entrambi i casi il premo di migliore attrice protagonista grazie ad uno delle più talentuose attrici dell’industria cinematografica giapponese, Maki Yōko.

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Violent Cop (1989) | Recensione

Titolo originale: その男、凶暴につき
Regista: Kitano Takeshi
Uscita al cinema: 12 Agosto 1989
Durata: 103 Minuti
Attori principali: Kitano Takeshi, Kishibe Ittoku, Sei Hiraizumi


RECENSIONE:


Violent Cop
è un film del 1989 che segna il debutto di Kitano Takeshi come regista e interprete di un ruolo drammatico.
Azuma, impersonato dallo stesso Kitano, è un poliziotto della Squadra Omicidi, indisciplinato con i suoi superiori e rude con le reclute, che affronta la dilagante corruzione in città con metodi sicuramente poco ortodossi, non esita infatti a ricorrere alla violenza per risolvere questioni sia nella vita lavorativa che fuori.
Impegnato anche con una moglie malata, l’unica persona per il quale Azuma mostra un profondo affetto quasi possessivo è la sorella minore Akari, affetta da disturbi mentali. Durante le indagini di alcuni omicidi legati a un gruppo di narcotrafficanti, Azuma scopre che uno dei suoi superiori, Iwaki, è coinvolto nello spaccio di droga. Questa terribile scoperta insieme ad una serie di tragici episodi, tra cui il rapimento della sorella Akari da parte di un gruppo di spacciatori, portano Azuma a non riuscire a tenere più a freno la propria rabbia, che si trasforma in una follia omicida.

L’uscita di Violent cop suscitò grande sorpresa nel pubblico, per la prima volta si vedeva Kitano abbandonare il suo canonico ruolo di cabarettista e comico televisivo per impersonare il brutale detective Azuma. Ciò che stupì maggiormente fu proprio come riuscì a combinare elementi così distanti da tutto ciò che aveva rappresentato nella sua carriera finora, in un film tremendamente cinico e non certo privo di dettagli cruenti. Al centro della pellicola vi è il tema della Yakuza, molto caro al cineasta, misto ad alcuni tratti tipici del poliziesco.
Lo stile è caratterizzato da molte immagini statiche che si alternano a improvvise esplosioni di violenza. In tutto ciò viene inserita la figura di Azuma, inizialmente taciturna e noncurante di qualsiasi etica lavorativa, ma che con il succedersi degli eventi diventerà il motore principale di atti brutali. Si presenta come posseduto da una rabbia interiore auto-distruttiva che si nutre sia dei suoi gravi problemi familiari che della totale anarchia in campo professionale dove è mal visto da colleghi e superiori.
Una delle cause principali di tali comportamenti è anche sicuramente l’ambiente stesso, nichilista, dove regnano corruzione e immoralità, nel quale perciò non è possibile difendere la legge senza continue violazioni della stessa.

— Recensione di Delia Pompili.

Tokyo Tower (2007) | Cineteca JFS

L’Associazione Takamori è lieta di presentarvi Tōkyō Tower, un film drammatico giapponese del 2007 diretto da Matsuoka Jōji.

Titolo originale: 東京タワー 〜オカンとボクと、時々、オトン〜
Regista: Matsuoka Jōji
Uscita al cinema: 14 Aprile 2007
Durata: 142 Minuti

Tratto dall’omonimo best-seller autobiografico di Lily Franky, Tokyo Tower si apre raccontando la storia di Nakagawa Masaya, vero nome dell’autore  interpretato da Odagiri Jō, partendo dall’infanzia di quest’ultimo, nella quale vede il padre, un artista eccentrico affetto da problemi con l’alcool, picchiare la madre Eiko.
A seguito di quest’evento Eiko decide di lasciare il marito e di portare il piccolo Masaya via con sé dove grazie al suo duro lavoro riuscirà a far vivere al figlio un’infanzia normale.

La pellicola è riuscita a vincere 5 premi al Japan Academy Prizes quali miglior film, miglior regia, screenplay dell’anno, migliore attrice protagonista e miglior attore non protagonista. Ha inoltre ricevuto nomination quali miglior attore protagonista, migliore attrice protagonista e miglior attore non protagonista alla seconda edizione degli Asian Film Awards.

Il film trova un ottimo connubio tra malinconia e momenti leggeri riuscendo, con un ottimo lavoro di scrittura, a dipingere un sincero rapporto madre-figlio.
Tokyo Tower si snoda tra i flashback del protagonista andando a raccontare una storia di vita comune le quali vicende scavano nella complessità di cosa voglia dire crescere e di come sia giusto farlo anche nei momenti più duri.

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Miss Zombie (2013) | Recensione

Titolo originale: ミス・ゾンビ
Regista: Sabu
Uscita al cinema: 14 settembre 2013
Durata: 85 Minuti

SINOSSI:

In un Giappone contemporaneo in cui gli zombi sono venduti come schiavi, denominati animali domestici dalle famiglie abbastanza facoltose da poterseli permettere, Shara viene consegnata in una gabbia, accompagnata da un manuale che ne descrive la rigorosa dieta vegetariana e una pistola, a tutela della famiglia, qualora se ne ritenesse necessario l’utilizzo.

RECENSIONE:

Sabu (noto anche come Tanaka Hiroyuki) è un regista ben noto ai giapponesi per i suoi ritmi frenetici: titoli come Non-stop, Postman Blues o Monday continuano a riecheggiare nell’immaginario del pubblico e non può quindi che sorprendere la totale deviazione stilistica che avviene con Miss Zombie che ne segna peraltro l’esordio nel genere horror.

Girato quasi interamente in bianco e nero con inquadrature lente e fluide, dialoghi minimi e per la gran parte accompagnati dall’assenza di una colonna sonora, Miss Zombie offre un’esperienza unica di grottesco orrore.

Miss Zombie è però una pellicola che si discosta fortemente anche dal genere horror: gli zombi non sono altro che il tropo principale tramite il quale Sabu decide di raccontare il consumarsi di un dramma famigliare.
Lo svolgersi della pellicola, deliberatamente flemmatico sia nelle scene che nelle riprese, imita il trascinarsi di Shara e la ripetitività delle mansioni alle quali è sottoposta.
La crescente tensione non si costruisce sulla ferocia di quest’ultima ma nella quotidiana frustrazione degli umani, che carnefici si riversano su una protagonista inerme.

Favorendo una marcata impronta thriller a quella del semplice orrore, Miss Zombie potrebbe deludere i più affezionati al genere classico, incuriosendo
alla visione invece gli spettatori meno avvezzi. In entrambi i casi, Miss Zombie è molto più di ciò che parla.
Se si scava a fondo della superficie stilistica e si interrogano le motivazioni dei personaggi, un quesito emerge: chi è davvero il mostro?

Miss Zombie è la testimonianza della versatilità di Sabu che riesce a presentare sotto una nuova luce uno dei generi più cari al pubblico giapponese.

— Recensione di Claudia Ciccacci.

Rentaneko | Cineteca JFS

L’Associazione Takamori è lieta di presentarvi Rentaneko, un film drammatico giapponese del 2012 diretto da Ogigami Naoko.

Sayoko, interpretata da Ichikawa Mikako, è una giovane che vive con numerosi gatti in casa; non è sposata, non ha amici e l’unica parente mostrata nella pellicola è la nonna che l’ha cresciuta fin da bambina, deceduta da 2 anni lasciandole in ereditá i gatti.
Rimasta sola e sapendo di attrarre animali meglio di quanto farebbe con le persone decide di affittare i felini trasportandoli su un carretto lungo la sponda di un fiume e annunciandoli utilizzando un megafono.

Il film è stato presentato in anteprima all’International Film Festival di Stoccolma e, tra i vari, ha partecipato al Far East Film Festival di Udine e al Busan Film Festival.
A differenza di numerose altre pellicole che esplorano la solitudine come parte della vita moderna, Rentaneko è particolarmente semplice ma non banale, portando avanti lungo tutta la durata dell’opera un semplice messaggio – “non c’è nulla di meglio di un gatto per quando ci si sente soli”.

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The Little House (2014)

Titolo: The Little House (小さいおうちChiisai Ouchi)

Regista: Yamada Yōji

Anno di uscita: 2014

Durata: 136 minuti

Attori principali: Matsu Takako, Karuki Haru

The Little House (Chiisai ouchi) è un film drammatico del 2014 diretto da Yamada Yōji, è tratto dal romanzo di Nakajima Kyōko e rappresenta anche l’ultima opera del regista.

Racconta uno spaccato della società giapponese prima della seconda guerra mondiale attraverso gli occhi di una domestica che lavora presso una benestante famiglia di Tokyo. La storia inizia con Takeshi che ritrova un manoscritto appartenuto alla defunta zia Taki, e leggendone le pagine viene a conoscenza degli eventi che hanno riguardato la vita della parente, in particolare del periodo in cui lavorò come cameriera presso la famiglia Hirai, composta da Masaki, impiegato in una fabbrica di giocattoli, la moglie Tokiko e il figlio Ryoichi. Taki si trova fin da subito molto bene nel suo lavoro, venendo soprattutto apprezzata dai due coniugi per la dedizione che ella dimostra nelle cure del piccolo Ryoichi, al quale si lega particolarmente.

Questo equilibrio viene però sconvolto dall’arrivo di un nuovo dipendente nell’azienda di Masaki, Itakura Shōji che cattura subito l’interesse non solo di Tokiko ma anche della stessa Taki, e mentre la prima rende palese il proprio sentimento, la seconda non lo dichiarerà mai. Tutto ciò viene però bruscamente interrotto dallo scoppio della seconda guerra mondiale. L’impoverimento generale dovuto al conflitto costringe gli Hirai con grande dolore a fare a meno della domestica, dunque Taki ritorna nel suo paese e solo dopo la fine della guerra scoprirà che i due coniugi sono morti sotto i bombardamenti. Yamada usa una struttura a flashback, in cui tutti gli eventi raccontati sono filtrati dal ricordo, si viene quindi a creare un perfetto intreccio tra presente e passato.

Con l’espediente del manoscritto che viene ritrovato e letto dal nipote, Taki diventa la narratrice della storia e di conseguenza il suo punto di vista è privilegiato ma non l’unico, abbiamo infatti un’altra figura protagonista della storia, ovvero Tokiko. Queste due donne esprimono ideali di femminilità differenti, mentre la prima è timida, docile e restia a mostrare i propri sentimenti, la seconda è vivace, moderna e intraprendente, pronta a seguire il suo cuore senza pensare troppo alle conseguenze.

— Recensione di Delia Pompili.