Edito da Luni Editrice, “L’inferno delle ragazze” di Yumeno Kyūsaku narra sotto forma di racconti epistolari le storie di tre personaggi femminili che, pur diversi per esperienze, sono infine uniti da un destino comune.
In quest’opera l’inferno si incarna nella realtà divenendo metafora della vita quotidiana, del logorante trascorrere dei giorni in un sistema costruito sull’oppressione delle voci femminili.
Tutte e tre le protagoniste sono donne “diverse”, considerate come delle invertite o delle aliene, prive per caso o per scelta della maternità che caratterizza il prototipo sociale della donna perfetta, relegata dall’opinione comune dell’epoca al ruolo di moglie fedele e di angelo del focolare. La maternità viene da loro anzi negata con una scelta cosciente –come nel secondo racconto- o si presenta come una caratteristica totalmente estranea al personaggio, frutto di una pressione sociale inattingibile. La rinuncia al ruolo di madre e alle funzioni imposte come “naturali” fanno parte di una più ampia ribellione che non arriva tuttavia mai ad assumere i toni di una volontà di cambiamento sistemico dei rapporti di potere patriarcali o di una lucida critica femminista.
L’opera ha il pregio raro di offrire una prospettiva altra sul Giappone dell’inizio dell’epoca Shōwa.
Pur se condizionata dallo sguardo maschile dell’autore, essa rappresenta infatti una preziosa riflessione sulla tematica di genere e tratta di personaggiai margini della società, troppo spesso esclusi dalle pagine della letteratura; donne di condizione medio-bassa, lavoratrici o studentesse, non conformi al modello tradizionale richiesto alla donna giapponese quando non addirittura opposte a esso per caratteristiche psicologiche (o presunte tali) e fisiche. Vi compare non secondaria anche la tematica dell’omosessualità, di trattazione particolarmente delicata in un’epoca di rigida censura che infatti colpisce alcune parole nelle ultime pagine dell’ultimo racconto. Dalla testimonianza dei personaggi appare un altro grande protagonista, un sistema invisibile ma oppressivo che incombe sulle protagoniste e le schiaccia con il peso delle sue aspettative e obbligazioni, quando non con la più cruda violenza fisica e sessuale.
La forma epistolare contribuisce a rendere ancora più unica l’opera, filtrando con delicatezza da un determinato punto di vista gli eventi e giocando sottilmente con i tempi narrativi distorcendoli, accavallandoli, rispondendo a una razionale più emotiva che prettamente cronologica.
L’autore, figlio della sua epoca, non giunge mai all’elaborazione di una vera critica femminista; dall’opera non traspare infatti mai una precisa volontà di cambiamento delle relazioni tra i sessi né una salda intenzione di modificare il ruolo della donna trasformando la struttura di una nazione, il Giappone degli anni ’30, caratterizzata da un accentuato paternalismo e modellata proprio sulle strutture famigliari tradizionali. Appare però evidente una forte attenzione per la condizione femminile a cui l’autore guarda con profonda empatia e con una certa solidarietà ma dall’esterno, senza che questo sentimento si concretizzi in una forma di effettiva protesta sociale o in solide proposte di cambiamento; unica parziale eccezione è costituita dal discorso del direttore all’interno del terzo capitolo, che alla luce dei fatti narrati si svela però essere vuota retorica. Le varie forme di ribellione dei personaggi dell’opera non offrono quindi nessuna possibilità di redenzione.
Anche le vittorie apparenti sono accompagnate dalla tragedia che le prepara o le segue, non riuscendo in nessun modo a costruire una realtà migliore.
Al contrario, la protesta sembra incapace di approdare a una dimensione costruttiva, riuscendo solo a rendere più profondo l’inferno del quotidiano trascinandovi anche i personaggi maschili che ne sono responsabili.
Pubblicato originariamente nel 1906, “Il signorino” è un romanzo di formazione di Natsume Sōseki, forse il più celebre autore giapponese dell’era moderna. Traendo forte ispirazione dalla propria vita personale, lo scrittore racconta la storia di un avventato ed irascibile giovane di Tōkyō, il quale si vede offrire un lavoro da insegnante nella piccola cittadina di Matsuyama, nell’isola di Shikoku. Le molte differenze culturali lo porteranno a scontrarsi con diversi personaggi, dagli studenti agli altri professori. La storia è umoristica e satirica, ma tratta anche i profondi temi del conflitto e della crescita personale.
Considerata tra le migliori opere dell’autore, non esiste programma scolastico giapponese dove questo romanzo non figuri. Dato l’uso di un linguaggio relativamente semplice ed immediato, questo libro offre un’opportunità agli studenti di giapponese, come quelli dei corsi di lingua Takamori, di cimentarsi con una prima lettura in lingua originale.
TRAMA
Il romanzo inizia con una riflessione del protagonista, Ishikawa Tatsugorō, chiamato più comunemente “Bocchan“. Questa parola significa appunto “signorino”, “padroncino” ed è il nome in cui viene chiamato dalla cameriera di famiglia, Kiyo, la quale è l’unica persona al mondo che prova ancora per lui un affetto sincero. Nonostante la sua famiglia sia appunto abbiente, egli viene tenuto in disparte dai familiari e considerato come un fallimento. Egli si sente quindi deluso dal suo lavoro e dalle persone che lo circondano, così decide di accettare un posto di insegnante in campagna, sperando in un nuovo inizio.
“Fin da quando ero bambino, il temperamento irriflessivo che ho ereditato dai miei genitori mi ha causato un sacco di guai”
“Quanto a mia madre, ripeteva sempre che ero un violento, un prepotente, temeva che sarei finito male. […] È già tanto che sia riuscito a evitare la galera.”
Botchan arriva così nella città di Matsuyama, nell’isola di Shikoku. Si rende presto conto che il luogo è molto diverso da Tōkyō ed è presto considerato come un outsider dai residenti locali. All’arrivo di Bocchan nella scuola, l’autore introduce diversi nuovi personaggi, facendo ampio uso di ironia. Egli vi assegna dei nomignoli basati sull’aspetto o su delle caratteristiche peculiari: troviamo, ad esempio, il preside, chiamato “Tanuki”, l’insegnante di inglese, “Camicia Rossa”, e l’insegnante di matematica, “Porcospino”. Le interazioni di Bocchan con i suoi colleghi evidenziano le assurdità e le stranezze della loro personalità. Quest’uso di umorismo è, in maniera abbastanza apparente, non solo una scelta stilistica dell’autore, ma anche un meccanismo di difesa del protagonista. Le esperienze di Bocchan a Matsuyama sono infatti segnate da scontri culturali e incomprensioni. Fatica ad adattarsi ai costumi e allo stile di vita rurale. Mentre Porcospino sembra l’unico a provare simpatia e solidarietà per il nuovo arrivato, Bocchan ha diverse occasioni per scontrarsi con i propri colleghi, in particolare con Camicia Rossa, dinamica che sarà, non a caso, centrale al culmine del romanzo.
Altrettanto fondamentale è il rapporto di Bocchan con i propri alunni. Gli studenti, infatti, si prendono spesso gioco di lui, facendogli scherzi, il che gli rende difficile stabilire la propria autorità di insegnante. La causa è spesso la sua origine: la differenza tra la capitale ed il piccolo paesino di provincia sembra a volte abissale e non intacca solo i costumi e i modi, ma soprattutto il linguaggio. Ci vorrà infatti molto tempo perché il protagonista riesca a formare un forte legame con in propri allievi, il quale si rivelerà ancora più forte grazie alle fatiche compiute.
Mentre Bocchan affronta le sfide del suo nuovo ambiente, subisce una profonda crescita personale. È costretto ad imparare importanti lezioni di vita sulla natura umana e sulla società. Il confronto con gli altri personaggi, che sia piacevole o spiacevole, gli fornisce appunto una guida e una prospettiva, portandolo a cambiare il modo in cui affronta la realtà che lo circonda. Bocchan, insegnante in una scuola, matura egli stesso si vede portare alla consapevolezza di non poter cambiare il mondo per soddisfare esclusivamente i suoi desideri. Il romanzo si conclude con Bocchan che guarda al futuro con un ritrovato senso di scopo.
ANALISI
Il personaggio di Bocchan è un insegnante giovane e inesperto. Nel corso della narrazione, si trova costretto ad affrontare e a riconsiderare innumerevoli aspetti che lo hanno sempre caratterizzato. Ciò, gli impone una crescita e uno sviluppo personale: le sue esperienze nella scuola di campagna lo aiutano a maturare e ad acquisire una comprensione più profonda della vita e della natura umana. Sono le interazioni e le relazioni di Bocchan con questi personaggi a modellare le sue esperienze e la sua crescita personale. Egli non è soltanto costretto alle prese con le sfide e le frustrazioni del suo nuovo ambiente, ma riflette soprattutto sulla propria identità, sui propri valori e principi.
In particolare, Bocchan è costretto ad affrontare un significativo scontro culturale tra lo stile di vita urbano a cui è abituato e i modi tradizionali e rurali delle persone della zona. Ciò offre l’opportunità per un ritratto satirico e critico della società giapponese, in particolare nella rappresentazione del sistema educativo e delle interazioni tra le diverse classi sociali. Dietro alle osservazioni e ai commenti del protagonista si cela infatti il pensiero dell’autore: Sōseki, attraverso il personaggio di Bocchan, intendeva criticare la natura rigida e spesso ipocrita del sistema educativo giapponese dell’epoca Meiji. Vengono così portati alla luce l’inefficacia di alcuni metodi di insegnamento e la prevalenza di favoritismi e corruzione che permeano il sistema.
Sōseki utilizza vari personaggi e situazioni nel romanzo per criticare la prevalenza dell’ipocrisia e dell’inganno nella società, ritraendo ad esempio personaggi che si presentano in un modo ma si comportano diversamente in privato, riflettendo una generale mancanza di onestà e autenticità. Tutto questo attraverso l’abile uso dell’umorismo e dei differenti registri linguistici. Leggendo il romanzo in lingua originale, si notano infatti diverse espressioni dialettali che servono a porre distanza tra i personaggi. Tutto questo evidenzia le distinzioni di classe e le difficoltà che qualcuno come Bocchan, che non proviene da un ambiente estraneo, deve affrontare quando si muove nel panorama sociale. Sōseki esplora lo scontro
tra i valori tradizionali giapponesi e le influenze occidentali, che stavano diventando più importanti durante il periodo Meiji. Botchan si trova spesso in contrasto con i costumi e le tradizioni locali, riflettendo la tensione tra modernità e tradizione nella società giapponese.
Nonostante i temi così complessi, lo sguardo introspettivo rende la lettura estremamente fruibile. Ciò è supportato dalla narrazione in prima persona, la quale rende l’esposizione più personale ed il rapporto tra lettore e narratore più intimo.
Nel complesso, “Il signorino” è un romanzo umoristico e satirico che esplora temi dello scontro culturale, crescita personale e complessità delle relazioni umane. Offre un ritratto spiritoso e divertente del viaggio alla scoperta di sé di un giovane uomo mentre affronta le sfide della vita in una cittadina rurale nel Giappone di epoca Meiji. È un’opera classica della letteratura giapponese che offre sia una narrazione divertente che un’esplorazione stimolante di vari temi, rilevanti non solo al tempo, ma per ogni persona alla ricerca di una versione migliore di sé.
L’associazione Takamori è lieta di annunciarvi che verremo ospitati il 13 ottobre alle 18.30 presso il Mondadori Bookstore Mestre per la rubrica di eventi “Ad alta voce“, uno spazio in cui parleremo de “Il teatro fantasma” di Yokomizo Seishi edito da Sellerio editore.
Vi aspettiamo e vi rimandiamo alla nostra personale recensione del libro!
L’opera di Tachibana Sotoo viene qui presentata per la prima volta al lettore italiano attraverso due racconti scritti nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento.
Un’estate a Zushi è un racconto di fantasmi pubblicato nell’agosto del 1937. L’ambientazione nel cimitero di uno sperduto tempio di montagna, la presenza di figure sinistre e la suspense creata dallo sviluppo della narrazione fanno rabbrividire il lettore, che tradizionalmente cercava un po’ di refrigerio dalla calura estiva anche attraverso l’ascolto o la lettura di storie di paura.
Nonostante sia palpabile la tensione creata dall’entrata in guerra del Giappone contro la Cina, la triste vicenda del giovane principe indiano è l’occasione per descrivere non solo le condizioni politiche e sociali dell’India dell’epoca, ma anche il caleidoscopico paesaggio urbano della Tokyo di quegli anni, soprattutto i quartieri di intrattenimento con i cineteatri, i bar affollati di stranieri e gli spettacoli di rivista. Un mondo destinato a spegnersi di lì a poco nel periodo più buio del secondo conflitto mondiale.
Pur appartenendo a generi diversi, i due racconti sono accumunanti dalla presenza di una voce narrante spontanea, a tratti poetica e intimista, talvolta mordace e greve. Spesso sembra coincidere con quella dell’autore per la sapiente mescolanza di realtà e finzione letteraria […]
Per continuare premere sul link inserito ad inizio pagina. A presto con nuove pubblicazioni!
“Favole del Giappone” è una raccolta selezionata di cinque favole tratte dalla vastissima produzione favolistica di Niimi Nankichi, uno dei più importanti autori giapponesi per l’infanzia del Novecento. Sebbene queste favole siano state realizzate in fasi diverse della produzione dell’autore e siano caratterizzate da personaggi e luoghi differenti, vi è possibile leggervi una soggiacente coerenza dei temi trattati, un costante ricorrere di alcuni motivi tipici poi dell’intera opera dell’autore, una struggente unità di toni e atmosfere.
Nella favola che apre la raccolta, Gon la volpe(ごん狐, Gongitsune) la vita del Giappone rurale è presentata parzialmente da una prospettiva “altra”, quella non umana della volpe Gon. Il mondo del villaggio è presentato nella sua interazione, non sempre pacifica ma comunque reciproca e costante, con l’universo animale; le due sfere scorrono parallele e caratterizzate da esperienze simili, come la solitudine e la perdita della figura materna.
La volpe è capace di comprendere i sentimenti degli umani e di empatizzare con loro, in fondo così simili. Proprio quest’empatia si trasforma in azione finalizzata a migliorare la condizione comune, a unire e curare due solitudini, quella dell’uomo e quella dell’animale, unite dal lutto materno.
Nonostante le buone intenzioni la comunicazione appare però impossibile; le due sfere si sfiorano brevemente, di nascosto, senza mai riuscire a instaurare un vero dialogo. E in assenza di comunicazione le buone azioni assumono conseguenze imprevedibili: a ciò contribuisce una certa cecità umana, incapace di comprendere il ruolo della volpe e di scorgerne le nobili motivazioni.
Questa distanza comunicativa, questa inabilità sarà quindi il motore dell’epilogo del racconto;
qui l’improvvisa, futile realizzazione delle azioni animali apre finalmente una finestra di comunicazione oramai effimera, ma comunque genuina e totale. E proprio su questo momento si chiude il racconto: i protagonisti vi rimangono fermi, protraendolo per sempre, incapaci di costruirvi una solitudine condivisa e avvolti da una luce di soffusa tristezza.
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Nella seconda favola, L’ultimo suonatore di kokyū (最後の胡引き, Saigo no kokyūhiki) vengono tratteggiati tre diversi momenti della vita di un suonatore di kokyū, dal momento in cui impara a suonare lo strumento fino alla vecchiaia.
Qui il mondo rurale è dipinto nella sua graduale evoluzione, delineata attraverso la progressiva scomparsa di una vecchia tradizione. Ogni anno, infatti, il giorno di Capodanno il suonatore intraprendeva assieme al cugino il lungo cammino per la città per suonarvi e ricevere le donazioni degli abitanti, ritornando poi al proprio villaggio. Tuttavia, con gli anni la modernità occidentalizzante avanza inesorabilmente; gli abitanti iniziano a preferire le nuove tecnologie come la radio e la vecchia tradizione ne soffre le conseguenze.
Nessuno vuole più ascoltare la musica del kokyū; ormai non voluti, i suonatori smettono di effettuare il pellegrinaggio annuale e solo il vecchio Kinosuke si appiglia ostinatamente al passato, decidendo di recarsi in città nonostante il parere contrario della famiglia, gli acciacchi dell’età, la defezione del cugino e il clima ostile.
A convincerlo ad affrontare tutte quelle difficoltà è il ricordo del gentile anziano che sin dai giorni lontani della sua infanzia l’aveva accolto nella sua casa e aveva ascoltato con passione la sua musica.
La scomparsa del vecchio rappresenta la sparizione dell’ultimo frammento vivo del vecchio Giappone:
ora il kokyū non ha più nessuno che ascolti il suo canto e viene suonato, per l’ultima volta, per commemorare un uomo e un mondo ormai perduti per sempre nel passato. Il cambiamento non viene qui accettato ma è piuttosto subito impotentemente dal suonatore, travolto dall’avanzare inclemente della modernità; ogni resistenza appare futile e la nostalgia si configura come l’unico rifugio possibile di fronte a un mondo ormai irriconoscibile.
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Anche nel terzo racconto, Il lume a petrolio del nonno (おじいさんおランプ, Ojisan no ranpu) la modernità irrompe in un piccolo villaggio rurale. Il giovane protagonista visita la città vicina e rimane sorpreso dalla sua modernità, esemplificata dal grande numero di lampade e dalla sua luminosità, così diversa dall’oscurità dei villaggi della campagna.
Le luci del progresso entrano ora nel mondo rurale, illuminano gli spazi e le vite dei contadini, diradano le “retrograde” tenebre circostanti.
Il protagonista vede il proprio lavoro di venditore di lumi come una vera e propria missione “civilizzatrice”, nutrendo fiducia nel proprio ruolo e nella propria capacità di migliorare la vita del villaggio, aprendolo al nuovo mondo e portandovi il Progresso: questa fiducia è però messa in crisi dall’ulteriore evoluzione della tecnologia. L’arrivo della luce elettrica minaccia infatti il mondo delle lampade; la vita del protagonista ne viene scossa e la sua stessa professione viene messa a repentaglio.
Colui che si era posto fino a quel momento come un campione del progresso si oppone ora ostinatamente all’avanzare del nuovo.
Anche in questo caso la resistenza appare futile; tuttavia, la risposta del protagonista e il messaggio sono nettamente diversi da quelli della storia precedente. Dopo un breve, incompleto tentativo di opporsi in maniera violenta al nuovo che avanza, il venditore di lumi comprende la necessità di adattarsi al nuovo mondo e di ritagliarvisi un nuovo ruolo. Scegliendo di rimanere fedele ai propri principi etici anche a scapito degli interessi concreti più immediati, decide di assecondare il cambiamento.
Il rito dell’abbandono e della rottura delle lampade rappresenta quindi un atto di rottura totale col passato, il marchio inequivocabile di un nuovo inizio.
Impossibilitato a portare la luce “fisica” nel mondo rurale, il protagonista sceglie di dedicarsi alla professione del libraioe di portarvi la luce spirituale della cultura. Mutano quindi circostanze e oggetti, ma la missione etica e il sereno ottimismo rimangono gli stessi; avanti negli anni, il protagonista si trova infine a ricordare con gioia quei giorni lontani della sua gioventù, con la voce velata da una dolce nostalgia.
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Il quarto racconto, Andando a comprare i guanti(手袋を買いに, Tebukuro o kai ni) ha il mondo animale come vero protagonista. Un cucciolo di volpe ci viene presentato nel suo angolo sicuro, mentre gioca felice nella neve accompagnato dalla sua premurosa Mamma Volpe.
Il viaggio verso la città che il volpino è costretto a intraprendere da solo per acquistare dei guanti lo costringe ad abbandonare per la prima volta la tranquillità della tana materna e a interagire con il pericoloso mondo degli uomini, da cui era stato messo in guardia. Nonostante i pericoli corsi e gli errori commessi, il viaggio ha un esito positivo.
Sulla via del ritorno, il cucciolo scorge da una finestra aperta una mamma umana che culla il suo bambino nel sonno, cantandogli dolcemente una canzone: il cucciolo pensa quindi alla sua mamma, che fa lo stesso per lui nel caldo della sua tana, e corre immediatamente da lei trovandola tremante ad attenderlo nella neve. Dimensione umana e dimensione animale sembrano di nuovo incontrarsi e assomigliarsi, accomunate dall’affetto incondizionato delle madri per i figli.
Ben diverso dall’epilogo del primo racconto, il finale esprime qui un totale ottimismo: uomo e animale riescono a interagire soddisfacentemente senza ricorrere alla violenza, contrariamente ai timori di Mamma Volpe, che inizia a ricredersi sul conto degli umani mentre imbocca col suo piccolo, felice e illeso, la sicura strada di casa.
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Nell’ultima storia, Piede di contadino, piede di bonzo (百姓のあし、坊さんのあしHyakushō no ashi, bōsan no ashi) la sfera religiosa e sociale del Giappone rurale sono tratteggiate più nel dettaglio da Niimi Nankichi.
A questa descrizione più complessa e sfaccettata, e certamente meno idealizzata e bucolica, della vita di villaggio si affianca una forte dimensione etico-religiosa alimentata da forti suggestioni provenienti dalla spiritualità buddhista.
Durante la raccolta del komebatsuho (la pratica di ritirare, casa per casa, il riso nuovo che i contadini offrono al vicino tempio buddhista) l’abate del tempio locale e il contadino Kikuji si ubriacano con il sake offertogli dai contadini e mancano di rispetto, calpestando il riso bianco offerto da uno zoppo. Nelle pagine successive traspare l’essenza del mondo contadino descritto nella sua intimità familiare, con il suo sistema morale di valori forti; il cibo, ottenuto solo grazie a lunghe ore di fatica e con l’amaro sudore della fronte, deve essere rispettato e le azioni di Kikuji sono condannate dalla stessa madre, rappresentante intransigente dell’etica contadina, che prevede tremante l’arrivo di una punizione.
Tale punizione non esita ad arrivare ma non colpisce tutti allo stesso modo: mentre il contadino è costretto a letto da un terribile dolore al piede con cui aveva calpestato il riso, l’abate appare in perfetta salute, sempre più rubicondo mentre consegna alla popolazione sermoni pieni di ipocrisia.
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Il contadino si scaglia quindi contro l’apparente ingiustizia del Cielo, che sembra in fondo replicare l’ingiustizia della Terra; mentre lui e la sua famiglia sono costretti a trascinarsi nella polvere dei campi, sopravvivendo solo grazie al duro lavoro, il monaco vive una vita tranquilla nello spazio sicuro del suo tempio, apparentemente estraneo alle conseguenze delle sue azioni. La sofferenza, però, si rivela indispensabile per la comprensione; solo grazie al dolore il contadino capisce il proprio errore e la giustizia della punizione ricevuta: a differenza dell’abate, lui coltivava la terra e conosceva il dolore del raccolto, lo sforzo amaro della vita dei campi, e proprio questo rendeva l’atto che aveva commesso ancora più grave.
La comprensione del proprio sbaglio permette il perdono, apre la strada della rinascita spirituale. Alla fine del racconto, il Cielo appare tutt’altro che ingiusto: nel loro incontro dopo la morte, mentre camminano su una lunga strada fiorita, l’abate continua a maltrattare il contadino che si dimostra al contrario umile e compassionevole.
Il religioso continua ad applicare le categorie umane anche dopo la morte, trascinandosele dietro dal mondo dei vivi: dall’alto delle sua posizione sociale, è convinto della propria superiorità rispetto al mite Kikuji, certo che la propria posizione sia sufficiente ad aprirgli la strada per il paradiso. Ma la giustizia sovrumana non sembra interessata allo status sociale. Trascinando la gamba, il contadino viene indirizzato sul sentiero di destra, quello che conduce al paradiso; mentre l’arrogante abate viene trasportato, in un risciò non destinato a lui ma che pretende come proprio di diritto, sull’altro sentiero, verso la perdizione.
Il messaggio del racconto è consolatorio ed esprime un totale ottimismo. All’apparente ingiustizia del mondo terreno fa da contrappeso la giustizia suprema della vita dopo la morte; la sofferenza che si prova in vita, percepita come una punizione, è in realtà lo stimolo maggiore per la comprensione delle proprie colpe e porta al raggiungimento della felicità ultraterrena.
Si può leggere in questo una dimensione autobiografica; tormentato dai terribili dolori della tubercolosi, che lo stroncherà alla giovane età di 30 anni, l’autore si confrontava quotidianamente con l’esperienza della sofferenza e questa alimentava la sua riflessione e il suo pensiero; in questa favola si potrebbe leggere quindi il tentativo autoconsolatorio di trovare una spiegazione per il proprio male e al tempo stesso la speranza di una fuga da esso, sia pure nella cornice mistica del mondo ultraterreno.
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È possibile quindi identificare una serie di temi che accomunano i cinque racconti della raccolta tratti dalla vastissima produzione di Niimi Nankichi.
Innanzitutto la centralità costante del mondo rurale e della vita di villaggio; lungi dall’essere vagheggiata bucolicamente, la realtà della campagna è descritta nella sua concretezza sociale, fatta di fatica, di profondi rapporti familiari, di sentite tradizioni, di un sistema di valori radicato alla terra e di resistenze al cambiamento. Si tratta di un mondo Altro rispetto a quello lontano della città, con le sue luci e i suoi negozi: al tempo stesso opposto e complementare, l’ambiente urbano incombe però sempre sul mondo delle campagne, fonte simultaneamente di minacce e di opportunità.
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La città è il luogo della modernità, del nuovo che si espande verso la realtà del villaggio minacciando di modificarla irrimediabilmente e di annichilirne le profonde tradizioni; luogo “liminale” in cui i protagonisti si recano solo brevemente per ottenere qualcosa (che si tratti di denaro, di lumi o di guanti) per poi tornare immediatamente alla sicurezza del proprio villaggio; a essa si guarda con timore, ma anche con fascinazione.
Questo movimento segue in fondo l’esperienza di vita dell’autore che, dopo aver vissuto e studiato nella capitale, spinto anche dalla malattia aveva scelto di ritornare in provincia, dove aveva riscoperto una dimensione più autenticamente rurale che sarebbe poi divenuta uno dei tratti più caratterizzanti della sua produzione letteraria.
Ogni forma di resistenza sembra in ogni caso futile: il vecchio viene travolto inesorabilmente dal nuovo e il mondo delle città avanza. La modernità può essere abbracciata con entusiasmo o rigettata totalmente, affrontata con rassegnazione o con un sereno ottimismo; in entrambi i casi il processo non è indolore e il nostalgico ricordo del passato risulta essere, se non l’unica consolazione di fronte a un mondo che diventa sempre più rapidamente estraneo come nel caso estremo della seconda favola, quantomeno un sereno rifugio di fronte al rapido fluire degli eventi.
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In tutte le storie di Niimi Nankichi è poi fondamentale la dimensione familiare (o la sua dolorosa assenza).
La casa – o la tana – è il luogo sicuro di una sommessa intimità, del calore umano e della cura reciproca, degli affetti più spontanei, il focolare che illumina un mondo avvolto dalla neve. L’amore materno accomuna uomo e animale, fornisce una guida sicura di fronte alle difficoltà del mondo, crea un luogo sicuro in cui rifugiarsi.
La solitudine, vissuta come assenza e compagna del lutto, è un’esperienza dolorosa che i personaggi sperimentano spesso e che provano a superare costruendo un nucleo nuovo, tentando di forgiare nuovi rapporti di cura reciproca, con esiti assai diversi. Essi spaziano dalla tragicità della prima favola, in cui la costruzione di una “famiglia” fallisce a causa dell’incomunicabilità reciproca, al successo del terzo racconto, in cui l’orfano venditore di lumi arriva a raccontare al proprio nipotino una vecchia storia nella tranquillità della propria casa e nella serenità della vecchiaia.
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Anche in questo caso traspare l’influenza dell’esperienza personale dell’autore: orfano di madre sin dalla più tenera età, la vita familiare di Niimi Nankichi era stata particolarmente travagliata.
Alla luce di questo dato andrebbero letti quindi i ricorrenti temi della solitudine e della perdita, ma anche le ricostruzioni di una vita familiare ideale:
quasi come in una forma di sublimazione del desiderio, l’autore esprime così la propria volontà di regredire verso una dimensione protetta, contemporaneamente una forma di ritorno alla culla e uno slancio verso la paternità di cui però la malattia e la sofferenza lo avrebbero privato. Per la complessità dei temi trattati e la profondità della visione l’opera non si rivolge quindi esclusivamente a un pubblico infantile, fornendo anzi interessantissimi spunti di riflessione e immagini suggestive anche a un pubblico più adulto.
“Il sole si spegne” (titolo originale: 斜陽, Shayō), viene pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1947. Il romanzo, il primo dello scrittore, rispecchia la realtà in cui si trovavano la classe aristocratica e quella intellettuale nel secondo dopoguerra, annientate spiritualmente dal conflitto. L’aristocrazia ha perso ogni possedimento e potere e la classe intellettuale è diventata sempre più criticata: artisti e scrittori non trattano più i temi tradizionali, ma portano il seme del nichilismo e attirano su di sé le maldicenze per via della vita dissoluta che sono “costretti” a vivere. Molti fanno uso di droghe o diventano alcolizzati e dormono con altre donne nonostante abbiano moglie e figli, spesso non tornando a casa per giorni.
Questa è la vita narrata dalla protagonista Kazuko, una ragazza di ventinove anni appartenente a una famiglia aristocratica caduta in disgrazia, costretta a trasferirsi in una villa di campagna. È sorella maggiore di Naoji, in primis un intellettuale, ma anche un soldato che ha combattuto nel sud del Pacifico e che fin dal liceo ha fatto uso di oppiacei.
La madre dei due fratelli viene considerata dalla protagonista l’unica vera aristocratica rimasta in vita, in quanto segue ancora le regole della sua classe sociale. Kazuko, al contario, durante la guerra ha dovuto fare lavori pesanti e lavorare nei campi come altri civili, su richiesta del governo, scoprendo di trovarsi a proprio agio, letteralmente, nei panni del contadino.
La protagonista, inoltre, ha anche un divorzio alle spalle. Nonostante voglia compiere il desiderio di avere un figlio, è costretta a spostare interamente le sue attenzioni sulla madre malata di tubercolosi, senza ricevere aiuto dal fratello tornato dalla guerra, assorbito dalla vita scriteriata che porta avanti a Tokyo insieme al suo mentore e scrittore Uehara Jirō.
Kazuko si innamora del romanziere dopo il primo incontro che hanno e, nei sei mesi che separano il loro secondo e ultimo incontro, gli invia tre lettere in cui esprime la sua volontà di avere un figlio da lui nonostante sappia che lui è sposato e ha una figlia. Lo scrittore non risponderà mai a quelle lettere.
Dopo un mese dalla morte della madre e dal suicidio del fratello per la sua autoriconosciuta mancanza di “capacità di vivere”, attraverso un’ultima lettera senza risposta di Kazuko a Jirō, si scopre che la protagonista è rimasta incinta dello scrittore, avverando il suo sogno.
Attraverso questo romanzo, Dazai mostra un realtà che lui stesso conosce in quanto figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri: la realtà della vita sfrenata all’insegna di alcol, droghe e donne, che portano all’annichilimento del corpo e della mente.
Lo stesso Dazai, stremato dalla vita che lui stesso conduce che gli comporta anche l’aggravarsi delle condizioni di salute, viene trovato morto insieme all’amante nel bacino di Tamagawa a Tokyo il giorno del suo trentanovesimo compleanno.
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