Se si parla di racconto breve, in ambito giapponese è imprescindibile il nome di Akutagawa Ryūnosuke. A lui è intitolato il premio per gli scrittori esordienti, a lui che è morto suicida e così giovane, convinto di non aver lasciato alcun segno utile nel panorama letterario giapponese. I critici e la storia hanno smentito questa sua paura, riconfermando a gran voce le parole di encomio che il suo maestro Natsume Sōseki, altro grande della letteratura del Sol Levante, ha speso per lui.
È per l’immortalità della sua scrittura, quella “nicchia tutta [sua] nel mondo delle lettere”, come la chiamava Sōseki, che le ritraduzioni dei racconti più famosi di Akutagawa sono continue e sempre ben accette. In questa edizione si sono selezionati dieci testi della produzione di tema cristiano di Akutagawa, la metà dei quali sono traduzioni inedite.
Per Akutagawa Ryunosuke la finzione è lo strumento più diretto e al contempo più sottile per parlare del presente, e raramente ambienta i suoi racconti nella sua contemporaneità. Lavora per riferimenti, ricostruzioni, retelling di racconti popolari, usando fatti realmente accaduti o situazioni verosimili parte della conoscenza comune giapponese come strumenti per raccontare il presente. Ne risulta una prosa sagace e tagliente che usa l’ironia come dissimulazione, in una narrazione che lascia sempre l’ultima parola all’interpretazione del lettore, chiamato a interrogarsi sulle discrepanze e le contraddizioni dei personaggi di cui ha appena letto.
I racconti proposti in questa antologia hanno luogo nel periodo a cavallo tra XVI e XVII secolo, dopo l’arrivo dei missionari Gesuiti in Giappone, e si aprono in un ventaglio di ambientazioni e stili di narrazione differenti per mostrare le diverse ricezioni del cristianesimo nell’arcipelago.
“Lucifero e altri racconti” offre il contesto perfetto per riflettere sul rapporto di Akutagawa con il cristianesimo, inizialmente nato da un interesse di tipo intellettuale e poi approfondito nelle sue contraddizioni e insensatezze se paragonato allo shintoismo (la religione autoctona giapponese) e il buddhismo. Dunque nei suoi racconti Akutagawa non offre mai una visione completamente positiva della religione venuta da Occidente, ma ne parla ora con diffidenza, ora con fascinazione, lasciando ai suoi personaggi l’arduo compito di incarnare l’incontro-scontro tra culture e le conseguenze che questo ha portato sull’epoca contemporanea ad Akutagawa.
La raccolta si chiude con “L’Uomo da Occidente” e “L’Uomo da Occidente – II parte”, libere riflessioni sul Nuovo Testamento e in particolare la figura di Gesù Cristo, visto nel suo ruolo di messia ma anche, e questo è l’aspetto più importante e personale dell’analisi di Akutagawa, nella sua umanità. Nei personaggi su cui si sofferma a parlare l’autore si analizza il loro significato più immediato per l’uomo, cosa rappresentino veramente per il credente nella loro umanità, che cosa li avvicina all’uomo comune.
In particolare Akutagawa sovrappone la figura di Cristo a quella dello scrittore (da lui indicato con il termine “giornalista”) e del poeta, a partire dalla dialettica che entrambi utilizzano per rivolgersi al proprio pubblico, per poi allargare il discorso alla condizione umana che li accomuna. Anche lo scrittore, come Cristo, è condannato a una vita breve e fatta di sofferenza, che brucia e si spegne troppo in fretta come una candela.
Non abbiamo gli strumenti per definire in maniera chiara quale fosse la relazione di Akutagawa con il cristianesimo, ma i suoi testi mostrano indubbiamente il suo crescente interesse per la religione, il testo sacro, l’iconografia “barbara”, le pratiche magiche.
“L’Uomo venuto da Occidente” viene pubblicato lo stesso anno del suicidio di Akutagawa, e quando il suo corpo viene trovato, nel 24 luglio 1927, lo scrittore aveva con sé una traduzione integrale della Bibbia.
Profumo di ghiaccio, romanzo della celebre autrice Yōko Ogawa, racconta di Ryoko, una giornalista che si trova a dover affrontare il lutto causato dal suicidio del suo compagno, Hiroyuki. L’unica cosa che il ragazzo lascia a Ryoko dopo la sua morte è un profumo da lui prodotto nel suo laboratorio, chiamato Fonte del ricordo, accompagnato da una nota che descrive le immagini che hanno ispirato la sua creazione.
Ben presto Ryoko comprende di essere completamente all’oscuro del passato del compagno: scopre infatti il suo grande talento per la matematica e l’esistenza di un fratello, Akira, di cui non aveva mai parlato prima. Sarà proprio una gara di matematica a portarlo a Praga, luogo in cui si verificherà un avvenimento decisivo per il suo futuro. Ryoko decide quindi di visitare la città con l’obiettivo di scoprire le ragioni che hanno spinto Hiroyuki a compiere questo gesto estremo.
L’assenza permea le pagine di questo romanzo, trasformandosi nell’unica cosa tangibile che Hiroyuki ha lasciato dietro di sé: il viaggio di Ryoko diviene infatti non solo un mezzo attraverso cui trovare un senso a un dolore insopportabile, ma anche l’unico modo per ricostruire il vero Hiroyuki, mettendo insieme quello che Ryoko conosceva di lui e quella che è la sua vera storia. La città di Praga riflette perfettamente questa dicotomia: luci e ombre si rincorrono tra le strade, passato e presente si sfiorano costantemente, e la realtà viene turbata da elementi quasi magici; particolarmente interessante in questo senso è la cava dei pavoni, luogo che Ryoko scopre durante le sue ricerche ma che sembra essere in realtà una manifestazione onirica dei suoi ricordi.
Il ricordo è infatti uno dei temi centrali della storia, poiché mentre da un lato rappresenta l’unico legame tra Ryoko e Hiroyuki dopo la sua morte, dall’altro è il motore che spinge i personaggi a fare scelte che impatteranno inevitabilmente la loro vita: è questo il caso non solo di Hiroyuki, ma anche di sua madre, la cui unica attività nel presente consiste nel lucidare tutti i trofei vinti dal ragazzo alle gare di matematica a cui partecipava da piccolo, creando un vero e proprio museo in onore dei successi del figlio.
Dal punto di vista stilistico, i ricordi si inseriscono prepotentemente nella narrazione, simulando il modo in cui un suono o un odore possano catapultarci in un passato che sembra essere sempre vicino ma allo stesso tempo impossibile da raggiungere.
A questo tema si lega quello dell’incomunicabilità, caratteristica presente in tutti i rapporti umani descritti nel romanzo, in primo luogo nella coppia, ma anche nella relazione tra Hiroyuki, Akira e la madre. Ogni personaggio è motivato da un profondo desiderio di rivalsa e di controllo sulla propria vita, ma sembra vivere nell’ombra di glorie passate: il futuro di Hiroyuki viene ostacolato dai desideri della madre, la quale vede nel talento del figlio solo un’occasione per realizzare se stessa, mentre Akira vive costantemente nell’ombra del fratello. Quella di Hiroyuki è una famiglia in cui ogni membro si respinge al minimo contatto, in cui comunicare i propri bisogni potrebbe causare danni irreversibili a un equilibrio estremamente fragile.
Attraverso la sua premessa tragica, Profumo di ghiaccio vuole in realtà ispirare il lettore a costruirsi la propria strada, a dare spazio ai propri sogni e a essere i veri protagonisti della propria vita.
Esponente principale del naturalismo in Giappone,ne “Il maestro di campagna” Tayama Katai abbandona lo stile autobiografico e confessionale che caratterizzava le sue opere precedenti tra cui “Futon” e si cimenta nella stesura di una biografia di una persona realmente esistita: Kobayashi Shūzō, cambiandone il nome in Hayashi Seizō.
Partendo dai suoi diari personali, interviste a amici stretti, membri della famiglia e visitando i luoghi dove ha vissuto, Tayama fa un resoconto della vita del giovane dal 1901 fino alla sua morte nel 1904.
Ciò che lo spinge alla stesura dell’opera è l’intento di mostrare una nuova generazione di giovani letterati e le difficoltà che incontrano in un Giappone ancora in trasformazione dopo l’apertura all’occidente; per far ciò adopera uno stile austero e diretto che ben rappresenta non solo la realtà circostante, ma anche la mediocrità che caratterizza la vita del protagonista.
Hayashi vede sfumare i propri sogni di studi universitari a Tokyo causa una progressiva caduta economica della famiglia; è costretto a lavorare come maestro di scuola elementare in un paesino della periferia, da cui non riuscirà mai ad uscire.
Una costante dell’opera è il pessimismo di Hayashi, che è terrorizzato dall’idea di passare tutta la sua vita in campagna mentre i suoi amici si trasferiscono nelle metropoli. Questo pessimismo è corroborato dai continui e fallimentari tentativi di ottenere un’occupazione più alta,di insegnare alle scuole medie e anche di entrare in un’accademia musicale. Anche quando, verso la fine del romanzo, Hayashi riesce a maturare una prospettiva più ottimistica, gli viene comunque negata la possibilità di qualunque felicità o riscatto. Essenzialmente Tayama, attraverso la lente del naturalismo, analizza le cause delle difficoltà che i giovani provinciali possono trovarsi a vivere, muovendo quindi una critica sociale ma anche cercando di trarne un insegnamento per chi si trova nella stessa situazione: L’idea che si possa trovare una propria felicità personale anche nelle limitazioni che ci vengono imposte.
Elemento costante e fondamentale è la guerra tra Giappone e Russia. Nel corso della storia svariati personaggi discutono degli sviluppi del conflitto, dell’imminente successo del paese nella conquista della Manciuria. Questo costante senso di vittoria nazionale che permea la narrazione risulta un processo opposto al fallimento di Hayashi, al punto che il culmine di entrambi avviene nello stesso giorno, quasi come a simboleggiare il passaggio verso un’imminente nuova epoca e l’impossibilità per il giovane di vivere un futuro migliore. Spicca, inoltre, l’uso continuo e quasi fuori luogo da parte dei giovani di vocaboli della lingua inglese quali “Brother”,”Sister”, “Love”, come a indicare la progressiva influenza occidentale sulla nazione.
In conclusione, tramite le sue descrizioni piatte e oggettive, “Il maestro di campagna” ci offre un’immagine del Giappone alla fine del periodo Meiji e uno studio su come le nuove tendenze nazionali arrivano ad influenzare e destabilizzare anche la vita dei singoli.
“La Via del guerriero – Introduzione allo Hagakure” è un saggio del 1967 di Mishima Yukio, e per quanto non sia parte della sua produzione più nota, offre un chiaro disegno delle tematiche morali ed estetiche che impregnano i romanzi dell’autore, largamente conosciuti e apprezzati anche fuori dai confini nazionali.
Mishima offre un’interpretazione personale dello Hagakure, testo del XVII secolo che raccoglie aforismi e insegnamenti di Yamamoto Tsunetomo (poi Jōchō), filosofo e guerriero appartenente a un’antica famiglia di samurai del feudo di Nabeshima. Nel fare ciò, Mishima organizza metodicamente i suoi pensieri e i passaggi più salienti dell’opera per argomenti, come amore, morte, tradizione, passione e valore guerriero, sviscerandoli nelle loro contraddizioni e nelle false interpretazioni che ne vengono fatte nella cultura popolare.
Se è vero che Mishima viene spesso criticato da alcuni colleghi per il suo atteggiamento auto-orientalizzante, ovvero il suo dipingere un Giappone reale ma anacronistico ormai parte del passato, in questo saggio l’autore funge da ponte tra Giappone ed Europa. Lo Hagakure non è certo un libro noto in Occidente, ma instaurando paragoni e parallelismi con alcuni pilastri della letteratura e della filosofia classica europea, Mishima avvicina il testo di Yamamoto Tsunetomo a un più ampio pubblico, accorciando l’abisso temporale che separa il lettore moderno dal Giappone feudale.
Mishima legge lo Hagakure in gioventù, e vi trova il suo paradigma morale ed estetico, l’esempio cardine della sua idea di uomo di azione e la guida per una morte, e di conseguenza una vita, valorosa. È dunque intrinseca nel saggio la critica alla società contemporanea a Mishima, un tempo storico a cui questi non sente di appartenere, nei cui valori e costumi non si rispecchia, ed è allora Yamamoto Tsunetomo, samurai vissuto tre secoli prima, a essere eletto come esempio principe di dignità e rispetto.
“Il libro a cui non avevo mai smesso di fare riferimento doveva essere la fonte della mia etica e lo strumento che mi aveva permesso di accettare la mia gioventù; doveva essere un libro che mi aveva aiutato e tenere insieme la mia solitudine e il mio atteggiamento anacronistico, ma doveva anche essere un libro che la società aveva messo al bando. E lo Hagakure rispondeva a tutti questi requisiti.”
Confessioni rientra nella categoria dello iyamisu, un sottogenere del mystery che si focalizza sulla parte più oscura dell’animo umano, volto a sconvolgere e angosciare il lettore. È proprio questo il caso del romanzo di debutto di Kanae Minato, pubblicato nel 2008 e divenuto presto un bestseller in Giappone: il libro racconta della signora Moriguchi, una professoressa delle medie che perde la figlia in quello che è apparentemente un incidente verificatosi nella scuola in cui lavora. Quando scopre che è in realtà stata uccisa da due dei suoi studenti, Nao e Shūya, avvia un piano di vendetta perverso con l’obiettivo di perseguitare a vita i due carnefici: decide infatti di iniettare del sangue infetto da AIDS nel latte dei due ragazzi.
Chiunque leggendo il primo capitolo di questo romanzo condannerebbe la follia e l’efferatezza della punizione inflitta ai due ragazzini, ma più si va avanti con la lettura e più il confine tra vittima e carnefice diviene sottile, fino a sparire del tutto verso la fine della storia. È proprio qui che risiede uno degli aspetti più interessanti del libro: la colpa dell’accaduto viene passata fra i protagonisti come una patata bollente, in un gioco infantile che trasforma l’omicidio in una faida tra bambini, ma il lettore si rende ben presto conto di quanto l’innocenza non abbia alcun posto all’interno di questa vicenda. Quello che sembra essere un caso di cronaca nera isolato diviene l’ennesimo esempio di un’epidemia di violenza nella società giapponese, alimentata da un individualismo dirompente e da un profondo senso di solitudine diffuso per lo più tra i giovani; è così che una camera da letto può trasformarsi in un intero mondo, come per Nao, il quale diventa un vero e proprio hikikomori, ed è così che l’idea di uccidere una persona diventa l’unico modo per farsi notare da una madre che ci ha abbandonati, come nel caso di Shūya. L’accaduto viene inoltre raccontato dal punto di vista dei diversi personaggi coinvolti, una scelta narrativa che spinge il lettore a credere prima a una versione e poi a quella opposta, trasformandolo nell’ennesima vittima delle manipolazioni di Nao e Shūya.
In questa realtà gli adulti non rappresentano un appiglio, ma al contrario l’origine di senso di inadeguatezza e odio: la madre di Nao lo protegge e giustifica nonostante l’evidenza dei fatti, il professor Werther, che succede alla Moriguchi, vede nel suo lavoro non un mezzo attraverso cui aiutare i giovani, ma come un’occasione di auto-appagamento, mostrando interesse nei suoi studenti nella misura in cui questo possa renderlo un buon insegnante ai suoi occhi. Nonostante ciò, è impossibile non provare empatia anche nei loro confronti, soprattutto per la madre di Nao, la quale fa di tutto pur di aiutare il figlio, senza però capire che lei stessa è parte del problema.
Confessioni vuole mostrarci le conseguenze più tragiche dell’isolamento sociale, ma lo fa ricordandoci che in questa realtà le vittime non sono solo vittime e i carnefici non solo carnefici. La violenza diviene paradossalmente l’unico modo per sentirsi parte di qualcosa e venir visti, finalmente, dopo una vita passata nell’ombra, in un meccanismo grottesco di cui chiunque però può cadere vittima.
Per la prima volta edito in Italia, esce per la collana Arcipelago Giappone “I casi del detective Aoyama”, una raccolta di racconti gialli di Ōsaka Keikichi, scrittore della prima metà del Novecento e tassello imprescindibile della storia del poliziesco giapponese.
A legare i racconti è, come da titolo, la figura di Aoyama Kyōsuke: brillante investigatore le cui conoscenze sembrano spaziare ogni campo scientifico, capace di analizzare al microscopio la scena del crimine e risolvere il caso più intricato senza concedersi il minimo margine di errore.
I racconti proposti seguono l’originale ordine di pubblicazione e i casi affrontati dal detective si fanno gradualmente più complessi, offrendo uno spaccato della produzione più caratteristica di Ōsaka Keikichi, purtroppo poco conosciuto anche in patria. Ōsaka segue la scuola Doyle (tanto che cita direttamente la sua creazione più famosa, Sherlock Holmes), imperniando i suoi racconti sulla deduzione logica, l’indagine tramite indizi, le prove tangibili del crimine. In “Il boia dei grandi magazzini”, il primo episodio della raccolta, è Aoyama stesso ad affermare:
“Va bene ricercare il movente, è ovvio, ma vorrei oppormi alle menti semplicistiche e mediocri che si ostinano a ritenere tale prassi l’unico strumento a disposizione nell’investigazione di un crimine.”
L’infallibilità e la prontezza con cui Aoyama viene a capo di ogni apparentemente insolvibile enigma spiazza non solo il lettore, ma in primis gli altri personaggi coinvolti nelle vicende, che non possono in alcun modo reggere il confronto con il detective. È questa sicurezza e talvolta spavalderia che conferisce al personaggio un certo fascino, e l’invidia si unisce all’ammirazione. Il narratore di turno si trova sempre a seguire in silenzio Aoyama, e anche quando ha delle intuizioni corrette è comunque sempre un passo indietro rispetto all’infallibile detective, che allora gli sorride e procede a snocciolare un’analisi degli indizi raccolti decisamente più puntuale.
A fare da padrone ne “I racconti del detective Aoyama” non è solamente il nostro protagonista, ma anche la varietà di ambientazioni in cui questo si muove. Così facendo Ōsaka mostra un certo gusto realista, ritraendo le realtà del Giappone a lui contemporaneo. Come sfondo per le vicende sceglie ora un cantiere navale o una stazione ferroviaria, ora un tribunale. L’intreccio dei racconti è semplice ma mai banale, e nel caso c’è sempre un risvolto imprevedibile che solo Aoyama è in grado di decifrare e smascherare, per giungere alla sua risoluzione. È questa la freschezza nella scrittura di Ōsaka Keikichi che rimane intatta tutt’oggi, nonostante i quasi cento anni che ci separano da lui.
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