“Diventare Ninagawa Mika”, autobiografia della celebre fotografa, è arrivato in Italia il 3 novembre 2023 edito da Cuepress, tradotto da Corrado Cucchi e curato da Roberta Novielli e Francesco Vitucci.
In questo volume, Ninagawa Mika ripercorre le tappe più significative della sua carriera da fotografa e in seguito da regista, arricchendole di aneddoti, riflessioni a posteriori, ed episodi apparentemente triviali ma che sommati l’uno all’altro tratteggiano i contorni di una personalità così colorata e luminosa quando immortalata in una fotografia, ma che affonda le sue radici anche in ispirazioni e influssi di tutt’altro genere. Ninagawa Mika esplora e ci racconta il suo passato a partire dall’infanzia, dalle prime immagini che hanno colpito la sua fantasia, i primi approcci alla creazione artistica e gli input che in maniera conscia o inconscia hanno plasmato la sua persona nel corso degli anni e le hanno permesso di “diventare Ninagawa Mika”.
“Altri fotografi avranno avuto carriere simili alla mia, ma penso che il fattore fondamentale sia sempre il grado di riconoscibilità. Qualsiasi sia il set fotografico, e chiunque sia il fotografo, la differenza sta interamente in questo aspetto.”
L’autobiografia non si dilunga in spiegazioni tecniche di ambito fotografico o registico, né si addentra in approfondimenti della vita privata dell’autrice: le due sfere si combinano e si bilanciano l’un l’altra in un equilibrio che Ninagawa stessa afferma essere il suo obiettivo nel lavoro e nelle relazioni interpersonali. Di conseguenza, gli aneddoti e le esperienze che l’autrice riporta fluiscono con naturalezza, quasi seguissero il ritmo spontaneo di una conversazione. È così che ci confida le sue insicurezze, ciò che reputa importante sul set e nella vita, e ci racconta le sfide più impegnative, senza mai perdere l’amore per la fotografia, l’arte tramite cui ha trovato se stessa.
“Nessuno poteva dirmi cosa fosse o cosa non fosse la fotografia, perché essa costituiva un mio privato santuario. E quel santuario rispondeva soltanto a ciò che sentivo io. Per questo, ero decisa a non ricevere insegnamenti e a non imparare da nessuno. La mia scelta non fu dettata unicamente dal mio desiderio di libertà, ma penso abbia avuto a che fare con la volontà di preservare la miaoriginalità.”
Ricordiamo che l’opera verrà presentata giovedì 23 novembre presso l’Odeon Gallery di Bologna (Via Mascarella 3)
Come reagiamo alla violenza? In che modo essa plasma e distorce la percezione che abbiamo del mondo? Che valore diamo al nostro dolore?
In “Heaven” (ヘヴン) Kawakami Mieko indaga queste tematiche raccontandoci la storia di due giovani vittime di bullismo scolastico, fenomeno assai frequente nel Giappone di oggi.
La vita del protagonista scorre ordinaria, costellata da quotidiane torture e angherie subite dai suoi bulli nella totale indifferenza e finta ignoranza di compagni di classe e professori. In questo buio senza apparente via di fuga, un bigliettino anonimo con su scritto “Noi due siamo simili” è forse il primo spiraglio di luce che riesce a intravedere. Si tratta di un messaggio lasciatogli da Kojima, una compagna di classe ugualmente vessata dai bulli della scuola. Presto i due stringono un legame di amicizia fondato sulla comune esperienza di dolore, seppure non parlino mai, per tacito accordo, delle violenze che subiscono.
È attraverso gli occhi strabici del protagonista che seguiamo gli eventi del romanzo, ed è tramite lo stile limpido ed evocativo di Kawakami Mieko che non ci vengono risparmiate descrizioni crude e precise delle sofferenze dei due ragazzi.
“Heaven” racconta in maniera atipica l’esperienza del bullismo scolastico. Non si limita a riportare la testimonianza della vittima, ma ha il coraggio di lasciar parlare il carnefice. Questo non tanto per suscitare l’empatia del lettore, quanto per offrire un punto di vista diametralmente opposto a quello della coprotagonista Kojima e così approfondire la tematica del dolore e il valore che ad esso attribuiamo.
La visione del mondo di Momose, uno dei bulli, è iniettata di nichilismo, individualismo, e la ferma convinzione che l’unica cosa a governare questo mondo sia la casualità. Afferma infatti:
“Non si fa qualcosa perché se ne ha il diritto, ma perché si ha voglia di farlo.”
Dall’altro lato troviamo invece Kojima che, con uno spirito quasi da martire, accetta il dolore che le viene inflitto e lo interpreta come un passaggio obbligato per arrivare a una vita serena, il suo “heaven”:
“Un giorno quelle ragazze sì ravvederanno e capiranno quello che mi hanno fatto, si pentiranno dei loro errori e forse diventeranno persone migliori. E anche questo servirà a dare un senso alla mia sofferenza quotidiana.”
Lo scontro tra i due estremi di pensiero scuote il lettore e lo chiama a una partecipazione attiva nel turbamento che vive il protagonista. Come lui, anche chi legge deve sforzarsi per poter mettere a fuoco la situazione, decidere se e in che modo affrontare il proprio dolore, prendere una posizione tra il nichilismo e il completo sacrificio di sé.
Edito da Luni Editrice, “L’inferno delle ragazze” di Yumeno Kyūsaku narra sotto forma di racconti epistolari le storie di tre personaggi femminili che, pur diversi per esperienze, sono infine uniti da un destino comune.
In quest’opera l’inferno si incarna nella realtà divenendo metafora della vita quotidiana, del logorante trascorrere dei giorni in un sistema costruito sull’oppressione delle voci femminili.
Tutte e tre le protagoniste sono donne “diverse”, considerate come delle invertite o delle aliene, prive per caso o per scelta della maternità che caratterizza il prototipo sociale della donna perfetta, relegata dall’opinione comune dell’epoca al ruolo di moglie fedele e di angelo del focolare. La maternità viene da loro anzi negata con una scelta cosciente –come nel secondo racconto- o si presenta come una caratteristica totalmente estranea al personaggio, frutto di una pressione sociale inattingibile. La rinuncia al ruolo di madre e alle funzioni imposte come “naturali” fanno parte di una più ampia ribellione che non arriva tuttavia mai ad assumere i toni di una volontà di cambiamento sistemico dei rapporti di potere patriarcali o di una lucida critica femminista.
L’opera ha il pregio raro di offrire una prospettiva altra sul Giappone dell’inizio dell’epoca Shōwa.
Pur se condizionata dallo sguardo maschile dell’autore, essa rappresenta infatti una preziosa riflessione sulla tematica di genere e tratta di personaggiai margini della società, troppo spesso esclusi dalle pagine della letteratura; donne di condizione medio-bassa, lavoratrici o studentesse, non conformi al modello tradizionale richiesto alla donna giapponese quando non addirittura opposte a esso per caratteristiche psicologiche (o presunte tali) e fisiche. Vi compare non secondaria anche la tematica dell’omosessualità, di trattazione particolarmente delicata in un’epoca di rigida censura che infatti colpisce alcune parole nelle ultime pagine dell’ultimo racconto. Dalla testimonianza dei personaggi appare un altro grande protagonista, un sistema invisibile ma oppressivo che incombe sulle protagoniste e le schiaccia con il peso delle sue aspettative e obbligazioni, quando non con la più cruda violenza fisica e sessuale.
La forma epistolare contribuisce a rendere ancora più unica l’opera, filtrando con delicatezza da un determinato punto di vista gli eventi e giocando sottilmente con i tempi narrativi distorcendoli, accavallandoli, rispondendo a una razionale più emotiva che prettamente cronologica.
L’autore, figlio della sua epoca, non giunge mai all’elaborazione di una vera critica femminista; dall’opera non traspare infatti mai una precisa volontà di cambiamento delle relazioni tra i sessi né una salda intenzione di modificare il ruolo della donna trasformando la struttura di una nazione, il Giappone degli anni ’30, caratterizzata da un accentuato paternalismo e modellata proprio sulle strutture famigliari tradizionali. Appare però evidente una forte attenzione per la condizione femminile a cui l’autore guarda con profonda empatia e con una certa solidarietà ma dall’esterno, senza che questo sentimento si concretizzi in una forma di effettiva protesta sociale o in solide proposte di cambiamento; unica parziale eccezione è costituita dal discorso del direttore all’interno del terzo capitolo, che alla luce dei fatti narrati si svela però essere vuota retorica. Le varie forme di ribellione dei personaggi dell’opera non offrono quindi nessuna possibilità di redenzione.
Anche le vittorie apparenti sono accompagnate dalla tragedia che le prepara o le segue, non riuscendo in nessun modo a costruire una realtà migliore.
Al contrario, la protesta sembra incapace di approdare a una dimensione costruttiva, riuscendo solo a rendere più profondo l’inferno del quotidiano trascinandovi anche i personaggi maschili che ne sono responsabili.
Pubblicato originariamente nel 1906, “Il signorino” è un romanzo di formazione di Natsume Sōseki, forse il più celebre autore giapponese dell’era moderna. Traendo forte ispirazione dalla propria vita personale, lo scrittore racconta la storia di un avventato ed irascibile giovane di Tōkyō, il quale si vede offrire un lavoro da insegnante nella piccola cittadina di Matsuyama, nell’isola di Shikoku. Le molte differenze culturali lo porteranno a scontrarsi con diversi personaggi, dagli studenti agli altri professori. La storia è umoristica e satirica, ma tratta anche i profondi temi del conflitto e della crescita personale.
Considerata tra le migliori opere dell’autore, non esiste programma scolastico giapponese dove questo romanzo non figuri. Dato l’uso di un linguaggio relativamente semplice ed immediato, questo libro offre un’opportunità agli studenti di giapponese, come quelli dei corsi di lingua Takamori, di cimentarsi con una prima lettura in lingua originale.
TRAMA
Il romanzo inizia con una riflessione del protagonista, Ishikawa Tatsugorō, chiamato più comunemente “Bocchan“. Questa parola significa appunto “signorino”, “padroncino” ed è il nome in cui viene chiamato dalla cameriera di famiglia, Kiyo, la quale è l’unica persona al mondo che prova ancora per lui un affetto sincero. Nonostante la sua famiglia sia appunto abbiente, egli viene tenuto in disparte dai familiari e considerato come un fallimento. Egli si sente quindi deluso dal suo lavoro e dalle persone che lo circondano, così decide di accettare un posto di insegnante in campagna, sperando in un nuovo inizio.
“Fin da quando ero bambino, il temperamento irriflessivo che ho ereditato dai miei genitori mi ha causato un sacco di guai”
“Quanto a mia madre, ripeteva sempre che ero un violento, un prepotente, temeva che sarei finito male. […] È già tanto che sia riuscito a evitare la galera.”
Botchan arriva così nella città di Matsuyama, nell’isola di Shikoku. Si rende presto conto che il luogo è molto diverso da Tōkyō ed è presto considerato come un outsider dai residenti locali. All’arrivo di Bocchan nella scuola, l’autore introduce diversi nuovi personaggi, facendo ampio uso di ironia. Egli vi assegna dei nomignoli basati sull’aspetto o su delle caratteristiche peculiari: troviamo, ad esempio, il preside, chiamato “Tanuki”, l’insegnante di inglese, “Camicia Rossa”, e l’insegnante di matematica, “Porcospino”. Le interazioni di Bocchan con i suoi colleghi evidenziano le assurdità e le stranezze della loro personalità. Quest’uso di umorismo è, in maniera abbastanza apparente, non solo una scelta stilistica dell’autore, ma anche un meccanismo di difesa del protagonista. Le esperienze di Bocchan a Matsuyama sono infatti segnate da scontri culturali e incomprensioni. Fatica ad adattarsi ai costumi e allo stile di vita rurale. Mentre Porcospino sembra l’unico a provare simpatia e solidarietà per il nuovo arrivato, Bocchan ha diverse occasioni per scontrarsi con i propri colleghi, in particolare con Camicia Rossa, dinamica che sarà, non a caso, centrale al culmine del romanzo.
Altrettanto fondamentale è il rapporto di Bocchan con i propri alunni. Gli studenti, infatti, si prendono spesso gioco di lui, facendogli scherzi, il che gli rende difficile stabilire la propria autorità di insegnante. La causa è spesso la sua origine: la differenza tra la capitale ed il piccolo paesino di provincia sembra a volte abissale e non intacca solo i costumi e i modi, ma soprattutto il linguaggio. Ci vorrà infatti molto tempo perché il protagonista riesca a formare un forte legame con in propri allievi, il quale si rivelerà ancora più forte grazie alle fatiche compiute.
Mentre Bocchan affronta le sfide del suo nuovo ambiente, subisce una profonda crescita personale. È costretto ad imparare importanti lezioni di vita sulla natura umana e sulla società. Il confronto con gli altri personaggi, che sia piacevole o spiacevole, gli fornisce appunto una guida e una prospettiva, portandolo a cambiare il modo in cui affronta la realtà che lo circonda. Bocchan, insegnante in una scuola, matura egli stesso si vede portare alla consapevolezza di non poter cambiare il mondo per soddisfare esclusivamente i suoi desideri. Il romanzo si conclude con Bocchan che guarda al futuro con un ritrovato senso di scopo.
ANALISI
Il personaggio di Bocchan è un insegnante giovane e inesperto. Nel corso della narrazione, si trova costretto ad affrontare e a riconsiderare innumerevoli aspetti che lo hanno sempre caratterizzato. Ciò, gli impone una crescita e uno sviluppo personale: le sue esperienze nella scuola di campagna lo aiutano a maturare e ad acquisire una comprensione più profonda della vita e della natura umana. Sono le interazioni e le relazioni di Bocchan con questi personaggi a modellare le sue esperienze e la sua crescita personale. Egli non è soltanto costretto alle prese con le sfide e le frustrazioni del suo nuovo ambiente, ma riflette soprattutto sulla propria identità, sui propri valori e principi.
In particolare, Bocchan è costretto ad affrontare un significativo scontro culturale tra lo stile di vita urbano a cui è abituato e i modi tradizionali e rurali delle persone della zona. Ciò offre l’opportunità per un ritratto satirico e critico della società giapponese, in particolare nella rappresentazione del sistema educativo e delle interazioni tra le diverse classi sociali. Dietro alle osservazioni e ai commenti del protagonista si cela infatti il pensiero dell’autore: Sōseki, attraverso il personaggio di Bocchan, intendeva criticare la natura rigida e spesso ipocrita del sistema educativo giapponese dell’epoca Meiji. Vengono così portati alla luce l’inefficacia di alcuni metodi di insegnamento e la prevalenza di favoritismi e corruzione che permeano il sistema.
Sōseki utilizza vari personaggi e situazioni nel romanzo per criticare la prevalenza dell’ipocrisia e dell’inganno nella società, ritraendo ad esempio personaggi che si presentano in un modo ma si comportano diversamente in privato, riflettendo una generale mancanza di onestà e autenticità. Tutto questo attraverso l’abile uso dell’umorismo e dei differenti registri linguistici. Leggendo il romanzo in lingua originale, si notano infatti diverse espressioni dialettali che servono a porre distanza tra i personaggi. Tutto questo evidenzia le distinzioni di classe e le difficoltà che qualcuno come Bocchan, che non proviene da un ambiente estraneo, deve affrontare quando si muove nel panorama sociale. Sōseki esplora lo scontro
tra i valori tradizionali giapponesi e le influenze occidentali, che stavano diventando più importanti durante il periodo Meiji. Botchan si trova spesso in contrasto con i costumi e le tradizioni locali, riflettendo la tensione tra modernità e tradizione nella società giapponese.
Nonostante i temi così complessi, lo sguardo introspettivo rende la lettura estremamente fruibile. Ciò è supportato dalla narrazione in prima persona, la quale rende l’esposizione più personale ed il rapporto tra lettore e narratore più intimo.
Nel complesso, “Il signorino” è un romanzo umoristico e satirico che esplora temi dello scontro culturale, crescita personale e complessità delle relazioni umane. Offre un ritratto spiritoso e divertente del viaggio alla scoperta di sé di un giovane uomo mentre affronta le sfide della vita in una cittadina rurale nel Giappone di epoca Meiji. È un’opera classica della letteratura giapponese che offre sia una narrazione divertente che un’esplorazione stimolante di vari temi, rilevanti non solo al tempo, ma per ogni persona alla ricerca di una versione migliore di sé.
L’associazione Takamori è lieta di annunciarvi che verremo ospitati il 13 ottobre alle 18.30 presso il Mondadori Bookstore Mestre per la rubrica di eventi “Ad alta voce“, uno spazio in cui parleremo de “Il teatro fantasma” di Yokomizo Seishi edito da Sellerio editore.
Vi aspettiamo e vi rimandiamo alla nostra personale recensione del libro!
L’associazione Takamori è lieta di segnalarvi il seguente testo pubblicato sul sito Web della Luni Editrice
L’opera di Tachibana Sotoo viene qui presentata per la prima volta al lettore italiano attraverso due racconti scritti nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento.
Un’estate a Zushi è un racconto di fantasmi pubblicato nell’agosto del 1937. L’ambientazione nel cimitero di uno sperduto tempio di montagna, la presenza di figure sinistre e la suspense creata dallo sviluppo della narrazione fanno rabbrividire il lettore, che tradizionalmente cercava un po’ di refrigerio dalla calura estiva anche attraverso l’ascolto o la lettura di storie di paura.
Nonostante sia palpabile la tensione creata dall’entrata in guerra del Giappone contro la Cina, la triste vicenda del giovane principe indiano è l’occasione per descrivere non solo le condizioni politiche e sociali dell’India dell’epoca, ma anche il caleidoscopico paesaggio urbano della Tokyo di quegli anni, soprattutto i quartieri di intrattenimento con i cineteatri, i bar affollati di stranieri e gli spettacoli di rivista. Un mondo destinato a spegnersi di lì a poco nel periodo più buio del secondo conflitto mondiale.
Pur appartenendo a generi diversi, i due racconti sono accumunanti dalla presenza di una voce narrante spontanea, a tratti poetica e intimista, talvolta mordace e greve. Spesso sembra coincidere con quella dell’autore per la sapiente mescolanza di realtà e finzione letteraria […]
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