“Favole del Giappone” è una raccolta selezionata di cinque favole tratte dalla vastissima produzione favolistica di Niimi Nankichi, uno dei più importanti autori giapponesi per l’infanzia del Novecento. Sebbene queste favole siano state realizzate in fasi diverse della produzione dell’autore e siano caratterizzate da personaggi e luoghi differenti, vi è possibile leggervi una soggiacente coerenza dei temi trattati, un costante ricorrere di alcuni motivi tipici poi dell’intera opera dell’autore, una struggente unità di toni e atmosfere.
Nella favola che apre la raccolta, Gon la volpe(ごん狐, Gongitsune) la vita del Giappone rurale è presentata parzialmente da una prospettiva “altra”, quella non umana della volpe Gon. Il mondo del villaggio è presentato nella sua interazione, non sempre pacifica ma comunque reciproca e costante, con l’universo animale; le due sfere scorrono parallele e caratterizzate da esperienze simili, come la solitudine e la perdita della figura materna.
La volpe è capace di comprendere i sentimenti degli umani e di empatizzare con loro, in fondo così simili. Proprio quest’empatia si trasforma in azione finalizzata a migliorare la condizione comune, a unire e curare due solitudini, quella dell’uomo e quella dell’animale, unite dal lutto materno.
Nonostante le buone intenzioni la comunicazione appare però impossibile; le due sfere si sfiorano brevemente, di nascosto, senza mai riuscire a instaurare un vero dialogo. E in assenza di comunicazione le buone azioni assumono conseguenze imprevedibili: a ciò contribuisce una certa cecità umana, incapace di comprendere il ruolo della volpe e di scorgerne le nobili motivazioni.
Questa distanza comunicativa, questa inabilità sarà quindi il motore dell’epilogo del racconto;
qui l’improvvisa, futile realizzazione delle azioni animali apre finalmente una finestra di comunicazione oramai effimera, ma comunque genuina e totale. E proprio su questo momento si chiude il racconto: i protagonisti vi rimangono fermi, protraendolo per sempre, incapaci di costruirvi una solitudine condivisa e avvolti da una luce di soffusa tristezza.
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Nella seconda favola, L’ultimo suonatore di kokyū (最後の胡引き, Saigo no kokyūhiki) vengono tratteggiati tre diversi momenti della vita di un suonatore di kokyū, dal momento in cui impara a suonare lo strumento fino alla vecchiaia.
Qui il mondo rurale è dipinto nella sua graduale evoluzione, delineata attraverso la progressiva scomparsa di una vecchia tradizione. Ogni anno, infatti, il giorno di Capodanno il suonatore intraprendeva assieme al cugino il lungo cammino per la città per suonarvi e ricevere le donazioni degli abitanti, ritornando poi al proprio villaggio. Tuttavia, con gli anni la modernità occidentalizzante avanza inesorabilmente; gli abitanti iniziano a preferire le nuove tecnologie come la radio e la vecchia tradizione ne soffre le conseguenze.
Nessuno vuole più ascoltare la musica del kokyū; ormai non voluti, i suonatori smettono di effettuare il pellegrinaggio annuale e solo il vecchio Kinosuke si appiglia ostinatamente al passato, decidendo di recarsi in città nonostante il parere contrario della famiglia, gli acciacchi dell’età, la defezione del cugino e il clima ostile.
A convincerlo ad affrontare tutte quelle difficoltà è il ricordo del gentile anziano che sin dai giorni lontani della sua infanzia l’aveva accolto nella sua casa e aveva ascoltato con passione la sua musica.
La scomparsa del vecchio rappresenta la sparizione dell’ultimo frammento vivo del vecchio Giappone:
ora il kokyū non ha più nessuno che ascolti il suo canto e viene suonato, per l’ultima volta, per commemorare un uomo e un mondo ormai perduti per sempre nel passato. Il cambiamento non viene qui accettato ma è piuttosto subito impotentemente dal suonatore, travolto dall’avanzare inclemente della modernità; ogni resistenza appare futile e la nostalgia si configura come l’unico rifugio possibile di fronte a un mondo ormai irriconoscibile.
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Anche nel terzo racconto, Il lume a petrolio del nonno (おじいさんおランプ, Ojisan no ranpu) la modernità irrompe in un piccolo villaggio rurale. Il giovane protagonista visita la città vicina e rimane sorpreso dalla sua modernità, esemplificata dal grande numero di lampade e dalla sua luminosità, così diversa dall’oscurità dei villaggi della campagna.
Le luci del progresso entrano ora nel mondo rurale, illuminano gli spazi e le vite dei contadini, diradano le “retrograde” tenebre circostanti.
Il protagonista vede il proprio lavoro di venditore di lumi come una vera e propria missione “civilizzatrice”, nutrendo fiducia nel proprio ruolo e nella propria capacità di migliorare la vita del villaggio, aprendolo al nuovo mondo e portandovi il Progresso: questa fiducia è però messa in crisi dall’ulteriore evoluzione della tecnologia. L’arrivo della luce elettrica minaccia infatti il mondo delle lampade; la vita del protagonista ne viene scossa e la sua stessa professione viene messa a repentaglio.
Colui che si era posto fino a quel momento come un campione del progresso si oppone ora ostinatamente all’avanzare del nuovo.
Anche in questo caso la resistenza appare futile; tuttavia, la risposta del protagonista e il messaggio sono nettamente diversi da quelli della storia precedente. Dopo un breve, incompleto tentativo di opporsi in maniera violenta al nuovo che avanza, il venditore di lumi comprende la necessità di adattarsi al nuovo mondo e di ritagliarvisi un nuovo ruolo. Scegliendo di rimanere fedele ai propri principi etici anche a scapito degli interessi concreti più immediati, decide di assecondare il cambiamento.
Il rito dell’abbandono e della rottura delle lampade rappresenta quindi un atto di rottura totale col passato, il marchio inequivocabile di un nuovo inizio.
Impossibilitato a portare la luce “fisica” nel mondo rurale, il protagonista sceglie di dedicarsi alla professione del libraioe di portarvi la luce spirituale della cultura. Mutano quindi circostanze e oggetti, ma la missione etica e il sereno ottimismo rimangono gli stessi; avanti negli anni, il protagonista si trova infine a ricordare con gioia quei giorni lontani della sua gioventù, con la voce velata da una dolce nostalgia.
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Il quarto racconto, Andando a comprare i guanti(手袋を買いに, Tebukuro o kai ni) ha il mondo animale come vero protagonista. Un cucciolo di volpe ci viene presentato nel suo angolo sicuro, mentre gioca felice nella neve accompagnato dalla sua premurosa Mamma Volpe.
Il viaggio verso la città che il volpino è costretto a intraprendere da solo per acquistare dei guanti lo costringe ad abbandonare per la prima volta la tranquillità della tana materna e a interagire con il pericoloso mondo degli uomini, da cui era stato messo in guardia. Nonostante i pericoli corsi e gli errori commessi, il viaggio ha un esito positivo.
Sulla via del ritorno, il cucciolo scorge da una finestra aperta una mamma umana che culla il suo bambino nel sonno, cantandogli dolcemente una canzone: il cucciolo pensa quindi alla sua mamma, che fa lo stesso per lui nel caldo della sua tana, e corre immediatamente da lei trovandola tremante ad attenderlo nella neve. Dimensione umana e dimensione animale sembrano di nuovo incontrarsi e assomigliarsi, accomunate dall’affetto incondizionato delle madri per i figli.
Ben diverso dall’epilogo del primo racconto, il finale esprime qui un totale ottimismo: uomo e animale riescono a interagire soddisfacentemente senza ricorrere alla violenza, contrariamente ai timori di Mamma Volpe, che inizia a ricredersi sul conto degli umani mentre imbocca col suo piccolo, felice e illeso, la sicura strada di casa.
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Nell’ultima storia, Piede di contadino, piede di bonzo (百姓のあし、坊さんのあしHyakushō no ashi, bōsan no ashi) la sfera religiosa e sociale del Giappone rurale sono tratteggiate più nel dettaglio da Niimi Nankichi.
A questa descrizione più complessa e sfaccettata, e certamente meno idealizzata e bucolica, della vita di villaggio si affianca una forte dimensione etico-religiosa alimentata da forti suggestioni provenienti dalla spiritualità buddhista.
Durante la raccolta del komebatsuho (la pratica di ritirare, casa per casa, il riso nuovo che i contadini offrono al vicino tempio buddhista) l’abate del tempio locale e il contadino Kikuji si ubriacano con il sake offertogli dai contadini e mancano di rispetto, calpestando il riso bianco offerto da uno zoppo. Nelle pagine successive traspare l’essenza del mondo contadino descritto nella sua intimità familiare, con il suo sistema morale di valori forti; il cibo, ottenuto solo grazie a lunghe ore di fatica e con l’amaro sudore della fronte, deve essere rispettato e le azioni di Kikuji sono condannate dalla stessa madre, rappresentante intransigente dell’etica contadina, che prevede tremante l’arrivo di una punizione.
Tale punizione non esita ad arrivare ma non colpisce tutti allo stesso modo: mentre il contadino è costretto a letto da un terribile dolore al piede con cui aveva calpestato il riso, l’abate appare in perfetta salute, sempre più rubicondo mentre consegna alla popolazione sermoni pieni di ipocrisia.
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Il contadino si scaglia quindi contro l’apparente ingiustizia del Cielo, che sembra in fondo replicare l’ingiustizia della Terra; mentre lui e la sua famiglia sono costretti a trascinarsi nella polvere dei campi, sopravvivendo solo grazie al duro lavoro, il monaco vive una vita tranquilla nello spazio sicuro del suo tempio, apparentemente estraneo alle conseguenze delle sue azioni. La sofferenza, però, si rivela indispensabile per la comprensione; solo grazie al dolore il contadino capisce il proprio errore e la giustizia della punizione ricevuta: a differenza dell’abate, lui coltivava la terra e conosceva il dolore del raccolto, lo sforzo amaro della vita dei campi, e proprio questo rendeva l’atto che aveva commesso ancora più grave.
La comprensione del proprio sbaglio permette il perdono, apre la strada della rinascita spirituale. Alla fine del racconto, il Cielo appare tutt’altro che ingiusto: nel loro incontro dopo la morte, mentre camminano su una lunga strada fiorita, l’abate continua a maltrattare il contadino che si dimostra al contrario umile e compassionevole.
Il religioso continua ad applicare le categorie umane anche dopo la morte, trascinandosele dietro dal mondo dei vivi: dall’alto delle sua posizione sociale, è convinto della propria superiorità rispetto al mite Kikuji, certo che la propria posizione sia sufficiente ad aprirgli la strada per il paradiso. Ma la giustizia sovrumana non sembra interessata allo status sociale. Trascinando la gamba, il contadino viene indirizzato sul sentiero di destra, quello che conduce al paradiso; mentre l’arrogante abate viene trasportato, in un risciò non destinato a lui ma che pretende come proprio di diritto, sull’altro sentiero, verso la perdizione.
Il messaggio del racconto è consolatorio ed esprime un totale ottimismo. All’apparente ingiustizia del mondo terreno fa da contrappeso la giustizia suprema della vita dopo la morte; la sofferenza che si prova in vita, percepita come una punizione, è in realtà lo stimolo maggiore per la comprensione delle proprie colpe e porta al raggiungimento della felicità ultraterrena.
Si può leggere in questo una dimensione autobiografica; tormentato dai terribili dolori della tubercolosi, che lo stroncherà alla giovane età di 30 anni, l’autore si confrontava quotidianamente con l’esperienza della sofferenza e questa alimentava la sua riflessione e il suo pensiero; in questa favola si potrebbe leggere quindi il tentativo autoconsolatorio di trovare una spiegazione per il proprio male e al tempo stesso la speranza di una fuga da esso, sia pure nella cornice mistica del mondo ultraterreno.
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È possibile quindi identificare una serie di temi che accomunano i cinque racconti della raccolta tratti dalla vastissima produzione di Niimi Nankichi.
Innanzitutto la centralità costante del mondo rurale e della vita di villaggio; lungi dall’essere vagheggiata bucolicamente, la realtà della campagna è descritta nella sua concretezza sociale, fatta di fatica, di profondi rapporti familiari, di sentite tradizioni, di un sistema di valori radicato alla terra e di resistenze al cambiamento. Si tratta di un mondo Altro rispetto a quello lontano della città, con le sue luci e i suoi negozi: al tempo stesso opposto e complementare, l’ambiente urbano incombe però sempre sul mondo delle campagne, fonte simultaneamente di minacce e di opportunità.
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La città è il luogo della modernità, del nuovo che si espande verso la realtà del villaggio minacciando di modificarla irrimediabilmente e di annichilirne le profonde tradizioni; luogo “liminale” in cui i protagonisti si recano solo brevemente per ottenere qualcosa (che si tratti di denaro, di lumi o di guanti) per poi tornare immediatamente alla sicurezza del proprio villaggio; a essa si guarda con timore, ma anche con fascinazione.
Questo movimento segue in fondo l’esperienza di vita dell’autore che, dopo aver vissuto e studiato nella capitale, spinto anche dalla malattia aveva scelto di ritornare in provincia, dove aveva riscoperto una dimensione più autenticamente rurale che sarebbe poi divenuta uno dei tratti più caratterizzanti della sua produzione letteraria.
Ogni forma di resistenza sembra in ogni caso futile: il vecchio viene travolto inesorabilmente dal nuovo e il mondo delle città avanza. La modernità può essere abbracciata con entusiasmo o rigettata totalmente, affrontata con rassegnazione o con un sereno ottimismo; in entrambi i casi il processo non è indolore e il nostalgico ricordo del passato risulta essere, se non l’unica consolazione di fronte a un mondo che diventa sempre più rapidamente estraneo come nel caso estremo della seconda favola, quantomeno un sereno rifugio di fronte al rapido fluire degli eventi.
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In tutte le storie di Niimi Nankichi è poi fondamentale la dimensione familiare (o la sua dolorosa assenza).
La casa – o la tana – è il luogo sicuro di una sommessa intimità, del calore umano e della cura reciproca, degli affetti più spontanei, il focolare che illumina un mondo avvolto dalla neve. L’amore materno accomuna uomo e animale, fornisce una guida sicura di fronte alle difficoltà del mondo, crea un luogo sicuro in cui rifugiarsi.
La solitudine, vissuta come assenza e compagna del lutto, è un’esperienza dolorosa che i personaggi sperimentano spesso e che provano a superare costruendo un nucleo nuovo, tentando di forgiare nuovi rapporti di cura reciproca, con esiti assai diversi. Essi spaziano dalla tragicità della prima favola, in cui la costruzione di una “famiglia” fallisce a causa dell’incomunicabilità reciproca, al successo del terzo racconto, in cui l’orfano venditore di lumi arriva a raccontare al proprio nipotino una vecchia storia nella tranquillità della propria casa e nella serenità della vecchiaia.
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Anche in questo caso traspare l’influenza dell’esperienza personale dell’autore: orfano di madre sin dalla più tenera età, la vita familiare di Niimi Nankichi era stata particolarmente travagliata.
Alla luce di questo dato andrebbero letti quindi i ricorrenti temi della solitudine e della perdita, ma anche le ricostruzioni di una vita familiare ideale:
quasi come in una forma di sublimazione del desiderio, l’autore esprime così la propria volontà di regredire verso una dimensione protetta, contemporaneamente una forma di ritorno alla culla e uno slancio verso la paternità di cui però la malattia e la sofferenza lo avrebbero privato. Per la complessità dei temi trattati e la profondità della visione l’opera non si rivolge quindi esclusivamente a un pubblico infantile, fornendo anzi interessantissimi spunti di riflessione e immagini suggestive anche a un pubblico più adulto.
“Il sole si spegne” (titolo originale: 斜陽, Shayō), viene pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1947. Il romanzo, il primo dello scrittore, rispecchia la realtà in cui si trovavano la classe aristocratica e quella intellettuale nel secondo dopoguerra, annientate spiritualmente dal conflitto. L’aristocrazia ha perso ogni possedimento e potere e la classe intellettuale è diventata sempre più criticata: artisti e scrittori non trattano più i temi tradizionali, ma portano il seme del nichilismo e attirano su di sé le maldicenze per via della vita dissoluta che sono “costretti” a vivere. Molti fanno uso di droghe o diventano alcolizzati e dormono con altre donne nonostante abbiano moglie e figli, spesso non tornando a casa per giorni.
Questa è la vita narrata dalla protagonista Kazuko, una ragazza di ventinove anni appartenente a una famiglia aristocratica caduta in disgrazia, costretta a trasferirsi in una villa di campagna. È sorella maggiore di Naoji, in primis un intellettuale, ma anche un soldato che ha combattuto nel sud del Pacifico e che fin dal liceo ha fatto uso di oppiacei.
La madre dei due fratelli viene considerata dalla protagonista l’unica vera aristocratica rimasta in vita, in quanto segue ancora le regole della sua classe sociale. Kazuko, al contario, durante la guerra ha dovuto fare lavori pesanti e lavorare nei campi come altri civili, su richiesta del governo, scoprendo di trovarsi a proprio agio, letteralmente, nei panni del contadino.
La protagonista, inoltre, ha anche un divorzio alle spalle. Nonostante voglia compiere il desiderio di avere un figlio, è costretta a spostare interamente le sue attenzioni sulla madre malata di tubercolosi, senza ricevere aiuto dal fratello tornato dalla guerra, assorbito dalla vita scriteriata che porta avanti a Tokyo insieme al suo mentore e scrittore Uehara Jirō.
Kazuko si innamora del romanziere dopo il primo incontro che hanno e, nei sei mesi che separano il loro secondo e ultimo incontro, gli invia tre lettere in cui esprime la sua volontà di avere un figlio da lui nonostante sappia che lui è sposato e ha una figlia. Lo scrittore non risponderà mai a quelle lettere.
Dopo un mese dalla morte della madre e dal suicidio del fratello per la sua autoriconosciuta mancanza di “capacità di vivere”, attraverso un’ultima lettera senza risposta di Kazuko a Jirō, si scopre che la protagonista è rimasta incinta dello scrittore, avverando il suo sogno.
Attraverso questo romanzo, Dazai mostra un realtà che lui stesso conosce in quanto figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri: la realtà della vita sfrenata all’insegna di alcol, droghe e donne, che portano all’annichilimento del corpo e della mente.
Lo stesso Dazai, stremato dalla vita che lui stesso conduce che gli comporta anche l’aggravarsi delle condizioni di salute, viene trovato morto insieme all’amante nel bacino di Tamagawa a Tokyo il giorno del suo trentanovesimo compleanno.
Avvolta da un’impenetrabile aura di mistero, “Il teatro fantasma”, opera pubblicata di recente da Sellerio Editore, raccoglie tre racconti del maestro del genere investigativo giapponese Yokomizo Seishi tradotti per la prima volta in italiano. Il talentuoso detective Kindaichi Kōsuke riesce a risolvere grazie alla sua arguzia casi complessissimi, tra macabri omicidi e inspiegabili sparizioni, raccogliendo con il suo occhio attento indizi apparentemente insignificanti e districando complessi intrecci di luoghi, sentimenti e personaggi.
Nel primo racconto, “Una testa in gioco”, il ritrovamento della testa recisa di una spogliarellista e la scomparsa apparentemente inspiegabile del resto del corpo aprono una lunga indagine che coinvolge il mondo distante dei night clubs della Tokyo degli anni ’50, fatto di sregolatezze, passioni e ombre inquietanti, capaci di proiettarsi molto lontano; un mondo di amanti e di protettori, di apparenze che ingannano e di luci che distorcono, celando loschi segreti che si riveleranno essere molto al di là dell’immaginabile.
Nel secondo racconto, “Il teatro fantasma”, il lettore si trova invece proiettato nell’universo del teatro kabuki. Il sesto senso del detective lo spinge a ricominciare a indagare su un vecchio caso: la scomparsa irrisolta del vecchio amico Raizō, acclamato attore kabuki, avvenuta durante uno spettacolo quindici anni prima. L’intuito dell’investigatore lo spinge a sospettare che qualcosa di grave avverrà durante una incombente rappresentazione commemorativa dello stesso spettacolo in cui il figlio dell’amico scomparso, divenuto nel frattempo un talentuoso giovane attore e adottato a sua volta il nome di scena di Raizō, reciterà nello stesso ruolo del padre proprio il giorno dell’anniversario della sua scomparsa. La narrazione si svolge su due fili paralleli e complementari: uno cerca di ricostruire e comprendere il passato, attraverso continui flashback e il dialogo con vecchie conoscenze, l’altro si svolge nel presente e tenta tanto di sventare quanto di risolvere i crimini, in un’atmosfera di suspense costante e di frenetica tensione. Lo spazio marginale di un teatro in rovina, su cui una serie di eventi sinistri e inspiegabili proiettano un’atmosfera quasi spettrale, ben lontana dai fasti di un passato non troppo remoto, costituisce la suggestiva cornice in cui si svolge la narrazione che con il suo incalzare sempre più vertiginoso ci trasporta in una realtà a prima vista indecifrabile, un labirinto di bugie, finzioni, travestimenti e messinscene su cui si proiettano i mostri ancora irrisolti del passato. Dietro (o meglio, sotto) il mondo artificiale del palcoscenico si celano nell’ombra entità ignote, pronte a colpire nella maniera più subdola, covando rivalità e rancori passati, progettando in segreto losche trame; ma allo stesso modo vi si trovano gli affetti umani più puri e commoventi, come la devozione di chi non ha mai rinunciato a trovare un vecchio amico nonostante il trascorrere inclemente degli anni o la speranza di una sorella che crede ancora di poter riabbracciare il fratello perduto. E il mistero viene complicato ancora di più dal fatale flusso degli eventi, dallo svolgersi imparziale della Storia che sconvolge il mondo e travolge le vite dei personaggi. Il Secondo Conflitto Mondiale interferisce in maniera ambivalente con l’avanzare della narrazione: impedisce infatti per anni l’avanzamento delle indagini, ma fornisce anche, casualmente, indizi fondamentali e permette di scoprire verità insospettabili, mentre la sua lunga ombra si proietta minacciosa ad anni di distanza sul fluire degli eventi. A impreziosire ulteriormente questo racconto è il riferimento costante al teatro kabuki, che tradisce la profonda conoscenza dell’autore in materia e contribuisce ad alimentare un’atmosfera di irrealtà e di finzione, intensificando la dimensione drammatica e, appunto, teatrale dell’intero racconto.
I fatti narrati ne Il Corvosi svolgono invece lontano dalle luci della capitale, portando in scena la realtà di un Giappone rurale. Ambientato nello spazio chiuso della provincia, nei pressi di un santuario shintoista in declino, quest’ultimo racconto indaga una misteriosa sparizione avvenuta in seno a una famiglia benestante della zona, inestricabilmente legata al santuario e alla sua divinità. Qui traspare una maggiore attenzione per lo spazio familiare percepito non come luogo idealizzato di armonia ma come una realtà sfaccettata, caratterizzata da rapporti interpersonali spesso indecifrabili e interessi contrastanti; il mistero si svolge in uno spazio sacro e si arricchisce di una dimensione più spirituale, fondendosi con la profonda fede nella divinità del santuario e con l’alterità quasi arcana degli sconfinati e reconditi spazi montani. Una fuga inspiegabile dal perimetro chiuso del tempio sacro, una lettera criptica rinvenuta subito dopo sull’altare e soprattutto la blasfema uccisione di un corvo, messaggero sacro della divinità del tempio, nello spazio nascosto di un eremo di montagna consacrato al Buddha contribuiscono a circondare la narrazione di un’aura di sacralità, facendo penetrare in ogni suo aspetto una vena di profondo esoterismo. Mantenendo però immutata la lucida razionalità che lo contraddistingue, il detective Kindaichi Kōsuke riesce a venire a capo del difficile caso, scoprendo –anche grazie a un insospettato aiuto esterno- una verità terribile e inaspettata, oltre che ben lontana da qualunque spiegazione sovrannaturale. Sullo sfondo, a muovere gli eventi, le passioni e le credenze di un Giappone ancora lontano dalla frenesia della vita cittadina.
Tre racconti diversi quindi per ambientazione e per personaggi, tenuti insieme dai temi comuni dell’investigazione, del crimine e del mistero. Oltre a saper intrattenere con maestria il lettore mediante un’articolazione sapiente della narrazione, che permette di mantenere sempre alta la suspense e di catturarne l’attenzione, e attraverso un uso magistrale e coerente dei colpi di scena, l’opera riesce a fornire una descrizione efficace e suggestiva della società giapponese dell’epoca, gettando luce in particolare sui suoi paurosi coni d’ombra, sui suoi spesso dimenticati spazi marginali e sui traumi che hanno contribuito a plasmarla, come la ferita ancora sanguinante della difficile esperienza bellica. Radicata saldamente nel contesto nipponico, la sua analisi lucida delle passioni e delle bassezze umane la rende però pienamente capace di rivolgersi a un pubblico universale.
“Le nostre adorate ragazze” (titolo in giapponese: 最愛の子供) è l’ultimo libro di una delle autrici più rappresentative del panorama letterario giapponese contemporaneo, Matsūra Rieko, pubblicato nel 2017. L’autrice si è distinta fin dai primi anni di università per le sue opere, vincendo il premio letterario Bungakukai per esordienti. Tutta la sua produzione non manca di varietà di contenuti e nelle sue opere l’autrice parla di minoranze sessuali e relazioni famigliari al di fuori delle convenzioni, con un particolare focus su tematiche come il corpo e la sessualità femminile.
“Le nostre adorate ragazze” parla di tre studentesse che frequentano una classe femminile dell’Istituto privato Tamamo: Hinatsu, Mashio e Utsuho. Qui, il trio di ragazze ha formato quella che le loro compagne definiscono una “famiglia”, all’interno della quale ognuna ha il suo ruolo: Hinatsu è il papà, Mashio la mamma e Utsuho il principe.
Hinatsu e Mashio, come veri genitori, riservano sempre particolari attenzioni per la dolce Utsuho, coccolandola come fosse davvero la loro figlia, e tra di loro il legame affettivo è sempre più forte. Quello che però andrà a intaccare questo felice quadretto famigliare è lo sguardo pregiudicato e severo degli adulti che le circondano. Come viene spiegato sin dai primi capitoli, nessuno ricorda con esattezza come è nata l’idea di quella loro famiglia né come siano stati assegnati i ruoli, ma nessuna delle ragazze dell’istituto sembra trovare nulla di strano in quella situazione.
Tutto ciò viene raccontato dal narratore, o meglio da un “noi narrante” rappresentato dalle compagne di classe delle tre protagoniste. Quello che più emerge dalla narrazione è come le narratrici desiderino semplicemente vedere la loro “famiglia” felice e unita, per poter continuare a “osservare, interpretare, edulcorare e raccontare la loro storia”. Non si delinea altro che curiosità, nessuna critica o pregiudizio nei confronti delle tre ragazze e, grazie alle loro parole, Matsūra Rieko smonta ogni preconcetto riguardo la famiglia “tradizionale”, slegandola dai rapporti di sangue e allontanandosi dalla visione delle vecchie generazioni ancora chiuse al cambiamento e alle novità. In questa maniera, l’autrice amplia il concetto stesso di famiglia e fornisce di questo nuovo tipo di rapporto una visione molto positiva.
Quest’oggi l’Associazione Takamori vi propone un’intervista realizzata dalla testata giornalistica Notiziario Eolie a Francesco Vitucci, docente di lingua e linguistica giapponese presso l’Università di Bologna e direttore della collana Arcipelago Giappone.
di Cristina Marra
Intervista a Francesco Vitucci docente e esperto di letteratura giapponese
Nella vasta libreria di Eolo uno spazio speciale è riservato al Giappone. Dal Sol Levante giungono romanzi, racconti, saggi che riscontrano un crescente interesse tra i lettori italiani e Francesco Vitucci, professore associato di linguistica Giapponese all’università di Bologna e traduttore delle opere di Y. Seichi per Sellerio, uno dei massimi esperti di cultura e letteratura giapponese è in libreria con l’ultima uscita delle indagini del detective Kindaichi di Seichi e con la collana Arcipelago Giappone di Luni Editrice. Anche le Eolie non sono poi così lontane…
Francesco sei curatore della collana Arcipelago Giappone di Luni editore giunta alla settima pubblicazione con Favole del Giappone. Che libri propone la tua collana?
Arcipelago Giappone apre al lettore una nuova dimensione nella quale ogni opera, proposta sempre in traduzione dal giapponese, rappresenta un’esperienza letteraria orientata verso il Giappone moderno nella sua complessità. La finalità è quella di offrire un ampio affresco di generi e concetti che sorprendono tanto per la loro originalità quanto per le profonde e imprevedibili analogie con correnti letterarie di respiro mondiale. Ecco perché accanto al giallo (Edogawa Ranpo, Yumeno Kyūsaku), abbiamo pensato di accostare autori di narrativa (Nakajima Atsushi), letteratura fantastica (Izumi Kyōka) e per l’infanzia (Niimi Nankichi). Tutti nomi del tutto sconosciuti in Italia, ma doverosamente citati nella critica letteraria, nonché richiamati nella storia della letteratura giapponese.
Sei traduttore di Seishi, considerato il Simenon del Sol Levante, proprio in questi giorni è in uscita il quarto libro edito da Sellerio, anticipi ai Libri di Eolo qualcosa?
Il prossimo volume raccoglie il romanzo Una testa in gioco in cui il detective Kindaichi – goffo, trasandato, di intuito acutissimo – è alle prese con un caso che sembra il macabro rovescio dei «gialli col cadavere senza volto», poiché nell’appartamento di una spogliarellista viene trovata la testa della donna sopra un tavolo da poker. Sempre all’interno del volume troviamo il secondo romanzo Il teatro fantasma che assume quasi i toni di una fiaba thriller. L’ambientazione è suggestiva perché la storia si svolge all’interno di un teatro kabuki e vede come protagonisti tre fratellastri e la loro rivalità sotterranea, un vecchio e fedele assistente di scena, un’impresaria cieca coinvolta giocoforza nella sparizione inspiegabile del fratello attore – avvenuta sul palco sedici anni prima – ma destinata a ripetersi come una sfida rivolta a Kindaichi, questa volta in forma di omicidio. Il volume si conclude con il racconto Il corvo ambientato in uno stabilimento termale annesso a un santuario shintoista. Quella che doveva essere una vacanza ristoratrice si trasforma per Kindaichi in una nuova indagine: tra corvi sacri che stillano sangue, la maledizione di una dea gelosa, e il più antico dei moventi: ovvero, l’invidia.
Il tuo legame col Giappone è molto profondo. Perchè secondo te la sua narrativa piace tanto in Italia?
Bisogna innanzitutto riconoscere che la letteratura giapponese sta riscuotendo un buon successo in Italia ormai da alcuni anni e, proprio per questo, il parterre dei lettori oggi è ormai più che maturo per orientarsi in diversi generi e altrettante nicchie. Di base, penso che la curiosità verso il Giappone sia giustificata prima di tutto dalla ricchezza contenutistica che la letteratura giapponese offre ai nostri lettori, stimolata altresì da un indubbio aumento delle traduzioni in italiano che hanno raccolto, a loro volta, un pubblico estremamente trasversale: da appassionati di letteratura classica e poesia fino agli amanti delle opere più contemporanee e moderne. Di certo, anche il soft power della cultura giapponese ha giocato a favore di questo avvicinamento. Ecco perché il Giappone, nonostante lontano, in Italia viene percepito come un paese molto affine e con il quale poter sviluppare una certa empatia.
Alle Eolie ci sei stato lo scorso anno, cosa ti hanno trasmesso i luoghi di Eolo?
Di sicuro lo spazio geografico delle Eolie, che è di per sé aperto, assomiglia molto all’arcipelago giapponese perché permette lo scambio, l’avvicinamento, l’incrocio culturale. È uno spazio vivo, complesso, curioso. Personalmente, grazie alla mia esperienza alle Eolie, ho avuto modo di entrare in contatto con scrittori, traduttori, giornalisti e imprenditori potendo ampliare la mia visuale accademica, troppo spesso costretta nell’ambito meramente linguistico, traduttivo e traduttologico. Di certo, questa esperienza mi ha permesso di comprendere a fondo il valore della divulgazione e dell’incontro,fondamentale per connettersi con il pubblico dei lettori e, più in generale, con la società nel suo complesso, nonché di focalizzarmi su quelli che sono gli obiettivi del mio lavoro, ovvero arrivare alle persone portando loro delle storie e dei racconti.
Avvolta da una spessa atmosfera onirica, Labirinto d’erba di Izumi Kyōka è un’opera densa e complessa, in cui mondi apparentemente diversi e distanti – il naturale, l’umano e il sovrannaturale- si intersecano costantemente e si influenzano vicendevolmente in maniere imprevedibili, mutando con la velocità di un battito di ciglia.
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La natura labirintica dell’opera è data dallo stesso procedere della narrazione, articolato su più livelli e soggetto a frequenti cambi di prospettiva. La narrazione si apre con la descrizione dello Ōkuzure, un promontorio a picco sul mare, e dei suoi dintorni.
La dettagliata presentazione di uno spazio naturale talvolta minaccioso ma anche di enorme bellezza estetica, popolato da arcane presenze sovrannaturali capaci all’occorrenza di procurare danno agli umani, sarà un elemento che ricorrerà frequentemente nell’intera opera in un binomio che oppone la paura per l’ignoto all’attrazione. In una piccola casa da tè nella provincia di Sagami, il bonzo Kojirō si ferma a riposare e ascolta, tra una tazza e l’altra, la lunga storia che gli viene narrata dall’anziana proprietaria. In questo modo viene a conoscenza degli oscuri eventi che stanno avvenendo nella regione; in sequenza sono narrate la sfortunata vicenda del giovane Kakichi, l’incontro del vecchio Saihachi con una misteriosa e potente figura femminile, lo strano comportamento dei ragazzini del villaggio che ripetono in processione, i volti coperti da foglie di taro forate, una strana filastrocca che sembrano aver imparato proprio da questa sconosciuta presenza femminile.
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Si arriva così al centro nevralgico dell’intera narrazione: la Porta Nera.
A seguito di eventi nefasti, questa residenza è temuta da tutti ed evitata dagli abitanti del villaggio, che la ritengono un luogo infestato. Solo il vecchio Saihachi vi si reca ancora; per questo la moglie chiede al bonzo di visitarla e di recitarvi un sūtra. Presentato al lettore in strane circostanze, la villa ha da poco un nuovo inquilino: il giovane Akira, uno studente venuto da lontano. Con il suo arrivo, l’opera inizia ad esprimere più concretamente la propria vocazione onirica.
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Finora limitati al racconto indiretto e percepiti come lontani, gli eventi inspiegabili si moltiplicano per numero e per intensità; non più narrati dalla voce esterna dell’anziana, sono ora raccontati dai diretti interessati e si manifestano nel loro svolgersi, rivelandosi gradualmente agli occhi increduli dei lettori.
La Porta Nera è un Non-luogo, dove il tempo scorre diversamente e dove anche la natura sembra comportarsi in maniera differente. Il sole cala prima, le foglie degli alberi proiettano strane ombre e lo scroscio della pioggia può essere udito anche quando il cielo è sereno.
Le assi dei tatami si muovono da sole, gettando nel panico gli uomini; le lanterne vorticano in maniera inspiegabile, generando strane luci e deformando i contorni delle cose; gli oggetti spariscono…
Nell’oscurità di una di queste stanze, al calar della sera, Akira rivela al bonzo Kojirō la ragione del suo viaggio.
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Orfano di madre, il giovane ha viaggiato per cinque anni alla ricerca di una filastrocca che cantava quando da bambino giocava a palla con le amiche.
Il ritrovamento di una palla identica a quella che possedeva da piccolo nel ruscello che attraversa il giardino della Porta Nera e le filastrocche cantate dai bambini del villaggio lo hanno indotto a restare in quel luogo, convinto che tra le mura di quella strana casa sarebbe riuscito a sentire per la prima volta dopo tanto tempo ciò che cercava, unica maniera di riportare in vita, seppur brevemente, la memoria della madre. L’oralità sembra quindi fornire una delle chiavi di lettura dell’intera opera. Non solo gran parte della narrazione avviene nella forma del racconto orale, ma anche i canti e le filastrocche vi ricoprono un ruolo rilevantissimo.
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L’ opera si apre proprio con una filastrocca e queste sembrano essere una vera e propria ossessione per il personaggio di Akira, che annota tutte quelle che ascolta. In diverse occasioni queste nenie sembrano poi ricoprire un ruolo quasi magico; la misteriosa figura femminile ne intona una nella notte dell’incontro con Kakichi, che viene modificata e ripetuta dai bambini che sfilano in un’occulta processione.
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Nella parte finale, le filastrocche lette dal monaco sembrano addirittura riuscire a materializzarsi nel presente.
In generale, il canto sembra capace di aprire un varco, schiudendo il passaggio tra il mondo degli umani e quello delle presenze sovrannaturali. E anche nel caso di Akira quello che il giovane studente ricerca è una sorta di varco: il potere della filastrocca sembra in grado di riportare alla luce il volto ormai dimenticato della madre e quindi violare il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In un atto di effimera necromanzia, lo studente cerca in un certo senso di riportare in vita la figura materna; al tempo stesso, la filastrocca e la palla rappresentano i mezzi principali di un tentativo di regressione all’infanzia.
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Il ricorrere a numerosi simboli femminili nell’opera, l’abbandono totale del giovane agli eventi e l’ambiente buio della casa della Porta Nera suggeriscono quasi una volontà di tornare al grembo materno, di risalire non tanto alla propria madre “reale” quanto a una più archetipica figura di Madre e a una più generale volontà di essere accudito. In quest’ottica sembra emblematica quindi la scelta di una casa in cui sono avvenute due morti di parto e che si vocifera essere infestata da Ubume, spiriti di donne incinta, come luogo prescelto di ricerca. Ancora più significativa sembra poi la disponibilità di Akira, nella visione profetica presentata nella parte finale dell’opera, ad accettare una madre “altra” ; questo rapporto si tramuta presto in un erotismo proibito, nonostante gli sforzi della madre reale che, contravvenendo alla legge dei Cieli, prova a intervenire per portare in salvo il proprio figlio. In questa ricerca del calore materno potrebbe essere ricercato il nucleo tematico dell’intera opera.
Ciò trova una parziale corrispondenza con la biografia dell’autore; orfano, a seguito di alcuni profondi lutti familiari si era ritirato nei pressi del luogo in cui è ambientata l’opera, in una casa in affitto.
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Più in generale, la maternità (e la paternità) sono vissute in maniera travagliata all’interno di tutta l’opera.
Tutti i personaggi principali non hanno figli. L’anziana proprietaria della casa da tè regala a tutti gli avventori sassolini provenienti da una roccia che si dice capace di donare fertilità; tuttavia, con rammarico dichiara di non essere riuscita ad avere prole. Le due gravidanze riportate nel racconto finiscono in tragedia, con la morte di entrambe le partorienti e dei nascituri oltre che il suicidio del padre; a rendere ancora più angosciante la relazione con la maternità contribuiscono le inquietanti presenze delle ubume e la terribile visione nel giardino.
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I bambini compaiono nell’opera solo come presenze di passaggio, irriconoscibili a causa delle foglie di taro che coprono e mascherano il loro viso, entità al confine tra l’umano e il soprannaturale; anche le figure dei genitori sono a malapena tratteggiate e nessun volto si riesce a distinguere nella massa indistinta.
Ciò contribuisce a dare maggiore rilievo e centralità alla figura di Akira, la cui infanzia è al contrario descritta con precisione e le cui figure materne rappresentano dei personaggi importanti: non solo la madre, la cui memoria muove le azioni del giovane, ma anche figure di maternità “complementare”, come la zia e le amiche di infanzia, ricoprono un ruolo importante nella sua ricerca. Sebbene l’opera sembri animata da una tensione costante verso l’archetipo, essa mantiene tuttavia un carattere tipicamente nipponico che ne pervade qualunque aspetto. Frequentissimo è il rimando al teatro kabuki, di cui l’autore era grande esperto e che contribuisce a fornire a molte pagine un notevole effetto drammatico; l’influenza degli interessi letterari dell’autore si nota poi anche nei contenuti, fortemente ispirati dalla letteratura fantastica di epoca Tokugawa. Le apparizioni e le entità sovrannaturali che si avvicendano nel romanzo sono profondamente radicate nella tradizione giapponese e in primo luogo nelle credenze popolari: le figure di yōkai si affollano tra le pagine del romanzo, contribuendo a rendere l’atmosfera più viva e sinistra.
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Anche lo Shintoismo e il Buddhismo forniscono numerosi spazi, suggestioni e figure. Spiriti piangenti, demoni e compassionevoli entità celesti si addensano soprattutto nella parte finale del romanzo, in cui i confini tra realtà e sogno sembrano farsi sempre più sfumati, fino a scomparire del tutto.
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La vita umana non sembra qui troppo lontana dal sogno stesso e lo scorrere degli eventi si fa incerto, si frammenta, sfugge al controllo e alla percezione dei protagonisti, rendendo impossibile distinguere gli eventi concreti dall’illusione e dalla visione.
Dipinto minuziosamente, lo spazio naturale è il luogo privilegiato dove le apparizioni si manifestano, che sia nella forma di una palla trascinata dolcemente da un ruscello o di una voce che risuona imperiosa sul mare. La natura appare sempre minacciosamente sul punto di irrompere nell’elemento umano e vincerlo: potrebbe essere questo il senso della pioggia che penetra dentro la casa dalla Porta Nera, delle erbacce che crescono rigogliose fino a coprirne il sentiero, delle strane ombre proiettate dalle foglie all’interno della residenza e, soprattutto, delle inquietanti maschere ricavate dalle foglie di taro usate dai bambini del villaggio. Quando le indossano essi appaiono irriconoscibili alle loro stesse famiglie, quasi come se l’applicazione dell’elemento naturale li tramutasse, sottraendoli alla sfera umana e trasformandoli indistintamente in qualcosa di Altro.
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Palcoscenico di eventi inspiegabili è soprattutto la montagna, in linea con la tradizione nipponica che da lungo tempo la percepiva come uno spazio Altro rispetto a quello antropico dei campi e dei villaggi, che sfuggiva al controllo umano.
Non è un caso quindi che la Porta Nera si trovi alle pendici dei monti, quasi a voler simboleggiare il luogo d’incontro tra i due mondi. Anche il percorso del monaco Kojirō sembra significativo. Bonzo itinerante, egli deve ancora prendere i voti e ha appena effettuato la sua prima tonsura. Il racconto degli eventi della Porta Nera da parte dell’anziana riesce però a fargli provare autentica compassione; conscio dei suoi limiti, non esita ad ammetterli al giovane Akira; nei momenti di paura, egli fa appello al Buddha con vera fede. Proprio lui riceverà quindi, nel finale del romanzo, la visita dei demoni e interagirà con essi; a lui verrà illustrata la visione profetica riguardo al destino di Akira e proprio lui cercherà di trattenere il giovane dal seguire la presenza femminile nel suo volo. Sebbene non culminante nell’Illuminazione, il suo percorso lo porta quindi a ricevere una rivelazione sovrannaturale e a prendere parte al mistico evento che chiude l’opera, che sembra voler rappresentare un evento risolutivo e di portata universale, coinvolgendo il Cielo e la Terra. Tanto quanto Akira, anche per il monaco quest’avvenimento rappresenta il culmine e il punto di arrivo del suo viaggio.
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“Labirinto d’erba” è dunque un’opera policentrica, in cui punti di vista e tempi si alternano costantemente e in cui il rapido fluire degli eventi si alterna alle modalità del racconto e si diluisce nell’atmosfera densa della visione e dell’onirismo.
Radicata saldamente nell’universo immaginativo giapponese, l’opera offre numerose chiavi interpretative ed è pervasa da una costante tendenza universalizzante che punta a raggiungere l’archetipo. Con la sua atmosfera intrisa di mistero e la sua simbologia complessa, si propone al lettore come un intricato enigma fatto di piante, presenze inafferrabili e drammi individuali, lo trascina in un alternarsi apparentemente caotico di lucidità e sogno, lo spinge a interrogarsi sulla realtà stessa delle cose.
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