Il detective Kindaichi: un caso di delitto (quasi) perfetto

Autore: Yokomizo Seishi

Titolo originale: Honjin satsujin jiken

Editore: Sellerio editore Palermo

Collana: La memoria

Traduzione: Francesco Vitucci

Edizione: 2019

Pagine: 208

Presentare un caso apparentemente impossibile da risolvere è una delle sfide più interessanti che pone Yokomizo Seishi ai lettori nel suo primo libro. Il detective Kindaichi (in traduzione italiana a cura di Francesco Vitucci) è uscito il 4 aprile sotto l’editore Sellerio.

Nel momento in cui si inizia il volume, è necessario dimenticarsi del proprio orgoglio da detective, restituire il badge e appendere la divisa al chiodo. Non importa quanti casi abbiate risolto in precedenza o in quante occasioni abbiate individuato il colpevole già a fine primo capitolo: in questo caso — letteralmente — Yokomizo ha la grande capacità di farvi sospettare di chiunque, di dare ascolto a tutti ma di non credere a nessuno.

Un amore nato sotto una cattiva stella

Quando ci si sente dire di pensarci due volte prima di sposarsi, non ci si dà molto peso. E anche quando si ha la famiglia contro, non si voltano le spalle a un sentimento forte come l’amore. Con queste convinzioni, Ichiyanagi Kenzō e sua moglie Katsuko certo non si aspettavano di essere ritrovati uccisi violentemente in una camera chiusa, per di più la notte stessa delle loro nozze. Eppure, è proprio così che si presentano all’ispettore Isokawa, accasciati l’uno sull’altra in modo quasi poetico. Con i familiari ancora nella magione, appartenente alla famiglia dello sposo, al ritrovamento dei cadaveri si aziona un meccanismo a catena. Questo fa entrare in scena il grande detective Kindaichi Kōsuke, di cui scopriamo il passato e il percorso che lo ha portato a diventare un rinomato investigatore. Grazie al suo acume e alla sua arguzia, uniti alla sua capacità intuitiva e ad un carisma travolgente — che non è fermato dalla sua balbuzie, cosa su cui anzi sembra ironizzare — riesce a risolvere anche questo caso in modo brillante, svelandocene i segreti che non mancheranno di sorprendervi.

«Il caso del koto stregato»

È sotto questo particolare nome che viene presentata la narrazione dei fatti fin dalle prime pagine, le stesse in cui scopriamo le dettagliatissime descrizioni del narratore. Ad alcuni potrebbero risultare macchinose o perfino troppo invadenti ma sono, al contrario, estremamente importanti per poter visualizzare il luogo dove si svolgono le vicende. Yokomizo non vuole avere un rapporto freddo e lontano con quelli che leggono il suo scritto: li prende per mano e li conduce in ogni angolo della magione degli Ichiyanagi, edificio emblema di un sistema feudatario che contrasta per sfarzosità con il resto del villaggio, situato ai piedi della montagna.

Esempio di koto giapponese.

Alla scoperta della mente umana

Piuttosto che tenervi solo sulle spine — dopotutto è anche un noir e non solo un giallo — il detective Kindaichi, protagonista del libro e pupillo di Yokomizo, preferisce concentrarsi non tanto sul come, che comprende e ci svela in un batter d’occhio come previsto dalle voci sul suo conto, quanto sul perché. È qui che riusciamo a intravedere lo scopo dell’autore di ricercare una profondità emotiva e caratteriale nei personaggi di cui racconta, portandone a galla soprattutto le fragilità. Che sia un’influenza di Edogawa Ranpo? Non è da escludere, visto che è stato proprio lui a spingerlo a presentare i suoi manoscritti alla casa editrice “Hakubunkan”.

Ispirazione da tutti, copia di nessuno

Sappiamo però che Yokomizo lavora, per così dire, in un’area differente rispetto a Edogawa. Gli enigmi della camera chiusa sono ciò che lo affascina, tanto che il suo soprannome più comune è «John Dickson Carr giapponese». Tuttavia, ridurlo ad una semplice copia traslata dell’autore britannico è una violenza non indifferente. Yokomizo è un uomo di cultura e, come spesso fa anche Edogawa, cita le sue fonti: i libri che lui stesso ha letto e da cui ha tratto ispirazione sono disseminati come easter eggs all’interno del suo. Sono camuffati in letture svolte dai personaggi, o in semplici volumi che si trovano sulle librerie della storia a prendere polvere.

Yokomizo Seishi, (1902-1981)

Solo un pizzico di magia

Una delle caratteristiche di Carr era il suo essere affascinato dal fantastico, dal soprannaturale e dal magico, che univa sapientemente alle sue storie facendole sembrare mancanti di un’apparente spiegazione razionale. Di questo, Yokomizo mantiene alcune leggende e l’alone di mistero che le circonda, senza mai però eccedere superando il confine dell’oltre natura. Per lui la risposta c’è e non è frutto dell’immaginazione, anche se questa gioca — in un punto preciso della storia — un ruolo rilevante nella risoluzione del caso.

Un consiglio?

Per gli appassionati del genere questo è dunque una perla, il fiore all’occhiello del ventaglio di racconti noir giapponesi dei primi anni Trenta, ora più conosciuti grazie ai racconti di Edogawa, ma pronti ad essere pienamente apprezzati grazie all’aggiunta del romanzo di Yokomizo Seishi, Il detective Kindaichi (模造殺人事件 — Honjin satsujin jiken). Decisamente un must, ora che possiamo usufruirne. L’importante è che non abbiate particolari problemi respiratori, perché — anche se è scontato — vi terrà con il fiato sospeso. Perfino dopo quella che sembra essere la risoluzione del mistero.

— di Francesca Panza


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IL 210° GIORNO: le critiche di NATSUME SŌSEKI

Autore: Natsume Sōseki 

Titolo originale: Nihyakutōka

Editore: Lindau

Collana: Senza frontiere

Traduzione: Andrea Maurizi

Edizione: 2019

Pagine: 104

Il 210° giorno, tratto da un episodio della vita di Natsume Sōseki, viene pubblicato per la prima volta nel 1906 sulla rivista «Chūōkōron», ma è edito in Italia solamente quest’anno. Si tratta di un racconto breve, anche per questo a lungo sottovalutato dalla critica, e racconta di due giovani, Kei e Roku, che soggiornano nella città di Aso (nel Kyūshū) con l’intenzione di scalare l’omonimo vulcano per  affermare la propria virilità.

Il titolo fa riferimento ad un giorno del calendario lunisolare (abolito dal governo Meiji nel 1873), il nihyakutōka  (lett. “il 210° giorno”). In questo particolare calendario erano segnati anche due periodi, sul finire dell’estate, in cui potevano avvenire violente perturbazioni atmosferiche :

  • il nihyakutōka, che coincideva con la fine di agosto e l’inizio di settembre cioè, duecentodieci giorni dall’inizio della primavera;
  • il nowaki (lett. “erba divisa [dal vento]”),che indicava i tifoni che si verificavano tra duecentoventesimo e duecentotrentesimo giorno dall’inizio della primavera.

Il vento e la pioggia del 210° giorno, insieme alle nubi di cenere vulcanica, agitavano a tal punto la vegetazione che era impossibile distinguere qualunque cosa nel raggio di un centinaio di chilometri. (Il 210° giorno)

Il titolo in sé è una forte critica al governo Meiji, macchiatosi della colpa di avere abolito una tradizione che, in questo caso, avrebbe aiutato i protagonisti a portare termine la loro impresa.

La forza del mutamento 

Elementi tipici della poetica di Natsume Sōseki, presente nel racconto, sono i dualismi passato e presente, tradizione e modernità, visibili proprio dalla scelta del vulcano Aso. Infatti essa ricade su uno dei vulcani più alti del Giappone, ai cui piedi sorge lo “Aso jinja”, tempio strettamente legato alla tradizione giapponese. Lo stesso è, non a caso, dedicato Takeiwatatsu-no-Mikoto, nipote del primo imperatore del Giappone, Jinmu.

Con la sua eruzione esplosiva, pone simbolicamente termine a un’epoca- quella del Giappone premoderno – e segna l’inizio di un nuovo importante capitolo della storia del paese. (Andrea Maurizi, Postfazione de Il 210° giorno)

L’eruzione del vulcano pone fine alla tradizione, chiudendo definitivamente con il periodo Tokugawa.”L’evocazione della forza distruttrice della natura in concomitanza di un momento di crisi e di un radicale mutamento delle condizioni storico-politiche”, non fa che sottolineare la traumaticità e la dannosità di eventi forti e inattesi.

Un’amicizia improbabile

Kei e Roku sono l’uno l’opposto dell’altro. Kei è un ragazzo corpulento, figlio di un “produttore e venditore di tōfu” e che ignora la cultura giapponese. Roku, al contrario, è di corporatura minuta, proviene da una famiglia facoltosa ed è molto acculturato. A differenza di Kei, Roku si dimostra poco interessato alla letteratura e cultura “occidentale”; afferma infatti di conoscere La sfida di Iga, ma di non aver mai letto niente di Dickens.

Un’amicizia improbabile quella tra Roku e Kei volta a evidenziare un altro problema dell’uomo moderno: l’individualismo. L’amicizia tra i due è possibile fino a quando  la libertà dell’altro viene rispettata, afferma Sōseki. In epoca Meiji, troviamo tra i  fondamenti  l’esaltazione dell’individuo, per cui ognuno è libero di perseguire la propria felicità, anche se in contrasto con la società; questo porta all’affermarsi del romanzo dell’io, lo shishōsetsu.

Lo smarrimento dell’uomo moderno

Seppure breve, Il 210° giorno racchiude in sé tutta la poetica di Sōseki. Emerge fin dalle prime pagine quello che l’autore identifica come un forte smarrimento dell’uomo moderno, che lascia, in particolare a Roku, un senso di angoscia e inquietudine. Sono infatti molti gli episodi in cui Roku manifesta questi sentimenti.

La forte ondata di “occidentalismo” procura all’ individuo un sentimento di inquietudine e  smarrimento. L’Occidente viene preso come modello sia a livello di istituzioni che di usi e costumi; al contempo il Giappone cerca di cancellare, almeno alla vista, elementi che possano richiamare ad una tradizione considerata dagli europei inferiore. Vi è la necessità che il paese appaia forte, occidentale, moderno e colonizzatore, al fine di non essere dominato come gli altri paesi asiatici in quel periodo. Cambiamenti  rapidi e veloci non possono fare altro che disorientare l’intera nazione, come lo stesso scrittore afferma:

Il pensiero dell’era Meiji ripercorreva nel giro di quarant’anni tutta la strada che la storia dell’Occidente aveva fatto in tre secoli. (Sanshirō, 1908).

Conclusione

Lascio la conclusione al  traduttore di questo racconto breve, Andrea Maurizi:

I riferimenti letterari e […]  alla letteratura di intrattenimento del XIX secolo conferiscono all’opera la solidità che solo la tradizione è in grado di assicurare, impreziosendo e nobilitando un racconto che ben si presta a rappresentare lo spessore intellettuale e l’originalità di uno degli scrittori giapponesi più conosciuti e amati in Occidente.

—di Beatrice Falletta

 

IO SONO UN GATTO (1905) – UN DIPINTO SATIRICO DEL GIAPPONE DI INIZIO ‘900

“Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l’ho. Dove sono nato? Non ne ho la più vaga idea. Ricordo soltanto che miagolavo disperatamente in un posto umido e oscuro. È lì che per la prima volta ho visto un essere umano.”

Questo l’incipit del romanzo Io sono un gatto (Wagahai wa neko de aru) di Natsume Sōseki (1867 – 1916), pubblicato per la prima volta nel 1905 ed edito in Italia prima da Neri Pozza nel 2006, e in seguito da BEAT in questa nuova edizione del 2017.

La trama segue le vicissitudini del professor Kushami e della sua famiglia nel Giappone di inizio XX secolo. Il punto di vista da cui vengono narrati gli eventi si rivela essere fin dall’inizio molto particolare: tutto è infatti filtrato dagli occhi del gatto di casa Kushami. Uno sguardo atipico, ma che si rivela filosofico, critico e attento, e si traduce in una voce altrettanto (auto)riflessiva.

Separato dai suoi fratelli e dalla madre, il gatto protagonista giunge dopo varie peripezie nella casa del professore. Purtroppo l’accoglienza riservatagli è praticamente assente, tanto che l’animale rimane senza un nome. Da quel momento ogni giorno osserverà con occhi attenti il professore, la moglie e le figlie di quest’ultimo, oltre alle tante persone che la famiglia frequenta. Alternando profonde riflessioni su tematiche complesse e descrizioni della attività del suo eccentrico padrone, ci offre un quadro della vita quotidiana e uno spaccato del Giappone dell’inizio del secolo.

Una voce ironica da un punto di vista del tutto innovativo

Ambientato più precisamente nel 1905, ci troviamo quasi alla fine dell’epoca Meiji (1868 – 1912). Durante questi anni il Giappone aveva attraversato una complessa fase di modernizzazione, basata sul modello europeo, e aveva visto mutare tutti gli aspetti della vita della nazione. Proprio questo processo è ciò che più aspramente il gatto protagonista critica, facendosi portavoce dell’autore stesso.

Natsume Sōseki, tra i più importanti scrittori del Giappone moderno, è stato spesso definito un “antimodernista”: non per una totale opposizione alla modernizzazione a partire dal 1868 in poi, bensì per l’idea che quel processo così rapido altro non fosse che una mera imitazione di quello avvenuto in Europa attraverso lunghi secoli. In quanto tale esso non poteva che risultare approssimativo. Nel suo romanzo, l’autore dipinge un quadro satirico del proprio Paese, e fa emergere questo suo giudizio in maniera molto innovativa proprio in virtù del punto di vista che sceglie per raccontare la storia.

Si tratta di una lettura divertente e allo stesso tempo ricca di riferimenti intertestuali che rimandano soprattutto alla cultura greca antica, alle filosofie buddhiste e al vasto repertorio di personaggi della tradizione nipponica. L’autore è riuscito a fondere in un solo romanzo tutti questi elementi con un’ironia sottile e graffiante. Un’ironia che la magistrale  traduzione di Antonietta Pastore riesce a restituire anche al lettore italiano.

Un romanzo che nonostante i 113 anni dalla sua pubblicazione riesce ancora a coinvolgere appieno il suo pubblico.

Agli amanti dei manga segnaliamo anche una versione molto fedele all’opera originale, pubblicata da Edizioni Lindau e tradotta da Federica Lippi.

—di Giulia Berlingieri


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LE DOMESTICHE (1962)- TANIZAKI JUN’ICHIRŌ

Autore:  Tanizaki Jun’Ichirō

Titolo: Le domestiche

Titolo originale: Daidokoro taiheiki

Editore: Ugo Guanda

Traduzione: Gianluca Coci

Edizione: 2018

Pagine: 263/ 269 (inclusa postfazione di Abe Akira)

Coloro che assurgono al ruolo di protagoniste delle vicende narrate non sono né avvenenti dame di corte né sedicenti nobildonne, bensì delle semplici e ordinarie domestiche, le cui vite assumono la funzione di metro di misura di un’epoca: un ventennio, tra il 1936 e il 1958, costellato da sconvolgimenti epocali come la Seconda guerra sino-giapponese, la Seconda guerra mondiale e il conseguente processo di modernizzazione. Eppure ciò che preme al narratore non sono gli eventi storici ma le vicissitudini di queste figure femminili immerse in una quotidianità in continuo mutamento.

Il baricentro attorno cui ruotano tali esistenze è la famiglia Chikura, Raikichi, scrittore di professione, e la moglie Sanko. Le loro molteplici dimore si alternano tra rinomate località come Kōbe, Atami e Kyōto.

“Tra di loro c’era Hatsu, distesa in mezzo a quei corpi femminili addossati l’uno sull’altro come daifukumochi  in un vassoio, con i suoi magnifici seni «più floridi di quelli di Marilyn Monroe» […] prese la macchina fotografica che aveva con sé per puro caso e, avanzando carponi in quella selva di giovani natiche e cosce, si avvicinò a Hatsu e la fotografò con estrema accuratezza da tutti i lati”.

Soventi sono le descrizioni dai toni voyeuristici e dalla forte carica erotica che giocano ad ammaliare il lettore, cogliendo di ogni domestica un determinato particolare fisico che la contraddistingue e la rende quasi unica. Ma non ci si limita ad un tripudio di corpi, poiché ogni domestica ricopre il ruolo di personaggio a tutto tondo, con le sue peculiarità e con una propria individualità: Hatsu con il suo «pittoresco» dialetto di Kagoshima, Ume e i suoi  frequenti attacchi epilettici, anch’essi descritti con una notevole minuzia che conferiscono dinamicità e suspense al racconto: “Ume, di solito dolce e graziosa come una kokeshi, in preda a violenti spasmi, il viso distorto in un’espressione grottesca e orripilante, la schiena arcuata all’indietro in una posa innaturale, lì a contorcersi sul futon”. E ancora, Gin e la sua travagliata storia d’amore con Mitsuo, talvolta dai toni quasi faceti, come nella iniziale rivalità con la domestica Yuri o nella relazione saffica tra Sayo e Setsu che contribuisce a creare un’ atmosfera voluttuosa agli occhi di un pubblico maschile, seppure non sfuggirà alla stigma sociale quale atto deprecabile e indecoroso.

Donne sul banco di prova che non diventano solo campioni d’osservazione, ma figlie adottive della famiglia Chikura che le include nel proprio nucleo famigliare. Spesso Raikichi e la moglie Sanko riflettono sulle condizioni di vita precarie e sul futuro incerto delle loro domestiche: “provo una profonda amarezza al pensiero che quella ragazza avrebbe potuto avere un florido avvenire, se solo avesse avuto l’opportunità di andare al liceo e di diplomarsi”. Nondimeno sarà anche grazie al loro coinvolgimento e intercedere se molte delle domestiche potranno lasciare il nido Chikura felici e trionfanti.

Difatti il lieto fine di questo romanzo trova l’ormai venerando Raikichi durante la sua festa di compleanno, attorniato dalle fedeli domestiche ormai accasate e maritate e dal candido Takeshi, figlio della domestica Gin, che spesso si reca a fargli visita facendo riecheggiare quelle dolci parole “nonnino, nonnino”.

Sono proprio gli appellativi con cui ci si rivolge alle cameriere e la loro variazione sociolinguistica nel tempo a determinare un’ epoca di estremi cambiamenti in cui il narratore fatica ad orientarsi: “Negli ultimi tempi il mondo è diventato piuttosto complicato. Abbiamo smesso di chiamare «domestiche» o  «cameriere» le donne che prestano servizio in casa e non possiamo rivolgerci a loro indicandole semplicemente per nome. In passato le chiamavamo «Ohana», «Otama» e così via, ma ora non basta e dobbiamo mostrarci il più possibile cortesi, ricorrendo a «Ohana-san», «Otama-san» e altri appellativi simili.”

Come è stato già accennato sono le vite di queste giovani domestiche a scandire il tempo del romanzo, non sempre lineare e che volentieri si addentra in un dedalo intricato di nomi ed epiteti di giovani donne, da cui se ne esce indenni grazie ad un narratore che funge da Cicerone e che ci impedisce di perderci.

—di Riccardo Peron

EDOGAWA RANPO – IL FASCINO ERO GURO NEL MISTERY GIAPPONESE

Presentazione del libro La poltrona umana e altri racconti, curato e tradotto da Francesco Vitucci, Ricercatore presso il Dipartimento di Lingue Letterature e Culture Moderne LILEC – Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.

 

[dalla seconda di copertina]
La poltrona umana
è il titolo di uno dei sei celeberrimi racconti scritti nel 1925 da Edogawa Ranpo, padre del noir giapponese, e presenti in questo volume. L’autore introduce le tematiche classiche della sua scrittura tra cui quella del doppio, l’ossessione per il crimine e le perversioni sessuali, il voyeurismo, nonché l’attrazione verso gli specchi in uno stile squisitamente erotico-grottesco.

 

Presentazione:

Francesco Vitucci

 

Intervengono:

Alessandra Calanchi, Prof.ssa di Letteratura e Cultura Anglo-Americana presso l’Università Carlo Bo di Urbino

Giovanni Ballarin, Traduttore Freelance

 

Venerdì 15 febbraio 2019 alle ore 18:00 presso la libreria ubik Irnerio, in via Irnerio 27, Bologna.

GLI INSETTI PREFERISCONO LE ORTICHE (1929) – ANTINOMIE ETICO-ESTETICHE NELLA MATURITÀ DI TANIZAKI

Kanamé e Misako sono la coppia di coniugi protagonisti del romanzo. Il loro rapporto entra in crisi subito dopo il matrimonio, a seguito della perdita del desiderio erotico da parte di Kanamé. Il riconoscimento da parte di entrambi dell’incolpevolezza dell’altro di fronte ad una incompatibilità di fondo impedisce loro di risolversi con decisione al divorzio. L’indecisione, l’atteggiamento passivo e di attesa porta da un lato Kanamé a tollerare prima, e incoraggiare poi, la relazione adulterina della moglie con l’amante Aso, e dall’altro quest’ultima a rinunciare alla fuga d’amore e all’abbandono del marito. Terzo incolpevole abitatore del limbo è il figlioletto Hiroshi, di dieci anni, che pur intuendo la situazione di instabilità in cui versa la sua famiglia è sprovvisto degli strumenti necessari a comprenderla e ad affrontarla. Piuttosto che remare nella direzione che pur ritengono essere la più vantaggiosa, gli sposi si abbandonano al flusso degli eventi, affidandosi al più, con speranze infruttuose, all’azione di attori esterni: il cugino di Kanamé, Takanatsu e il padre di Misako. L’ultima scena si volge appunto a casa del secondo, il quale ha convocato figlia e genero per discutere delle circostanze coniugali rivelategli da quest’ultimo per missiva. Ancora una volta, irresolutezza e sospensione dell’azione si impongono, adottate esplicitamente come cifra stilistica e tecnica narrativa nel finale aperto, in cui la separazione ormai prossima è lasciata passibile di ulteriori procrastinazioni.

Incomunicabilità, finzione e imposizioni dalla tradizione

«Ma egli stesso aveva in animo di rivelare un bel giorno tutto a Hiroshi, come ad un adulto: aveva intenzione di fare appello alla sua ragionevolezza e di spiegargli che non v’era colpa né del padre né della madre, ma semmai delle antiche convenzioni oggi non più condivise da tutti»; questo il proposito di Kanamé. Proposito che immancabilmente fallisce a mettere in pratica. La causa del continuo rimandare è a lui ben chiara, individuata nella pressione e nelle aspettative sociali, che non permettono di professare in pubblico un’organizzazione del nucleo familiare che si basi su equilibri estranei alle convenzioni. «A Kanamé era ovviamente mancato il coraggio d’imporre alla società la sua situazione coniugale come esempio di una nuova morale, e di far notare che nella sua condotta v’erano pur dei vantaggi». Se la posizione sociale di Kanamé, la carica di direttore d’azienda lasciatagli nominalmente dal padre, consentirebbe lui una vita agiata, per quanto solitaria, così non sarebbe per Misako, maggiormente vulnerabile alle ripercussioni da parte del gruppo sociale e del padre, in primis in quanto donna, in secundis in quanto effettiva perpetrante di adulterio. Di qui il desiderio di una separazione graduale e senza traumi, che comporta, però, fingersi famiglia felice in pubblico e ridurre al minimo le occasioni sociali. Conseguenza di tali premure nel mantenere una presentabilità di facciata è l’incomunicabilità dei sentimenti all’interno della famiglia stessa: «Per Kanamé era terribile dover immaginare che quando loro tre uscivano insieme, al di là dell’apparente serenità, ciascuno fosse in realtà estraneo all’altro, chiuso nei propri veri pensieri».

Modelli di femminilità

«Per Kanamé, una donna doveva essere o una divinità o un giocattolo, e la vera causa del fallimento del suo matrimonio era stata proprio questa: non aveva trovato in Misako né l’una né l’altra». Donna divina, oggetto di idolatria, creatura trascendente di derivazione stilnovistica quanto hollywoodiana, contro donna giocattolo, “vissuta”, capace di sopravvivere con le proprie forze all’abbandono da parte del partner e di rimpiazzarlo con un altro. Donna di tipo materno, contro donna di tipo cortigiano. Questi gli estremi tassonomici che Kanamé delinea conversando di universo femminile col cugino Takanatsu. Il fatto che Misako non rientri appieno in nessuna delle due categorie è causa per Kanamé di mancanza di attrazione e allo stesso tempo d’incapacità ad abbandonarla. «”Ma lo è… fondamentalmente… è un’anima materna con una patina di cortigianeria”». Tale liminalità è avvertita da Misako stessa, in bilico tra “donna perduta”, come si definisce lei, e il modello tradizionale della ryōsai kenbo, in cui la colloca lo stesso Takanatsu «”…in realtà siete una buona moglie ed una madre saggia”».

L’anti-convenzionalità di Misako ha come contraltare la figura di O-hisa, la giovane compagna del padre. Personificazione archetipica della donna tradizionale giapponese, tanto fedele ai modelli del passato da essere paragonata più volte nell’opera alle bambole del teatro Jōruri e Bunraku, viene addestrata nelle arti tradizionali dell’ikebana e del naga-uta, e le viene imposto un abbigliamento all’antica che essa stessa definisce in un’occasione “stracci puzzolenti di muffa”.

Fascino del moderno e richiamo della tradizione

A seguito del grande terremoto del Kantō del 1923, il tokyota Tanizaki Junichirō  si trasferisce nella regione del Kansai. La critica assume questa data come discrimine nella poetica dell’autore tra una prima fase di totale fascinazione per la modernità, identificata con gli apporti dell’occidentalizzazione, e una seconda di recupero della cultura tradizionale autoctona. Ne Gli insetti preferiscono l’ortica la tensione tra le due dimensioni emerge in maniera evidente. Si considerino, da un lato, lo sguardo ironico di Kanamé sulla reazione anacronistica del suocero alle rivelazioni finali, manifestazione di una rigidità formale nel rispetto del ruolo di suocero, nel quale si atteggia a mo’ di uomo anziano nonostante sia appena sulla cinquantina; il disprezzo di Misako per i denti non curati di O-hisa, lasciati anneriti ad imitare l’antica usanza di tingerli delle dame di epoca Heian; l’irritazione che provoca in lei il pensiero di riunirsi alla famiglia nella celebrazione dello O-hina matsuri; la malcelata irritazione con cui i giovani accompagnano il vecchio e O-hisa in passatempi tradizionali quali il Bunraku di Ōsaka  e il pellegrinaggio ai ”33 luoghi di Iwaji”. Dall’altro lato, si considerino le critiche mosse dal vecchio alla figlia in merito ai gusti musicali, con riferimento alla moda del jazz, o all’usanza, affatto nuova per le donne giapponesi, di ritoccarsi il trucco in pubblico, alla maniera delle occidentali. La polarizzazione non è però assoluta: lo stesso Kanamé, che confessa la fascinazione per la cultura, la letteratura e il cinema occidentale, soprattutto per l’immaginario legato alla figura femminile, confessa parimenti un interesse inaspettato per i canoni estetici e ritmici delle rappresentazioni teatrali tradizionali. A dimostrazione di come lo stesso autore, nel rivalutare la cultura autoctona, non rinneghi in toto l’interesse per l’occidente, quanto piuttosto inviti alla ricerca di un equilibrio e di un giusto riconoscimento delle differenze tra estetica occidentale e giapponese. Interessante a tal proposito rilevare in nuce alcune delle considerazioni, come quelle sull’architettura delle abitazioni, sull’uso della luce naturale e artificiale e sulla predilezione per certi materiali, che Tanizaki svilupperà appieno nel famoso saggio Elogio dell’ombra del 1933.

—di Corrado Cucchi


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