Un affare di famiglia || Recensione

Regia: Kore’eda Hirokazu

Anno: 2018

Durata: 121 min

Genere: drammatico

Attori principali: Kiki Kirin, Lily Franky, Andō Sakura

Un affare di famiglia” di Kore’eda Hirokazu (titolo originale: 万引き家族 Manbiki kazoku) vince la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2018 e racconta di una famiglia particolare che vive nella periferia di Tokyo ai margini della società. Una sera tornando a casa il padre Osamu e il figlio Shota trovano una bambina e decidono di portarla a casa dove li aspetta il resto della “famiglia”. Osamu e Nobuyo sono una coppia di fatto e abitano nella casa di una donna anziana, Hatsue, che chiamano “nonna” insieme a un’altra ragazza, Aki, e a Shota. La famiglia vive compiendo piccoli furti e imbrogli, ma anche lavorando: Osamu è un lavoratore a giornata, Nobuyo lavora per una lavanderia industriale e Aki in un sex club, Hatsue sostiene invece il gruppo tramite la pensione del defunto marito. La loro vita fila piuttosto liscia fino a quando la bambina portata a casa, Yuri, non compare sul telegiornale in un annuncio di scomparsa.

Il film lo possiamo considerare diviso in due atti e dal momento dell’annuncio di scomparsa la storia comincia a farsi più pesante rispetto alla quasi commedia iniziale. Il regista ci porta nello spaccato della società giapponese evidenziando la differenza tra le classi sociali e sembra inoltre volerci dire che la famiglia è quella che ti cresce e ti dà qualcosa e non è solamente dettata dai legami di sangue.

Recensione di Chiara Girometti

House in the tall grass || Recensione

Artista: Kikagaku Moyo

Anno: 2016

Formazione: Kurosawa Go – voce, batteria, percussioni

Katsurada Tomo – voce, chitarra

Kotsu Guy – basso

Daoud Popal – chitarra

Kurosawa Ryu – sitar, tastiere

Sicuramente i Kikagaku Moyo sono uno dei gruppi più internazionali che il Giappone abbia tirato furori negli ultimi quindici anni. Fondati nell’estate 2012, il quintetto ha iniziato come busker per le strade di Tokyo. Ha riscontrato già dai primi lavori un riscontro positivo sia da parte del pubblico che dalla critica, suscitando oltretutto la curiosità degli appassionati oltreoceano. Nel corso di pochi anni sono stati in grado di evolversi e di maturare le loro idee musicali.

A differenza dei primi lavori – l’omonimo “Kikagaku Moyo” (2013) e “Forest of Lost Children” (2014) – dal sound avvolgente, sperimentale ma ancora acerbo, il consolidamento è avvenuto nel 2016 con l’uscita, per la label indipendente Guruguru Brain, di House in the tall Grass.

Basterebbe solo il titolo e la copertina per capire in che mondo veniamo immersi: la “casa” che rappresenta noi ascoltatori e “l’erba alta”, ovvero la musica che ci accompagnerà in una piacevole ed elegante perdizione.

Rispetto ai dischi precedenti il sound pare più strutturato e meno confusionario con canzoni, sebbene molto diverse, perfettamente coerenti tra di loro dando un senso di linearità all’interno del discorso musicale.

Quello che fanno i Kikagku Moyo in sostanza è ripensare in chiave moderna il mondo prog/psichedelico anglosassone degli anni ’60/70, per poi contaminarlo con il dream pop e l’indie del nuovo millennio, dando così vita non a un banale omaggio ai classici ma a un’opera con una propria identità.

La band si diverte a ripensare la forma canzone, con l’obiettivo non tanto di creare singoli di grande impatto o necessariamente accattivanti ma di proporre un’atmosfera rarefatta e lo fa prendendosi il loro tempo, diluendo il più possibile le composizioni, attraverso arpeggi di chitarra e sitar trasognanti e una ritmica tribale; una formula che ricorda i grandi gruppi americani come i Velvet Underground, i Doors e i Mazzy Star.  In tutto ciò la voce androgina di Katsurada Tomo è un bisbiglio che sbiadisce nella melodia, uno spettro gentile che si aggira nella “Tall Grass”.

Tra le canzoni che spiccano ricordiamo: Kogarashi (una parola giapponese che sta ad indicare il freddo e pungente vento autunnale) con la voce di Katsurada che si ripete all’infinito come un mantra; la lunga Silver Owl che dondola lentamente fino a esplodere con riff zeppeliniani – gli stessi guizzi di hard rock che ritroviamo nella più compatta Dune. Infine, Melted Crystal è un brano che porta quasi all’ipnosi perché è costituito da un unico tema di chitarra che si ripete per oltre cinque minuti, dove l’unico elemento di variazione sono i lenti cambi di dinamica delle percussioni.

I Kikagaku Moyo realizzeranno successivamente altri tre album di ottima fattura, ma questo “House in the tall grass” rimane un’opera cardine della loro carriera che li ha consacrati come una delle realtà più rilevanti di tutto il panorama neo-psichedelico.

Recensione di Martino Ronchi

Il sole si spegne – Dazai Osamu || Recensione

Autore: Dazai Osamu

Traduzione: Antonietta Pastore

Edizione: 2023

Il sole si spegne” (titolo originale: 斜陽, Shayō), viene pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1947. Il romanzo, il primo dello scrittore, rispecchia la realtà in cui si trovavano la classe aristocratica e quella intellettuale nel secondo dopoguerra, annientate spiritualmente dal conflitto. L’aristocrazia ha perso ogni possedimento e potere e la classe intellettuale è diventata sempre più criticata: artisti e scrittori non trattano più i temi tradizionali, ma portano il seme del nichilismo e attirano su di sé le maldicenze per via della vita dissoluta che sono “costretti” a vivere. Molti fanno uso di droghe o diventano alcolizzati e dormono con altre donne nonostante abbiano moglie e figli, spesso non tornando a casa per giorni.

Questa è la vita narrata dalla protagonista Kazuko, una ragazza di ventinove anni appartenente a una famiglia aristocratica caduta in disgrazia, costretta a trasferirsi in una villa di campagna. È sorella maggiore di Naoji, in primis un intellettuale, ma anche un soldato che ha combattuto nel sud del Pacifico e che fin dal liceo ha fatto uso di oppiacei.

La madre dei due fratelli viene considerata dalla protagonista l’unica vera aristocratica rimasta in vita, in quanto segue ancora le regole della sua classe sociale. Kazuko, al contario, durante la guerra ha dovuto fare lavori pesanti e lavorare nei campi come altri civili, su richiesta del governo, scoprendo di trovarsi a proprio agio, letteralmente, nei panni del contadino.

La protagonista, inoltre, ha anche un divorzio alle spalle. Nonostante voglia compiere il desiderio di avere un figlio, è costretta a spostare interamente le sue attenzioni sulla madre malata di tubercolosi, senza ricevere aiuto dal fratello tornato dalla guerra, assorbito dalla vita scriteriata che porta avanti a Tokyo insieme al suo mentore e scrittore Uehara Jirō.

Kazuko si innamora del romanziere dopo il primo incontro che hanno e, nei sei mesi che separano il loro secondo e ultimo incontro, gli invia tre lettere in cui esprime la sua volontà di avere un figlio da lui nonostante sappia che lui è sposato e ha una figlia. Lo scrittore non risponderà mai a quelle lettere.

Dopo un mese dalla morte della madre e dal suicidio del fratello per la sua autoriconosciuta mancanza di “capacità di vivere”, attraverso un’ultima lettera senza risposta di Kazuko a Jirō, si scopre che la protagonista è rimasta incinta dello scrittore, avverando il suo sogno.

Attraverso questo romanzo, Dazai mostra un realtà che lui stesso conosce in quanto figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri: la realtà della vita sfrenata all’insegna di alcol, droghe e donne, che portano all’annichilimento del corpo e della mente.

Lo stesso Dazai, stremato dalla vita che lui stesso conduce che gli comporta anche l’aggravarsi delle condizioni di salute, viene trovato morto insieme all’amante nel bacino di Tamagawa a Tokyo il giorno del suo trentanovesimo compleanno.

Tokyo Fist || Recensione

Regia: Shin’ya Tsukamoto

Anno: 1995

Durata: 87 min.

Genere: azione, drammatico

Attori principali: Kahori Fujii, Shin’ya Tsukamoto, Kôji Tsukamoto

Il protagonista della storia è Tsuda, un agente assicurativo sottomesso al proprio capo e insoddisfatto del proprio lavoro. Convive da tempo con la sua ragazza Hizuru: i due conducono una vita monotona e sessualmente insoddisfacente, in linea con la piccola borghesia nipponica. Tsuda rincontra casualmente Kojima, pugile professionista e suo vecchio compagno di liceo, il quale è attratto dalla sua compagna e cerca fin da subito di sedurla. Tsuda lo viene a sapere e irrompe nell’umile appartamento del boxer intento a punirlo ma riceverà un potente pugno in volto che lo tramortisce. Sentendosi virilmente inferiore, si iscrive alla stessa palestra del suo rivale sognando un giorno di poterlo battere e riconquistare l’amore di Hizuru. Quest’ultima decide di separarsi dal compagno e inizia a vivere a casa di Kojima; nel frattempo scopre lentamente di provar piacere nella mortificazione del proprio corpo e comincia a sperimentare diverse pratiche di autolesionismo. 

Tsukamoto, regista di culto giapponese, è riuscito a mescolare il genere sportivo, il dramma sentimentale, il grottesco e la critica sociale realizzando un’opera originalissima. Attraverso uno stile di regia frenetico e angusto e una fotografia caratterizzata da colori allucinanti, racconta le nevrosi degli abitanti di Tokyo, raffigurata come soffocante e insopportabile. La violenza è rappresentata in tutte le sue forme, dalla vendetta al riscatto sociale passando per il piacere sessuale, e sembra essere la soluzione naturale all’alienazione della metropoli, l’unico modo cioè per sentirsi vivi.

Recensione di Martino Ronchi

Otoboke Beaver – Super Champon || Recensione

Fenomeno in rapida crescita nel circuito alternativo internazionale, le Otoboke Beaver sono una delle band punk-rock giapponesi più influenti degli ultimi anni.
Formatasi nel 2009, la band ha origine a Kyoto ma attraversa un lungo periodo di scarsa produttività e cambi di formazione, arrivando a presentare solo nel 2019 l’assetto definitivo composto da Accorinrin, Yoyoyoshi, Hiro-Chan e Kahokiss, rispettivamente voce, chitarra, basso e batteria del gruppo.

La band appartiene al genere “riot grrrl”, fenomeno musicale e sociale nato negli USA negli anni 90′ dai colori sostanzialmente liberali e femministi che vedeva la musica, in particolare musica punk, come medium per affermare con fervore temi quali l’autodeterminazione e l’emancipazione femminile e porsi contro i disequilibri di genere.
Le Otoboke Beaver si pongono, quantomeno in Giappone, come picco creativo e stilistico di questo filone e col rilascio del loro primo vero LP “Itekoma Hits” (2019), si presentano fin da subito ad alti livelli mostrando un’incredibile capacità di coniugare meticolosità tecnica con uno stile frenetico e incontrollato.

Super Champon

Nel 2022 rilasciano “Super Champon“, un album incredibilmente veloce (18 tracce per soli 21 minuti di ascolto complessivo) ma non per questo di poco impatto.
L’album, infatti, si muove tra rapidi e repentini cambi sia ritmici che melodici, conservando però una forte coesione strutturale.
La vibe riot-grrrl si mescola a melodie molto colorate ed elementi noise-rock, aumentando ancora di più l’intensità dell’album precedente; le tracce scorrono in maniera frenetica non lasciando tempo per respirare tra un cambio e l’altro, chitarra e la batteria producono un sound fortemente abrasivo e presentano cambi imprevedibili, così come le linee vocali, capaci di passare dal bambinesco al brutale nel giro di pochi secondi.
Prova della grande capacità musicale sono brani come “PARDON?” o “Don’t call me mojo”, in cui la band riesce a gestire un numero esorbitante di salite e discese di tempo, pause e layer vocali ripetitivi e schizofrenici senza mai però risultare ridondante.

L’unica piccola perdita rispetto ai lavori passati è forse una leggera perdita nella scorrevolezza, complice la presenza di tracce davvero brevi ammassate verso la fine dell’album.
Nonostante non sia presente una grande varietà di strumenti (la band conserva il classico assetto di batteria, chitarra e basso elettrici tipico del punk), l’album è sostanzialmente un’esperienza divertente, grazie al noise incessante ma mai statico e alla energica rabbia e aggressività con cui performa ogni singolo membro della band.
Sul piano contenutistico l’album ripresenta temi già comuni alla band e facilmente comprensibili già dai titoli stessi: in generale il rifiuto di piegarsi a qualsiasi tipo di istituzione e più nello specifico il rapporto di amore e odio verso l’amore stesso, come in “Leave me alone! no, stay with me!” e il rifiuto nell’abbracciare ruoli di genere tradizionali, in tracce come “I am not maternal” o “I won’t dish out salads”.
La band affronta tutti i temi con ironia e un humor a tratti demenziale, ponendosi contro essi in chiave provocatoria.

Il teatro fantasma – Sellerio Editore || Recensione

Avvolta da un’impenetrabile aura di mistero, “Il teatro fantasma”, opera pubblicata di recente da Sellerio Editore, raccoglie tre racconti del maestro del genere investigativo giapponese Yokomizo Seishi tradotti per la prima volta in italiano. Il talentuoso detective Kindaichi Kōsuke riesce a risolvere grazie alla sua arguzia casi complessissimi, tra macabri omicidi e inspiegabili sparizioni, raccogliendo con il suo occhio attento indizi apparentemente insignificanti e districando complessi intrecci di luoghi, sentimenti e personaggi.

Nel primo racconto, “Una testa in gioco”, il ritrovamento della testa recisa di una spogliarellista e la scomparsa apparentemente inspiegabile del resto del corpo aprono una lunga indagine che coinvolge il mondo distante dei night clubs della Tokyo degli anni ’50, fatto di sregolatezze, passioni e ombre inquietanti, capaci di proiettarsi molto lontano; un mondo di amanti e di protettori, di apparenze che ingannano e di luci che distorcono, celando loschi segreti che si riveleranno essere molto al di là dell’immaginabile.

Nel secondo racconto, “Il teatro fantasma”, il lettore si trova invece proiettato nell’universo del teatro kabuki. Il sesto senso del detective lo spinge a ricominciare a indagare su un vecchio caso: la scomparsa irrisolta del vecchio amico Raizō, acclamato attore kabuki, avvenuta durante uno spettacolo quindici anni prima. L’intuito dell’investigatore lo spinge a sospettare che qualcosa di grave avverrà durante una incombente rappresentazione commemorativa dello stesso spettacolo in cui il figlio dell’amico scomparso, divenuto nel frattempo un talentuoso giovane attore e adottato a sua volta il nome di scena di Raizō, reciterà nello stesso ruolo del padre proprio il giorno dell’anniversario della sua scomparsa. La narrazione si svolge su due fili paralleli e complementari: uno cerca di ricostruire e comprendere il passato, attraverso continui flashback e il dialogo con vecchie conoscenze, l’altro si svolge nel presente e tenta tanto di sventare quanto di risolvere i crimini, in un’atmosfera di suspense costante e di frenetica tensione. Lo spazio marginale di un teatro in rovina, su cui una serie di eventi sinistri e inspiegabili proiettano un’atmosfera quasi spettrale, ben lontana dai fasti di un passato non troppo remoto, costituisce la suggestiva cornice in cui si svolge la narrazione che con il suo incalzare sempre più vertiginoso ci trasporta in una realtà a prima vista indecifrabile, un labirinto di bugie, finzioni, travestimenti e messinscene su cui si proiettano i mostri ancora irrisolti del passato. Dietro (o meglio, sotto) il mondo artificiale  del palcoscenico si celano nell’ombra entità ignote, pronte a colpire nella maniera più subdola, covando rivalità e rancori passati, progettando in segreto losche trame; ma allo stesso modo vi si trovano gli affetti umani più puri e commoventi, come la devozione di chi non ha mai rinunciato a trovare un vecchio amico nonostante il trascorrere inclemente degli anni o la speranza di una sorella che crede ancora di poter riabbracciare il fratello perduto. E il mistero viene complicato ancora di più dal fatale flusso degli eventi, dallo svolgersi imparziale della Storia che sconvolge il mondo e travolge le vite dei personaggi. Il Secondo Conflitto Mondiale interferisce in maniera ambivalente con l’avanzare della narrazione: impedisce infatti per anni l’avanzamento delle indagini, ma fornisce anche, casualmente, indizi fondamentali e permette di scoprire verità insospettabili, mentre la sua lunga ombra si proietta minacciosa ad anni di distanza sul fluire degli eventi. A impreziosire ulteriormente questo racconto è il riferimento costante al teatro kabuki, che tradisce la profonda conoscenza dell’autore in materia e contribuisce ad alimentare un’atmosfera di irrealtà e di finzione, intensificando la dimensione drammatica e, appunto, teatrale dell’intero racconto.

I fatti narrati ne Il Corvo si svolgono invece lontano dalle luci della capitale, portando in scena la realtà di un Giappone rurale. Ambientato nello spazio chiuso della provincia, nei pressi di un santuario shintoista in declino, quest’ultimo racconto indaga una misteriosa sparizione avvenuta in seno a una famiglia benestante della zona, inestricabilmente legata al santuario e alla sua divinità. Qui traspare una maggiore attenzione per lo spazio familiare percepito non come luogo idealizzato di armonia ma come una realtà sfaccettata, caratterizzata da rapporti interpersonali spesso indecifrabili e interessi contrastanti; il mistero si svolge in uno spazio sacro e si arricchisce di una dimensione più spirituale, fondendosi con la profonda fede nella divinità del santuario e con l’alterità quasi arcana degli sconfinati e reconditi spazi montani. Una fuga inspiegabile dal perimetro chiuso del tempio sacro, una lettera criptica rinvenuta subito dopo sull’altare e soprattutto la blasfema uccisione di un corvo, messaggero sacro della divinità del tempio, nello spazio nascosto di un eremo di montagna consacrato al Buddha contribuiscono a circondare la narrazione di un’aura di sacralità, facendo penetrare in ogni suo aspetto una vena di profondo esoterismo. Mantenendo però immutata la lucida razionalità che lo contraddistingue, il detective Kindaichi Kōsuke riesce a venire a capo del difficile caso, scoprendo –anche grazie a un insospettato aiuto esterno- una verità terribile e inaspettata, oltre che ben lontana da qualunque spiegazione sovrannaturale. Sullo sfondo, a muovere gli eventi, le passioni e le credenze di un Giappone ancora lontano dalla frenesia della vita cittadina.

Tre racconti diversi quindi per ambientazione e per personaggi, tenuti insieme dai temi comuni dell’investigazione, del crimine e del mistero. Oltre a saper intrattenere con maestria il lettore mediante un’articolazione sapiente della narrazione, che permette di mantenere sempre alta la suspense e di catturarne l’attenzione, e attraverso un uso magistrale e coerente dei colpi di scena, l’opera riesce a fornire una descrizione efficace e suggestiva della società giapponese dell’epoca, gettando luce in particolare sui suoi paurosi coni d’ombra, sui suoi spesso dimenticati spazi marginali e sui traumi che hanno contribuito a plasmarla, come la ferita ancora sanguinante della difficile esperienza bellica. Radicata saldamente nel contesto nipponico, la sua analisi lucida delle passioni e delle bassezze umane la rende però pienamente capace di rivolgersi a un pubblico universale.