Love Life || Recensione

Regia: Kōji Fukada

Anno: 2022

Durata: 123 min

Genere: Drammatico

Attori principali: Fumino Kimura, Kento Nagayama, Atom Sunada

La storia ruota attorno alle vicende di una famiglia che conduce un’esistenza sostanzialmente tranquilla. Abbiamo Taeko, un’assistente sociale sposata con Jiro e madre di Keita, un bambino di sei anni con una spiccata intelligenza e campione di Othello (un popolare gioco da tavolo). In occasione del compleanno del signor Osawa, il padre di Jiro, vanno a fare visita i suoceri nel loro appartamento. Il padre è visibilmente scocciato di essere lì e rivela senza mezzi termini che non ha mai accettato Taeko in famiglia per essere una donna più grande del suo consorte e soprattutto per avere un figlio nato da una relazione precedente. Purtroppo non è la cosa più grave che succede quel giorno: Keita, mentre sta giocando in bilico sul bordo della vasca, scivola battendo la testa e annegandoci dentro. Durante il funerale ricompare dopo quasi quattro anni l’ex marito di Taeko, Park, un sordomuto coreano senza permesso di soggiorno che negli ultimi anni è stato costretto a vivere per strada.

La morte del bambino, oltre ad essere un pugno nello stomaco rivolto allo spettatore, lascia un vuoto incolmabile nelle vite dei personaggi. Si creerà uno spazio di riflessione per ciascun membro della famiglia, dando loro l’occasione di ripensare sé stessi, riavvicinandosi anche con il proprio passato. Se nella prima mezz’ora del film la famiglia viene raffigurata come un tutt’uno, adesso ogni personaggio viene isolato dagli altri, collocato in uno spazio silenzioso all’interno del quale si interroga su alcune questioni esistenziali come l’elaborazione del lutto, la fede in Dio e la paura della solitudine.

Taeko avrà il compito più arduo: quello di recuperare la forza di andare avanti malgrado i sensi di colpa per non aver svuotato l’acqua della vasca prima che succedesse la tragedia, mentre il ricordo di Keita riecheggia come un fantasma tra le pareti. Sarà riallacciando i rapporti con Park che la donna riuscirà a raccogliere i cocci della sua esistenza: emblematica è una delle sequenze finali dove la protagonista balla goffamente sotto la pioggia come finalmente pervasa da un sentimento di immotivata speranza.

“Love life”, in concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, pone l’accento sulle reazioni delle persone di fronte a un evento più grande di loro dando vita a un’opera silenziosamente lacerante quanto delicata.

Recensione di Martino Ronchi

Gesu no Kiwami Otome || Recensione

Gesu no Kiwami Otome (ゲスの極み乙女) è una band giapponese formata nel maggio 2012 da Kawatani Enon, frontman degli indigo la End. Kawatani, con il ruolo di compositore, produttore e arrangiatore delle canzoni e in parte minore come chitarrista e cantante, ha formato la band con persone che rispettava e con cui aveva apprezzato suonare insieme, tra questi abbiamo: il bassista Kyūjitsu Kachō, ex membro degli indigo la End, insieme a Chan Mari come tastierista e Hona Ikoka come batterista, provenienti rispettivamente dalle band Crimson e Microcosm. I membri si conoscevano sin dal 2010, quando si esibivano insieme in diversi eventi presso il Live House Shimokitazawa Era a Tokyo. Il progetto è stato concepito come un’attività divertente, separata dai loro impegni musicali abituali e il nome della band deriva da una borsa di tela realizzata da un amico di Chan Mari che frequentava la scuola d’arte che la tastierista aveva portato con sé in studio di registrazione. 

Inizialmente, molti li consideravano strani a causa del loro insolito nome, tuttavia, le loro tecniche di alta qualità e la loro abilità musicale hanno colpito molte persone e li hanno resi uno dei gruppi più importanti nella scena del “next generation rock”. Uno dei motivi per cui sono diventati così popolari così velocemente è la loro strategia di marketing basata principalmente sui social media, in particolare per la pubblicazione dei video completi su YouTube prima della data di uscita del CD e anche per il fatto che le tracce principali dei loro lavori sono sempre legate a progetti di alto livello. Enon Kawatani afferma che i Gesu no Kiwami Otome si concentrano sulla creazione di “melodie arrugginite” e canzoni che non si limitano al pubblico giapponese, ma che hanno anche un’influenza occidentale. Le diverse radici musicali dei membri si fondono insieme e nasce un’identità musicale unica.

Descrivendosi come “hip-hop/progressive”, la band debutta nel 2013 con l’etichetta indipendente Space Shower Records con il loro primo EP, “Doresu no Nugikata”, registrato in soli due giorni. Hanno successivamente tenuto numerosi concerti dal vivo in tutto il Giappone nel 2013 e a settembre sono diventati i musicisti ufficiali del programma radiofonico The Kings Place su J-Wave. A dicembre dello stesso anno pubblicano il loro secondo EP “Odorenai nara, Gesu ni Natte Shimae yo” e nello stesso periodo firmano con l’etichetta unBORDE all’interno di Warner Music Japan e pubblicano ad aprile il loro primo album per una major: “Min’na nōmaru”. Seguiranno altre pubblicazioni nei mesi e anni successivi:

  • Agosto 2014: pubblicano un doppio lato A, “Ryōkiteki na Kiss o Watashi ni Shite” / “Asobi”, con la prima canzone come sigla di apertura del drama “Around 30-chan: Mushūsei” e la seconda in una campagna pubblicitaria per au.
  • Ottobre 2014: pubblicano l’album “Miryoku ga Sugoi yo”.
  • Nel corso del 2015 pubblicano tre singoli: “Watashi Igai Watashi ja Nai no”, utilizzata per la campagna “Coca Cola Name Bottle”, “Romansu ga Ariamaru”, incluso il secondo doppio lato A “Otonatic” / “Muku na Kisetsu”. “Romansu ga Ariamaru” è stata utilizzata nel film di fantascienza del 2015 “Strayer’s Chronicle”. 
  • Gennaio 2016: pubblicano il loro secondo album “Ryōseibai”, che ha raggiunto la vetta delle classifiche di vendita di Oricon con oltre 100.000 copie vendute.

Nell’ottobre 2016 la band è entrata in pausa a causa delle questioni personali del cantante e compositore Kawatani Enon e riprende poi le normali attività:

  • Maggio 2017: pubblicano il terzo album “Daruma Ringo”
  • Ottobre 2017: pubblicano il singolo digitale “Anata ni wa Makenai”.
  • Gennaio 2018: pubblicano il loro quinto singolo “Tatakatte Shimau yo”, la cui traccia principale è stata utilizzata nelle pubblicità giapponesi del videogioco per cellulare Clash Royale.
  • Maggio 2018: pubblicano un altro singolo digitale, “Mou Setsunai to wa Iwasenai”, in occasione del loro sesto anniversario e annunciano il loro quarto album “Suki nara Towanai”

Ad agosto 2018 fanno la prima pubblicazione sotto la nuova etichetta della band, TACO RECORDS, fondata dal leader della band Kawatani, dopo aver lasciato l’etichetta precedente. L’album include la canzone “Sasso to Hashiru Tonegawa-kun”, che è stata utilizzata come sigla di apertura della serie animata giapponese “Mr. Tonegawa: Middle Management Blues”. Pubblicano svariati singoli negli anni a venire fino al loro quinto album nel 2020, “Sutorīmingu, CD, Rekōdo”.

L’11 maggio 2022 il gruppo pubblica il suo primo greatest hits Besuto arubamu “Maru”. Il 18 giugno si tiene il concerto per il 10º anniversario della band che durante l’esibizione dal vivo toglie il “。” dal proprio nome e successivamente annuncia sulla propria pagina ufficiale di Twitter di aver cambiato il proprio nome da Gesu no Kiwami Otome. (ゲスの極み乙女。) a Gesu no Kiwami Otome (ゲスの極み乙女). L’8 luglio annunciano che la loro nuova canzone “Akumu no omake” sarà il tema del film “Kono-ko wa jaaku”.

Recensione di Chiara Girometti

Tra incubo e visione: Labirinto d’erba di Izumi Kyōka

L’Associazione Takamori è lieta di proporvi il seguente articolo, pubblicato di recente sul blog della casa editrice Luni:

di Mattia Natali

Associazione Takamori

Arcipelago Giappone

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Avvolta da una spessa atmosfera onirica, Labirinto d’erba di Izumi Kyōka è un’opera densa e complessa, in cui mondi apparentemente diversi e distanti – il naturale, l’umano e il sovrannaturale- si intersecano costantemente e si influenzano vicendevolmente in maniere imprevedibili, mutando con la velocità di un battito di ciglia.

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La natura labirintica dell’opera è data dallo stesso procedere della narrazione, articolato su più livelli e soggetto a frequenti cambi di prospettiva. La narrazione si apre con la descrizione dello Ōkuzure, un promontorio a picco sul mare, e dei suoi dintorni.

La dettagliata presentazione di uno spazio naturale talvolta minaccioso ma anche di enorme bellezza estetica, popolato da arcane presenze sovrannaturali capaci all’occorrenza di procurare danno agli umani, sarà un elemento che ricorrerà frequentemente nell’intera opera in un binomio che oppone la paura per l’ignoto all’attrazione. In una piccola casa da tè nella provincia di Sagami, il bonzo Kojirō si ferma a riposare e ascolta, tra una tazza e l’altra, la lunga storia che gli viene narrata dall’anziana proprietaria. In questo modo viene a conoscenza degli oscuri eventi che stanno avvenendo nella regione; in sequenza sono narrate la sfortunata vicenda del giovane Kakichi, l’incontro del vecchio Saihachi con una misteriosa e potente figura femminile, lo strano comportamento dei ragazzini del villaggio che ripetono in processione, i volti coperti da foglie di taro forate, una strana filastrocca che sembrano aver imparato proprio da questa sconosciuta presenza femminile.

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Si arriva così al centro nevralgico dell’intera narrazione: la Porta Nera.

A seguito di eventi nefasti, questa residenza è temuta da tutti ed evitata dagli abitanti del villaggio, che la ritengono un luogo infestato. Solo il vecchio Saihachi vi si reca ancora; per questo la moglie chiede al bonzo di visitarla e di recitarvi un sūtra. Presentato al lettore in strane circostanze, la villa ha da poco un nuovo inquilino: il giovane Akira, uno studente venuto da lontano. Con il suo arrivo, l’opera inizia ad esprimere più concretamente la propria vocazione onirica.

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Finora limitati al racconto indiretto e percepiti come lontani, gli eventi inspiegabili si moltiplicano per numero e per intensità; non più narrati dalla voce esterna dell’anziana, sono ora raccontati dai diretti interessati e si manifestano nel loro svolgersi, rivelandosi gradualmente agli occhi increduli dei lettori.

La Porta Nera è un Non-luogo, dove il tempo scorre diversamente e dove anche la natura sembra comportarsi in maniera differente. Il sole cala prima, le foglie degli alberi proiettano strane ombre e lo scroscio della pioggia può essere udito anche quando il cielo è sereno.

Le assi dei tatami si muovono da sole, gettando nel panico gli uomini; le lanterne vorticano in maniera inspiegabile, generando strane luci e deformando i contorni delle cose; gli oggetti spariscono…

Nell’oscurità di una di queste stanze, al calar della sera, Akira rivela al bonzo Kojirō la ragione del suo viaggio.

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Izumi Kyōka

Orfano di madre, il giovane ha viaggiato per cinque anni alla ricerca di una filastrocca che cantava quando da bambino giocava a palla con le amiche.

Il ritrovamento di una palla identica a quella che possedeva da piccolo nel ruscello che attraversa il giardino della Porta Nera e le filastrocche cantate dai bambini del villaggio lo hanno indotto a restare in quel luogo, convinto che tra le mura di quella strana casa sarebbe riuscito a sentire per la prima volta dopo tanto tempo ciò che cercava, unica maniera di riportare in vita, seppur brevemente, la memoria della madre. L’oralità sembra quindi fornire una delle chiavi di lettura dell’intera opera. Non solo gran parte della narrazione avviene nella forma del racconto orale, ma anche i canti e le filastrocche vi ricoprono un ruolo rilevantissimo.

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L’ opera si apre proprio con una filastrocca e queste sembrano essere una vera e propria ossessione per il personaggio di Akira, che annota tutte quelle che ascolta. In diverse occasioni queste nenie sembrano poi ricoprire un ruolo quasi magico; la misteriosa figura femminile ne intona una nella notte dell’incontro con Kakichi, che viene modificata e ripetuta dai bambini che sfilano in un’occulta processione.

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Nella parte finale, le filastrocche lette dal monaco sembrano addirittura riuscire a materializzarsi nel presente.

In generale, il canto sembra capace di aprire un varco, schiudendo il passaggio tra il mondo degli umani e quello delle presenze sovrannaturali. E anche nel caso di Akira quello che il giovane studente ricerca è una sorta di varco: il potere della filastrocca sembra in grado di riportare alla luce il volto ormai dimenticato della madre e quindi violare il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In un atto di effimera necromanzia, lo studente cerca in un certo senso di riportare in vita la figura materna; al tempo stesso, la filastrocca e la palla rappresentano i mezzi principali di un tentativo di regressione all’infanzia.

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Il ricorrere a numerosi simboli femminili nell’opera, l’abbandono totale del giovane agli eventi e l’ambiente buio della casa della Porta Nera suggeriscono quasi una volontà di tornare al grembo materno, di risalire non tanto alla propria madre “reale” quanto a una più archetipica figura di Madre e a una più generale volontà di essere accudito. In quest’ottica sembra emblematica quindi la scelta di una casa in cui sono avvenute due morti di parto e che si vocifera essere infestata da Ubume, spiriti di donne incinta, come luogo prescelto di ricerca. Ancora più significativa sembra poi la disponibilità di Akira, nella visione profetica presentata nella parte finale dell’opera, ad accettare una madre “altra” ; questo rapporto si tramuta presto in un erotismo proibito, nonostante gli sforzi della madre reale che, contravvenendo alla legge dei Cieli, prova a intervenire per portare in salvo il proprio figlio. In questa ricerca del calore materno potrebbe essere ricercato il nucleo tematico dell’intera opera.

Ciò trova una parziale corrispondenza con la biografia dell’autore; orfano, a seguito di alcuni profondi lutti familiari si era ritirato nei pressi del luogo in cui è ambientata l’opera, in una casa in affitto.

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Più in generale, la maternità (e la paternità) sono vissute in maniera travagliata all’interno di tutta l’opera.

Tutti i personaggi principali non hanno figli. L’anziana proprietaria della casa da tè regala a tutti gli avventori sassolini provenienti da una roccia che si dice capace di donare fertilità; tuttavia, con rammarico dichiara di non essere riuscita ad avere prole. Le due gravidanze riportate nel racconto finiscono in tragedia, con la morte di entrambe le partorienti e dei nascituri oltre che il suicidio del padre; a rendere ancora più angosciante la relazione con la maternità contribuiscono le inquietanti presenze delle ubume e la terribile visione nel giardino.

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I bambini compaiono nell’opera solo come presenze di passaggio, irriconoscibili a causa delle foglie di taro che coprono e mascherano il loro viso, entità al confine tra l’umano e il soprannaturale; anche le figure dei genitori sono a malapena tratteggiate e nessun volto si riesce a distinguere nella massa indistinta.

Ciò contribuisce a dare maggiore rilievo e centralità alla figura di Akira, la cui infanzia è al contrario descritta con precisione e le cui figure materne rappresentano dei personaggi importanti: non solo la madre, la cui memoria muove le azioni del giovane, ma anche figure di maternità “complementare”, come la zia e le amiche di infanzia, ricoprono un ruolo importante nella sua ricerca. Sebbene l’opera sembri animata da una tensione costante verso l’archetipo, essa mantiene tuttavia un carattere tipicamente nipponico che ne pervade qualunque aspetto. Frequentissimo è il rimando al teatro kabuki, di cui l’autore era grande esperto e che contribuisce a fornire a molte pagine un notevole effetto drammatico; l’influenza degli interessi letterari dell’autore si nota poi anche nei contenuti, fortemente ispirati dalla letteratura fantastica di epoca Tokugawa. Le apparizioni e le entità sovrannaturali che si avvicendano nel romanzo sono profondamente radicate nella tradizione giapponese e in primo luogo nelle credenze popolari: le figure di yōkai si affollano tra le pagine del romanzo, contribuendo a rendere l’atmosfera più viva e sinistra.

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Anche lo Shintoismo e il Buddhismo forniscono numerosi spazi, suggestioni e figure. Spiriti piangenti, demoni e compassionevoli entità celesti si addensano soprattutto nella parte finale del romanzo, in cui i confini tra realtà e sogno sembrano farsi sempre più sfumati, fino a scomparire del tutto.

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La vita umana non sembra qui troppo lontana dal sogno stesso e lo scorrere degli eventi si fa incerto, si frammenta, sfugge al controllo e alla percezione dei protagonisti, rendendo impossibile distinguere gli eventi concreti dall’illusione e dalla visione.

Dipinto minuziosamente, lo spazio naturale è il luogo privilegiato dove le apparizioni si manifestano, che sia nella forma di una palla trascinata dolcemente da un ruscello o di una voce che risuona imperiosa sul mare. La natura appare sempre minacciosamente sul punto di irrompere nell’elemento umano e vincerlo: potrebbe essere questo il senso della pioggia che penetra dentro la casa dalla Porta Nera, delle erbacce che crescono rigogliose fino a coprirne il sentiero, delle strane ombre proiettate dalle foglie all’interno della residenza e, soprattutto, delle inquietanti maschere ricavate dalle foglie di taro usate dai bambini del villaggio. Quando le indossano essi appaiono irriconoscibili alle loro stesse famiglie, quasi come se l’applicazione dell’elemento naturale li tramutasse, sottraendoli alla sfera umana e trasformandoli indistintamente in qualcosa di Altro.

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Palcoscenico di eventi inspiegabili è soprattutto la montagna, in linea con la tradizione nipponica che da lungo tempo la percepiva come uno spazio Altro rispetto a quello antropico dei campi e dei villaggi, che sfuggiva al controllo umano.

Non è un caso quindi che la Porta Nera si trovi alle pendici dei monti, quasi a voler simboleggiare il luogo d’incontro tra i due mondi. Anche il percorso del monaco Kojirō sembra significativo. Bonzo itinerante, egli deve ancora prendere i voti e ha appena effettuato la sua prima tonsura. Il racconto degli eventi della Porta Nera da parte dell’anziana riesce però a fargli provare autentica compassione; conscio dei suoi limiti, non esita ad ammetterli al giovane Akira; nei momenti di paura, egli fa appello al Buddha con vera fede. Proprio lui riceverà quindi, nel finale del romanzo, la visita dei demoni e interagirà con essi; a lui verrà illustrata la visione profetica riguardo al destino di Akira e proprio lui cercherà di trattenere il giovane dal seguire la presenza femminile nel suo volo. Sebbene non culminante nell’Illuminazione, il suo percorso lo porta quindi a ricevere una rivelazione sovrannaturale e a prendere parte al mistico evento che chiude l’opera, che sembra voler rappresentare un evento risolutivo e di portata universale, coinvolgendo il Cielo e la Terra. Tanto quanto Akira, anche per il monaco quest’avvenimento rappresenta il culmine e il punto di arrivo del suo viaggio.

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“Labirinto d’erba” è dunque un’opera policentrica, in cui punti di vista e tempi si alternano costantemente e in cui il rapido fluire degli eventi si alterna alle modalità del racconto e si diluisce nell’atmosfera densa della visione e dell’onirismo.

Radicata saldamente nell’universo immaginativo giapponese, l’opera offre numerose chiavi interpretative ed è pervasa da una costante tendenza universalizzante che punta a raggiungere l’archetipo. Con la sua atmosfera intrisa di mistero e la sua simbologia complessa, si propone al lettore come un intricato enigma fatto di piante, presenze inafferrabili e drammi individuali, lo trascina in un alternarsi apparentemente caotico di lucidità e sogno, lo spinge a interrogarsi sulla realtà stessa delle cose.

Zombie contro Zombie – One cut of the dead || Recensione

Regia: Shin’ichirō Ueda

Anno: 2017

Durata: 96 minuti

Genere: horror, commedia

Attori principali: Takayuki Hamatsu, Harumi Syuhama, Mao Higurashi

“Zombie contro zombie”, il cui titolo originale è “One cut of the dead”, è un film che parla della realizzazione di un film ambientato durante le riprese di un film.

Proviamo a spiegarci meglio, la storia è divisa in tre parti: nella prima vediamo una troupe intenta a realizzare un film horror all’interno di un impianto di filtraggio d’acqua abbandonato. La leggenda vuole che l’edificio sia infestato dagli zombie perché è stato usato anni prima dall’esercito giapponese per sperimentazioni sugli esseri umani. Il regista è molto esigente, quasi manesco nei confronti degli attori e pretende che la recitazione sia il più credibile possibile. Ad un certo punto due membri della troupe vengono morsi da uno zombie, diventando zombie a loro volta, ma il regista, entusiasta che la realtà diventi essa stessa il racconto, continua a girare con la sua macchina da presa. Dopo una serie di risvolti rocamboleschi l’unica a rimanere in vita è la giovane attrice Chinatsu.

Appena dopo i titoli di coda sentiamo “ok, stop!” che ci porta fuori dalla diegesi e ci fa capire che tutto quello che è successo era le riprese di un altro film. Nel secondo atto, ambientato un mese prima, al regista Higurashi viene commissionato, da parte di un’emittente televisiva, un mediometraggio horror in diretta girandolo con un unico piano sequenza. Higurashi accetta questa proposta al limite dell’impossibile e si dedica al casting e alle prove, coinvolgendo la figlia come aiuto alla regia e la moglie come attrice. La terza e ultima parte consiste nella messa in atto del telefilm, visto stavolta dalla parte della vera troupe, mostrandoci tutti gli imprevisti che hanno portato a cambiamenti repentini rispetto alla sceneggiatura di partenza come caviglie slogate e attacchi di diarrea. Questa parte giustifica alcune soluzioni di regia che sembrano il frutto di una negligenza registica.

L’incipit si presenta come un zombie-movie indipendente al limite del trash, nonostante un magistrale piano sequenza di quasi quaranta minuti che ricorda il linguaggio dei videogiochi. Ma i toni in seguito si fanno leggeri e divertenti e il film ci svela il dietro le quinte di una produzione low budget dove l’errore e il tentativo di risolverlo costituiscono l’espediente comico principale.

Quando si tratta di film metanarrativi o ambientati su un set cinematografico la dialettica tra realtà e finzione emerge spontaneamente e “Zombie contro zombie” non fa eccezione:  Harumi, la moglie di Higurashi, in passato ha dovuto rinunciare alla recitazione perché si immedesimava troppo nei personaggi e questo eccessivo coinvolgimento emerge durante le riprese, mettendo in difficoltà gli altri attori. Un altro esempio è Hosoda, l’attore che interpreta il direttore della fotografia, il quale prima di entrare in scena si beve un’intera bottiglia di sakè stordendosi completamente. Una volta che il suo personaggio diventa zombie, Hosoda non sta recitando ma il suo barcollare deriva dalla sua condizione psicofisica.

Un film a dir poco geniale che si sviluppa su tre livelli di narrazione, come una matrioska di racconti, però creato in modo tale che lo spettatore possa orientarsi senza confondersi. 

Recensione di Martino Ronchi

Eve – Bunka || Recensione

Eve (いぶ) è un artista che sta assumendo sempre più rilevanza nel panorama indie-pop e pop giapponese e la cui popolarità sta diventando sempre più diffusa anche internazionalmente.

Eve è attivo sotto questo pseudonimo sulla scena musicale fin dal 2009, quando all’età di soli 13 anni ha cominciato a pubblicare cover sul sito giapponese Nico Nico Dōga, per poi espandersi negli anni cominciando a pubblicare canzoni in proprio oltre che a cover, passando alla piattaforma Youtube per le sue canzoni. Oggi pubblica esclusivamente contenuti originali e conta ben cinque album completi, oltre ad innumerevoli singoli e mini album.

Eve viene spesso associato alla sua voce chiara e medio-alta, leggermente nasale, che porta un velo di freschezza alle sue canzoni. I suoi brani sono spesso ritmati e accattivanti, tuttavia i testi rivelano un sottofondo di amarezza e inadeguatezza, leggermente malinconici ma mai pesanti o banali, spesso ricchi di metafore, giochi di parole e riferimenti alle sue stesse canzoni, creando un universo ricco e coeso.

Bunka (文化) è il suo secondo album, pubblicato nel 2017 sotto la sua etichetta, Harapeco Records, e conta 10 canzoni. Ciò che rende questo suo album più unico e distinto dal primo, Official Number, è il fatto che Eve ha personalmente scritto e composto tutti i brani presenti nell’album, invece di affidarsi a compositori esterni. Inoltre, un punto che rende questo album davvero interessante è il fatto che è aperto e concluso da due brani esclusivamente strumentali, ovvero Fanfare e Paradigm. In questo album troviamo alcune delle canzoni più iconiche e memorabili di Eve, tra cui possiamo ricordarne tre:

-Bungaku Nonsense (文学ナンセンス), il primissimo brano interamente composto e scritto da lui. La natura ritmata e veloce della canzone dà un forte senso di adrenalina, e le numerose allitterazioni e onomatopee presenti nel testo la rendono sicuramente molto memorabile. Tuttavia il testo rimane piuttosto cupo, con forti allusioni al sentirsi esterni alla società ed isolati.

Dramaturgy (ドラマツルギー), la canzone che lo ha davvero portato sotto i riflettori è ancora oggi tra le più amate, arrivando a più di 150 milioni di visualizzazioni solo su Youtube, grazie anche all’iconico video musicale animato dall’artista indipendente Mah. Anch’essa è una canzone molto veloce, ma spesso rallenta leggermente per spaziare ritmo e testo, dando un attimo di respiro all’ascoltatore ma anche uno spiraglio sulla natura del testo, che anche in questo caso si concentra su temi di inadeguatezza e il bisogno di mettere una maschera e recitare costantemente.

Okinimesumama (お気に召すまま) è un altro brano estremamente amato, grazie al suo ritmo e alle tendenze pop-rock presenti, che lo rendono immediatamente un classico della discografia di Eve. Il brano a primo sguardo sembra molto allegro dal punto di vista ritmico, inducendo l’ascoltatore al sorriso, ma anche il testo di questa canzone rimane legato alla disillusione verso la propria vita, benché in modo più leggero e giocoso rispetto ai termini pesanti usati in Dramaturgy.

Eve è un cantautore che lascia una forte impressione su chi lo ascolta, sia per la sua voce piacevole ed espressiva, che per le sue canzoni, con i loro ritmi tanto orecchiabili quanto pensati e i loro testi che spingono chi ascolta a riflettere su di essi, facendoli suoi. Spingiamo i nostri lettori a constatare il suo peculiare approccio alla musica ascoltando loro stessi la sua ricca e meravigliosa discografia.

Recensione di Camilla Ciresa

Fetch || Recensione

Artista: Melt-banana
Anno: 2013
Formazione: Yasuko Onuki (voce), Ichiro Agata (chitarra, effetti)


Fetch è il settimo album che sancisce il ritorno alle scene dei Melt-banana: una delle band cardine della scena Japanoise a cavallo tra il millennio che, già dai primi anni, ha catturato l’attenzione degli appassionati occidentali. Il gruppo ricompare dopo sei anni dall’uscita di “Bambi’s Dilemma”, che costituisce una sorta di partentesi catchy della loro discografia. I motivi per questa lunga pausa sono principalmente due: alcuni tour all’estero, come quello negli Stati Uniti con i Tool, i Melvins e Lou Reed; ma soprattutto il disastro della centrale nucleare di Fukushima. Sebbene l’evento non abbia avuto delle ripercussioni evidenti sulla vita dei musicisti, la cantante Onuki ha affermato che quell’evento ha provocato un blocco creativo nella scrittura delle canzoni e di conseguenza ha ritardato la lavorazione in studio. Per quest’occasione il duo di Tokyo effettua un ritorno alle origini, agli stessi Melt-banana che negli anni ‘90 si sono fatti conoscere nel panorama underground internazionale.
Il disco, pubblicato dall’A-ZAP Records, è composto da dodici tracce che variano da una durata di un minuto e mezzo a quasi cinque minuti, sperimentando in questo modo sulla forma canzone.
Il primo brano, che è anche il più streamato sulle piattaforme, è “Candy gun”: si apre con un lungo intro della chitarra di Agata, che simula il rumore delle onde del mare, in puro stile noise e shoegaze, per poi essere infranto dal cavalcante groove di basso.
Altri brani degni di nota sono “My missing link”, la sesta traccia, che spicca per le atmosfere dark e inquiete (“Where to find that peaceful factor?”) e “Zero”, una ballata dance dalle venature post- punk con cui si conclude il disco.
Ci viene presentato un noise-core caotico e frenetico, che riprende il filo del discorso lasciato in sospeso con “Cell-scape” (2003); ma questa volta il sound complessivo è più pensato ed elaborato, con una produzione che si dimostra di alto livello rispetto ai precedenti dischi.
Agata sperimenta ulteriormente con l’effettistica della sua chitarra: in molte tracce sovrappone tre riff apparentemente inconciliabili costruendo un disorientante muro sonoro che avvolge la canzone, in linea con l’industrial-rock degli anni ‘80.
Batteria e basso, programmati al computer dallo stesso Agata, creano improvvisi cambi di dinamica: il flow si spezza e ricomincia ripetutamente dando un senso di allegra instabilità e, talvolta, di apnea. Se la batteria è una raffica di spari che alterna rullate a frenate brusche, il basso è forse lo strumento che più si preoccupa di riallacciarsi all’hardcore-punk classico dei Fugazi e dei Black Flag, e allo stoner-rock dei Fu Manchu.
La voce di Onuki contribuisce a dare un’anima selvaggia a tutto il disco con il suo timbro squillante e alieno.

Per quanto può essere assurda la musica che il duo propone, l’ascoltatore viene inevitabilmente catturato e coinvolto nel loro turbine nevrotico e gioioso.
In sostanza i Melt-Banana si rinnovano, si evolvono per rimanere sempre coerenti con sé stessi, riconfermando così il posto che gli spetta nella scena j-rock.

Recensione di Martino Ronchi