9 Souls – Toyoda Toshiaki || Recensione

Regia: Toyoda Toshiaki 

Anno: 2003 

Durata: 119 minuti 

Genere: drammatico 

Attori principali: Harada Yoshio, Matsuda Ryuhei, Chihara Kōji, Shibukawa Kiyohiko, Itao Itsuji, Kitamura Kazuki, Yamada Mame, Suzuki Takuji, Dairaku Genta 

Una chiave che apre uno spiraglio di luce su una Tokyo arida e buia. È questa l’immagine con cui si conclude 9 Souls, film del 2003 diretto da Toyoda Toshiaki. La pellicola, insieme a Pornstar e Blue Spring, rappresenta l’ennesimo tentativo del regista di rappresentare alcune tra le categorie più marginalizzate all’interno della società giapponese. Le “9 souls” del titolo sono i protagonisti di questa storia: nove detenuti riescono a evadere dal carcere in cui stanno scontando la loro pena, intraprendendo un viaggio alla ricerca di una grande somma di denaro che un loro compagno di cella avrebbe nascosto anni prima nella capsula del tempo di un liceo.

I protagonisti, uomini di tutte le età colpevoli dei crimini più disparati, si ritrovano a dover convivere all’interno di un van rubato durante la loro fuga e a spostarsi continuamente alla ricerca del prossimo pasto. Il tono comico che caratterizza le situazioni al limite dell’assurdo che i detenuti si ritrovano ad affrontare lascia però un gusto amaro nella bocca dello spettatore: ben presto infatti il passato dei protagonisti viene rivelato mostrando storie di abusi, negligenza e abbandono a condizioni di vita degradanti e alienanti. Il gruppo, inizialmente compatto, inizia a separarsi man mano che i suoi membri tentano di rimettere a posto le vite che hanno lasciato in pausa a causa della loro condanna; molti di questi tentano di rimediare a errori passati, altri cercano di farsi giustizia da soli in un mondo che ha voltato loro le spalle.

È proprio la condizione di invisibilità a cui sono relegati questi individui a rappresentare il tema centrale del film: Toyoda ci mostra infatti un mondo ancora più crudele e freddo di quello delle celle in cui i nove detenuti hanno vissuto, un mondo in cui persone che si sono macchiate di crimini efferati ottengono successo e ricchezza lasciando che siano altri, più poveri o soli, a pagare le conseguenza delle loro azioni. In questo senso, i costumi buffi che i protagonisti si ritrovano a indossare per non farsi riconoscere celano un significato ancora più profondo: l’unico modo che questi uomini hanno per vivere nella società è camuffarsi, vivendo nell’ombra e ritrovandosi in situazioni grottesche in cui, nel tentativo di mimetizzarsi, risultano essere ancora più fuori posto. L’unica alternativa ad abiti e parrucche da donna, baffi e occhiali finti, è la loro uniforme carceraria bianca, un marchio indelebile che non permette di distinguerli l’uno dall’altro.

Con 9 Souls Toyoda vuole criticare l’incapacità e il disinteresse del Giappone nel guidare i detenuti a un percorso di riabilitazione attraverso cui venire reintegrati nella società: questi individui vengono infatti abbandonati, ostracizzati, costretti a ripetere perpetuamente un ciclo di violenza che è necessario per la loro sopravvivenza. La pellicola offre un ritratto estremamente umano dei detenuti, mostrando le fragilità e i desideri di persone che per tutta la vita non sono state ascoltate. 

La chiave potrebbe quindi rappresentare l’empatia, l’unico strumento attraverso cui accedere a un futuro più consapevole e attento ai bisogni anche di questi individui; una chiave che verrà passata di generazione in generazione fino a quando un giorno riuscirà ad aprire una porta su un mondo migliore. 

Recensione di Francesca Marinelli

La cucina degli incontri della signora Megumi – Yamaguchi Eiko || Recensione

Autore: Yamaguchi Eiko

Traduzione: Raffaele Papa

Editore: Rizzoli

Edizione: febbraio 2024

La cucina degli incontri della signora Megumi è il primo libro pubblicato in Italia dell’autrice Yamaguchi Eiko, vincitrice del Matsumoto Seichō Literary Prize. Questo romanzo di narrativa contemporanea tratta della storia di Tamazaka Megumi, una donna, ormai cinquantenne e vedova, che un tempo era stata una famosa indovina conosciuta con il nome di Lady Moonlight. A causa di una tragedia che toccherà la sua vita privata e la sua carriera, Megumi decide di dedicarsi alla cucina, diventando proprietaria di un shokudō, un modesto locale specializzato in oden, la tipica zuppa giapponese. Quali sono le motivazioni che hanno spinto la signora Megumi a cambiare drasticamente vita? Il piccolo ristorante è attraversato da una calorosa atmosfera familiare che invita i clienti abituali a condividere le loro storie e preoccupazioni, mentre sorseggiano il sakè e gustano i deliziosi piatti preparati da Megumi.

All’interno dell’opera si possono trovare ricche descrizioni, estremamente dettagliate, dei piatti proposti dal ristorante: ostriche al curry, bistecca di taro, bambù con vongole saltate al burro, riso con salsa, tamagoyaki ripieni e infine l’oden, il piatto speciale che tutti i clienti amano. Il cibo viene utilizzato come veicolo letterario per la conoscenza della cultura giapponese: in Giappone l’arte culinaria denominata washoku ha una tradizione molto antica, legata all’alternarsi delle stagioni. I due elementi fondamentali sono l’estetica e l’armonia degli ingredienti; Megumi sperimenta diverse combinazioni e solo quando è soddisfatta procede ad inserire il nuovo piatto nel menu stagionale del suo ristorante. Così come nelle opere di Ogawa Ito e Banana Yoshimoto, anche Yamaguchi Eiko decide di far emergere il potere collettivo della cucina giapponese.

Inoltre, Megumi è una donna caratterizzata da una spiccata sensibilità che decide di mettere a disposizione le sue “doti” per aiutare gli altri, siano quelle culinarie o quelle da indovina. I clienti che popolano il suo locale instaurano un forte legame con lei: raccontano eventi di vita privata, chiedono consigli, e cercano tutti di sentirsi in qualche modo meno soli tra le mura di questo caloroso ed intimo shokudō.

Yamaguchi Eiko, tramite la sua scrittura ricca di particolari, è in grado di offrire al lettore delle vere e proprie fotografie mentali di ciò che descrive: è come se si potessero percepire direttamente le sensazioni provate da chi sta assaporando i piatti del menu della signora Megumi.

Recensione di Ludovica Vergaro

Shōso Strip – Shiina Ringo || Recensione

Considerata una dei più importanti musicisti del Giappone contemporaneo, Shiina Ringo è un’artista caratterizzata dalla sua profonda conoscenza di svariati strumenti e generi musicali, e la capacità di fonderli con maestria ed eleganza. Il suo secondo album intitolato “Shōso strip” e uscito nel 2000 è uno dei dischi più rappresentativi della sua versatilità artistica. Scritto quando l’autrice aveva solo 21 anni e composto di 13 tracce, l’album spazia da pop rock tradizionale a pezzi elettronici e sperimentali, riuscendo comunque a mantenere un’identità forte e coesa.

Il primissimo brano, “Kyogen-shō”, cattura immediatamente l’attenzione grazie alla chitarra elettrica distorta, il flauto campionato e la batteria che entra in scena con una certa prepotenza. Anche la voce di Shiina Ringo stessa fa di tutto per farsi notare con una performance carica di energia; il timbro squillante della sua voce si addice perfettamente al caos sonoro che l’accompagna. La canzone successiva, “Yokushitsu”, capovolge completamente l’atmosfera, presentandosi come un pezzo quasi completamente elettronico e da una composizione molto più eterea e non convenzionale.

L’alternarsi di pezzi più convenzionali e pezzi più sperimentali è una costante dell’intero disco. “Gips” e “Honnō” sono tra i brani più vicini ad un tipico stile pop, ma neanche in questi Shiina può resistere dal distorcere batteria, chitarra e anche la propria voce. “Identity” e “Stoicism” si presentano invece come due completi opposti: Se la prima è un vero e proprio pezzo Noise rock dalla forte aggressività e slancio ritmico, la seconda è una breve traccia elettronica a tratti inquietante, dove la voce della cantante si ritrova travolta di effetti sonori, quasi come se fosse un sintetizzatore.

Il settimo brano, “Tsumi to batsu”, divide l’album in due metà e si fa riconoscere per la sua unicità rispetto alle tracce restanti. Dal punto di vista strumentale è abbastanza in linea con il resto del disco, ma si distingue per lo stile e per la performance di Shiina. Rifacendosi al titolo (In italiano “Delitto e castigo”), ci viene proposto una sorta di ballata rock stile anni ‘70 e Shiina canta con un’enfasi e un tono drammatico assente dal resto dell’album. Sentendola, si può facilmente immaginarla come una scena di un film poliziesco, tanto che è carica di tensione.

In conclusione, “Shōso Strip” è un album incredibilmente vario ma che riesce con successo a raccogliere tutte le capacità di Shiina ringo come compositrice e polistrumentista in un singolo disco di 55 minuti.

Recensione di Biagio Furno

La foresta nascosta – Radhika Jha || Recensione

“Non sarebbe mai dovuto tornare, pensò amareggiato, ma ormai era troppo tardi”

“La foresta nascosta” è la storia di Kōsuke, uomo giapponese trasferitosi a New York per lavoro. La sua vita tranquilla viene sconvolta dalla notizia della morte del padre, con cui non aveva più contatti da anni; decide di tornare in Giappone e si trova costretto ad ereditare il tempio Shintoista di famiglia. Diviso tra i propri doveri di Kannushi e la sua vita negli Stati Uniti, Kōsuke cerca con grandi difficoltà di trovare una soluzione che possa soddisfare tutti, sé stesso incluso.

La trama è caratterizzata da un misto tra romanzo psicologico ed elementi tipici del giallo. Il dilemma interiore di Kōsuke è reso ancora più complesso dall’entrata in scena di personaggi  quasi surreali come Akemi e Andō, e dall’irruzione della Yakuza che cerca di comprare il tempio di famiglia. L’incontro di questi elementi narrativi è però gestito molto bene, al punto da intensificare i momenti più intimi ed emotivi che coinvolgono gli attori principali: nello specifico, oltre al protagonista, la sua compagna Kirsten e sua sorella Asako sono dei personaggi molto veri, con cui è facile empatizzare, anche quando commettono errori.

Nel corso della storia, Kōsuke cerca di raccattare da qualunque personaggio che incontra le memorie di suo padre, scoprendo che tipo di persona fosse, cosa pensava di lui mentre era all’estero e come ha affrontato la vita e le difficoltà economiche del santuario fino alla sua morte. Nonostante sia un personaggio già morto a inizio storia, ha un’influenza costante e duratura sugli eventi e suo figlio non può permettersi di ignorare la cosa, deve anzi scontrarsi costantemente con le proprie mancanze, la sua assenza da casa, e il rimpianto di non aver mai riallacciato i rapporti con suo padre.

L’occhio di Kōsuke per l’architettura è un ulteriore elemento fondamentale per la storia. Non solo nota con attenzione ogni singolo dettaglio del proprio tempio e degli altri che visita, ma la sua esperienza negli Stati Uniti gli fa riconoscere quanto il Giappone contemporaneo stia cambiando. Molti templi della sua infanzia sono o stati distrutti, o riammodernati in grattacieli all’occidentale e lui si scopre profondamente ferito dalla cosa. Nonostante abbia vissuto per almeno sette anni a New York, un simbolo della “modernità”, appena mette piede in Giappone diventa quasi un conservatore.

Con questo libro, l’autrice riflette su come una parte della nostra terra natia resti sempre con noi, anche inconsciamente. Il Kōsuke in Giappone è completamente diverso da quello in America. Radhika Jha stessa, infatti, ha vissuto per anni in Giappone: ha visto lo scontro tra tradizione e moderno, ha visto i templi Shintoisti venire venduti per profitto, e probabilmente ha vissuto anche il conflitto interiore che coinvolge l’intero romanzo dall’inizio alla fine.

Il conflitto che caratterizza l’intera storia non riceverà mai una risposta definitiva. L’unica persona che può davvero sapere cosa vuole è Kōsuke stesso e nessun altro. 

Recensione di Biagio Furno

Maschere di donna – Enchi Fumiko || Recensione

Titolo: Maschere di donna
Autrice: Enchi Fumiko
Traduttrice: Graziana Canova Tura
Editore: Marsilio
Edizione: 1999

“Per quanto un uomo si dia da fare non arriverà mai a capire le trame che una donna ordisce in silenzio, lenta ma inesorabile. […] Anche il sadico malanimo di Buddha o di Cristo verso la donna non è stato altro che un tentativo di sottomettere un avversario col quale non potevano competere.”

Parte di una trilogia informale di romanzi legati al Genji Monogatari, “Maschere di donna”, pubblicato per la prima volta nel 1958, è il titolo più cupo e inquietante dei tre.
La storia ruota attorno a Toganō Mieko, donna colta e studiosa di letteratura classica e di teatro Nō, che vive insieme a Yasuko, la moglie del defunto figlio. In un intrigo di vendette e rancori segretamente covati per anni, si sviluppa la trama del romanzo, in grado di ammaliare il lettore e renderlo un’altra vittima dell’inquietante fascino di Mieko.

Enchi Fumiko è tra le autrici che più hanno scosso il panorama letterario nipponico dello scorso secolo. Ancorata alla tradizione classica, dai monogatari ai grandi autori dell’Ottocento, le sue pagine risplendono di amore e dedizione per la letteratura del passato. In particolare, in Onnamen, Enchi si concentra sulla figura di Rokujō, uno dei personaggi femminili più famosi ed emblematici del Genji Monogatari. Dapprima amante del principe Genji, quando viene messa da parte e perde il suo status a corte, si trasforma, a sua insaputa, in un mononoke, uno spirito vendicativo che possiede le nuove consorti di Genji e ne causa la morte.

“Maschere di donna” parla esplicitamente di Rokujō e della sua vendetta soprannaturale, l’unica arma che le è concessa, e Mieko stessa si inserisce nella stessa tradizione karmica che la lega a Rokujō, alla dea Izanami, e tutte le donne ingabbiate dal potere maschile, il cui amore per il proprio uomo inevitabilmente si è tramutato in odio. In questo senso Rokujō diventa una vendicatrice del genere femminile, e Mieko è determinata a seguire le sue orme.

Mieko, imperturbabile come una maschera del Nō, agita l’animo degli altri protagonisti del romanzo. Questi non possono fare a meno di percepire le correnti torbide che scorrono sotto la superficie della sua quieta bellezza, ma non riescono a sondarle, non sanno decifrare i suoi piani, e rimangono irrimediabilmente intrappolati nella sue rete.

“Così come esiste un archetipo muliebre amato dagli uomini attraverso i secoli, nello stesso modo vi deve essere un genere di donna da essi eternamente temuto, possibile proiezione dei mali insiti nella natura maschile.”

Recensione di Elena Angelucci

Battle Royale – Fukasaku Kinji || Recensione

Regia – Fukasaku Kinji

Anno – 2000

Genere – Thriller, Azione

Attori principali – Kitano Takeshi, Fujiwara Tatsuya, Maeda Aki

In un futuro prossimo, la società giapponese è sull’orlo del collasso e l’autorità scolastica inizia ad esercitare un controllo totale. Battle Royale, diretto da Kinji Fukasaku, affronta questa premessa per generare un film estremamente violento ma non non così distante dalla realtà in cui viviamo. Il film ormai considerato uno dei più grandi classici del cinema giapponese ha incassato 30 milioni di dollari globalmente a fronte di un budget di 4,5 milioni.

All’inizio del film ci viene mostrato un gruppo di studenti di una classe liceale che viene inviato su un’isola remota, costretti a combattere tra loro fino alla morte in un gioco crudele organizzato dal governo. La violenza non è l’unico tema del film; Fukasaku esplora anche le reazioni dei ragazzi di fronte alla morte imminente, originata dal Millennium Educational Reform Act.

Alcuni rifiutano di combattere, altri tentano di sabotare il sistema, mentre altri ancora abbracciano la sfida con un gusto psicotico. Kazuo Kiriyama, freddo, impassibile e esperto con le armi come fosse un cyborg e Mitsuko Souma, che nasconde un passato traumatico, vede il gioco come un’opportunità per regolare vecchi conti.

Il protagonista, Shuya Nanahara, armato solo di un coperchio di pentola, tenta di proteggere la ragazza che ama, Noriko. Nonostante la sopravvivenza sembri quasi impossibile saranno proprio loro, i personaggi all’apparenza più deboli a sopravvivere grazie alla loro unione.

La decisione di Fukasaku di dirigere Battle Royale è influenzata dalle proprie esperienze traumatiche durante la seconda guerra mondiale. L’ambientazione sull’isola funge da sfondo per un esperimento sociale, che mette in luce la brutalità umana.

Il film inoltre critica aspramente la società giapponese, in particolare quei valori post-bellici improntati verso un estremo spirito di competitività e generati per la prima volta proprio all’interno dell’ambiente scolastico. Battle Royale rimane un capolavoro di critica sociale e drammaticità, che lascia un’impronta indelebile nella storia del cinema mondiale, testimoni le diverse opere che presentano un palese calco come “Hunger Games” e “Squid Game”, opere di grande successo mediatico ma non in grado di eguagliare a livello qualitativo l’opera a cui si sono ispirate.

Recensione di Simone Endo