Nipponia Nippon – Abe Kazushige || Recensione

Autore: Abe Kazushige

Traduzione: Gianluca Coci

Editore: edizioni e/o

Edizione: 2018

Il titolo dell’opera letteraria Nipponia Nippon, scritta da Abe Kazushige, è strettamente collegato al contenuto del testo stesso: tale termine si riferisce all’ibis giapponese, una specie a rischio di estinzione presente sia in Cina sia in Gippone. Il protagonista della storia è il diciassettenne Tōya Haruo, un adolescente solitario e problematico che trascorre la maggior parte delle sue giornate chiuso nella propria stanza davanti al computer. Durante le sue ricerche su Internet, il giovane sviluppa una vera e propria ossessione nei confronti di questa strana specie: l’ibis crestato giapponese; considerato uno dei simboli del paese. Haruo non trova uno scopo nella sua vita e per questo vive in perenne conflitto con la sua mente, che lo porterà a sviluppare irreali elucubrazioni. Il giovane finirà per identificarsi negli ibis e come loro inizierà a sentirsi un essere speciale e raro, diverso da tutti gli altri. 

Abe Kazushige, considerato dalla critica come uno dei migliori nuovi talenti della letteratura giapponese, racconta l’approccio distorto nei confronti della vita e il relazionarsi con il mondo di un adolescente fuori dal comune. La realtà viene affrontata tramite una descrizione lucida del quotidiano attraverso la prospettiva del giovane Haruo: il flusso infinito e ripetitivo di pensieri, gli effetti della solitudine e dell’isolamento e infine, il rifiuto dei coetanei sono il centro di tutta la storia.

L’autore alterna diverse modalità di scrittura, pagine web, report, definizioni del dizionario e utilizza uno stile semplice ma efficace, tramite il quale è in grado di rappresentare la follia paranoica di ungiovane, che nutre il forte bisogno di amare ed essere amato.Sebbene Haruo compia azioni riprovevoli e di dubbia moralità, si può notare come egli stia fondamentalmente ricercando l’aiuto da parte di una società che non lo comprende e che è incapace di offrigli il supporto necessario. Egli non riesce nemmeno a trovare conforto all’interno del proprio nucleo familiare o tra i coetanei: Haruo instaura un difficoltoso rapporto con i suoi genitori e allo stesso tempo non è in grado di integrarsi con i compagni di scuola, che finiranno per compiere veri e propri atti di bullismo nei suoi confronti. Vi è una forte ambivalenza nel personaggio di Haruo: egli possiede una grande stima di sé e delle proprie doti, considera gli altri come inetti e privi di qualità, ma non è capace di trovare un posto nella società. Con questa opera vengono trattati argomenti importanti che caratterizzano da tanti anni la società giapponese: la depressione giovanile, il bullismo, il fenomeno degli “hikikomori” e il suicidio.

Recensione di Ludovica Vergaro

Lucifero e altri racconti – Akutagawa Ryūnosuke || Recensione

Autore: Akutagawa Ryunosuke

Traduttore: Andrea Maurizi

Edizione: 2019

Editore: Lindau

Se si parla di racconto breve, in ambito giapponese è imprescindibile il nome di Akutagawa Ryūnosuke. A lui è intitolato il premio per gli scrittori esordienti, a lui che è morto suicida e così giovane, convinto di non aver lasciato alcun segno utile nel panorama letterario giapponese. I critici e la storia hanno smentito questa sua paura, riconfermando a gran voce le parole di encomio che il suo maestro Natsume Sōseki, altro grande della letteratura del Sol Levante, ha speso per lui.

È per l’immortalità della sua scrittura, quella “nicchia tutta [sua] nel mondo delle lettere”, come la chiamava Sōseki, che le ritraduzioni dei racconti più famosi di Akutagawa sono continue e sempre ben accette. In questa edizione si sono selezionati dieci testi della produzione di tema cristiano di Akutagawa, la metà dei quali sono traduzioni inedite.

Per Akutagawa Ryunosuke la finzione è lo strumento più diretto e al contempo più sottile per parlare del presente, e raramente ambienta i suoi racconti nella sua contemporaneità. Lavora per riferimenti, ricostruzioni, retelling di racconti popolari, usando fatti realmente accaduti o situazioni verosimili parte della conoscenza comune giapponese come strumenti per raccontare il presente. Ne risulta una prosa sagace e tagliente che usa l’ironia come dissimulazione, in una narrazione che lascia sempre l’ultima parola all’interpretazione del lettore, chiamato a interrogarsi sulle discrepanze e le contraddizioni dei personaggi di cui ha appena letto.

I racconti proposti in questa antologia hanno luogo nel periodo a cavallo tra XVI e XVII secolo, dopo l’arrivo dei missionari Gesuiti in Giappone, e si aprono in un ventaglio di ambientazioni e stili di narrazione differenti per mostrare le diverse ricezioni del cristianesimo nell’arcipelago.

“Lucifero e altri racconti” offre il contesto perfetto per riflettere sul rapporto di Akutagawa con il cristianesimo, inizialmente nato da un interesse di tipo intellettuale e poi approfondito nelle sue contraddizioni e insensatezze se paragonato allo shintoismo (la religione autoctona giapponese) e il buddhismo. Dunque nei suoi racconti Akutagawa non offre mai una visione completamente positiva della religione venuta da Occidente, ma ne parla ora con diffidenza, ora con fascinazione, lasciando ai suoi personaggi l’arduo compito di incarnare l’incontro-scontro tra culture e le conseguenze che questo ha portato sull’epoca contemporanea ad Akutagawa.

La raccolta si chiude con “L’Uomo da Occidente” e “L’Uomo da Occidente – II parte”, libere riflessioni sul Nuovo Testamento e in particolare la figura di Gesù Cristo, visto nel suo ruolo di messia ma anche, e questo è l’aspetto più importante e personale dell’analisi di Akutagawa, nella sua umanità. Nei personaggi su cui si sofferma a parlare l’autore si analizza il loro significato più immediato per l’uomo, cosa rappresentino veramente per il credente nella loro umanità, che cosa li avvicina all’uomo comune.

In particolare Akutagawa sovrappone la figura di Cristo a quella dello scrittore (da lui indicato con il termine “giornalista”) e del poeta, a partire dalla dialettica che entrambi utilizzano per rivolgersi al proprio pubblico, per poi allargare il discorso alla condizione umana che li accomuna. Anche lo scrittore, come Cristo, è condannato a una vita breve e fatta di sofferenza, che brucia e si spegne troppo in fretta come una candela.

Non abbiamo gli strumenti per definire in maniera chiara quale fosse la relazione di Akutagawa con il cristianesimo, ma i suoi testi mostrano indubbiamente il suo crescente interesse per la religione, il testo sacro, l’iconografia “barbara”, le pratiche magiche.

“L’Uomo venuto da Occidente” viene pubblicato lo stesso anno del suicidio di Akutagawa, e quando il suo corpo viene trovato, nel 24 luglio 1927, lo scrittore aveva con sé una traduzione integrale della Bibbia.

Elena Angelucci

Profumo di ghiaccio – Ogawa Yoko || Recensione

Autrice: Yōko Ogawa

Traduttrice: Paola Scrolavezza

Editore: Il Saggiatore

Edizione: 2009

Profumo di ghiaccio, romanzo della celebre autrice Yōko Ogawa, racconta di Ryoko, una giornalista che si trova a dover affrontare il lutto causato dal suicidio del suo compagno, Hiroyuki. L’unica cosa che il ragazzo lascia a Ryoko dopo la sua morte è un profumo da lui prodotto nel suo laboratorio, chiamato Fonte del ricordo, accompagnato da una nota che descrive le immagini che hanno ispirato la sua creazione.

Ben presto Ryoko comprende di essere completamente all’oscuro del passato del compagno: scopre infatti il suo grande talento per la matematica e l’esistenza di un fratello, Akira, di cui non aveva mai parlato prima. Sarà proprio una gara di matematica a portarlo a Praga, luogo in cui si verificherà un avvenimento decisivo per il suo futuro. Ryoko decide quindi di visitare la città con l’obiettivo di scoprire le ragioni che hanno spinto Hiroyuki a compiere questo gesto estremo.

L’assenza permea le pagine di questo romanzo, trasformandosi nell’unica cosa tangibile che Hiroyuki ha lasciato dietro di sé: il viaggio di Ryoko diviene infatti non solo un mezzo attraverso cui trovare un senso a un dolore insopportabile, ma anche l’unico modo per ricostruire il vero Hiroyuki, mettendo insieme quello che Ryoko conosceva di lui e quella che è la sua vera storia. La città di Praga riflette perfettamente questa dicotomia: luci e ombre si rincorrono tra le strade, passato e presente si sfiorano costantemente, e la realtà viene turbata da elementi quasi magici; particolarmente interessante in questo senso è la cava dei pavoni, luogo che Ryoko scopre durante le sue ricerche ma che sembra essere in realtà una manifestazione onirica dei suoi ricordi.

Il ricordo è infatti uno dei temi centrali della storia, poiché mentre da un lato rappresenta l’unico legame tra Ryoko e Hiroyuki dopo la sua morte, dall’altro è il motore che spinge i personaggi a fare scelte che impatteranno inevitabilmente la loro vita: è questo il caso non solo di Hiroyuki, ma anche di sua madre, la cui unica attività nel presente consiste nel lucidare tutti i trofei vinti dal ragazzo alle gare di matematica a cui partecipava da piccolo, creando un vero e proprio museo in onore dei successi del figlio.

Dal punto di vista stilistico, i ricordi si inseriscono prepotentemente nella narrazione, simulando il modo in cui un suono o un odore possano catapultarci in un passato che sembra essere sempre vicino ma allo stesso tempo impossibile da raggiungere.

A questo tema si lega quello dell’incomunicabilità, caratteristica presente in tutti i rapporti umani descritti nel romanzo, in primo luogo nella coppia, ma anche nella relazione tra Hiroyuki, Akira e la madre. Ogni personaggio è motivato da un profondo desiderio di rivalsa e di controllo sulla propria vita, ma sembra vivere nell’ombra di glorie passate: il futuro di Hiroyuki viene ostacolato dai desideri della madre, la quale vede nel talento del figlio solo un’occasione per realizzare se stessa, mentre Akira vive costantemente nell’ombra del fratello. Quella di Hiroyuki è una famiglia in cui ogni membro si respinge al minimo contatto, in cui comunicare i propri bisogni potrebbe causare danni irreversibili a un equilibrio estremamente fragile.

Attraverso la sua premessa tragica, Profumo di ghiaccio vuole in realtà ispirare il lettore a costruirsi la propria strada, a dare spazio ai propri sogni e a essere i veri protagonisti della propria vita.

Recensione di Francesca Marinelli

Il maestro di campagna – Katai Tayama || Recensione

Esponente principale del naturalismo in Giappone,ne “Il maestro di campagna” Tayama Katai abbandona lo stile autobiografico e confessionale che caratterizzava le sue opere precedenti tra cui “Futon” e si cimenta nella stesura di una biografia di una persona realmente esistita: Kobayashi Shūzō, cambiandone il nome in Hayashi Seizō.

Partendo dai suoi diari personali, interviste a amici stretti, membri della famiglia e visitando i luoghi dove ha vissuto, Tayama fa un resoconto della vita del giovane dal 1901 fino alla sua morte nel 1904.

Ciò che lo spinge alla stesura dell’opera è l’intento di mostrare una nuova generazione di giovani letterati e le difficoltà che incontrano in un Giappone ancora in trasformazione dopo l’apertura all’occidente; per far ciò adopera uno stile austero e diretto che ben rappresenta non solo la realtà circostante, ma anche la mediocrità che caratterizza la vita del protagonista.

Hayashi vede sfumare i propri sogni di studi universitari a Tokyo causa una progressiva caduta economica della famiglia; è costretto a lavorare come maestro di scuola elementare in un paesino della periferia, da cui non riuscirà mai ad uscire.

Una costante dell’opera è il pessimismo di Hayashi, che è terrorizzato dall’idea di passare tutta la sua vita in campagna mentre i suoi amici si trasferiscono nelle metropoli. Questo pessimismo è corroborato dai continui e fallimentari tentativi di ottenere un’occupazione più alta,di insegnare alle scuole medie e anche di entrare in un’accademia musicale. Anche quando, verso la fine del romanzo, Hayashi riesce a maturare una prospettiva più ottimistica, gli viene comunque negata la possibilità di qualunque felicità o riscatto. Essenzialmente Tayama, attraverso la lente del naturalismo, analizza le cause delle difficoltà che i giovani provinciali possono trovarsi a vivere, muovendo quindi una critica sociale ma anche cercando di trarne un insegnamento per chi si trova nella stessa situazione: L’idea che si possa trovare una propria felicità personale anche nelle limitazioni che ci vengono imposte.

Elemento costante e fondamentale è la guerra tra Giappone e Russia. Nel corso della storia svariati personaggi discutono degli sviluppi del conflitto, dell’imminente successo del paese nella conquista della Manciuria. Questo costante senso di vittoria nazionale che permea la narrazione risulta un processo opposto al fallimento di Hayashi, al punto che il culmine di entrambi avviene nello stesso giorno, quasi come a simboleggiare il passaggio verso un’imminente nuova epoca e l’impossibilità per il giovane di vivere un futuro migliore. Spicca, inoltre, l’uso continuo e quasi fuori luogo da parte dei giovani di vocaboli della lingua inglese quali “Brother”,”Sister”, “Love”, come a indicare la progressiva influenza occidentale sulla nazione.

In conclusione, tramite le sue descrizioni piatte e oggettive, “Il maestro di campagna” ci offre un’immagine del Giappone alla fine del periodo Meiji e uno studio su come le nuove tendenze nazionali arrivano ad influenzare e destabilizzare anche la vita dei singoli.

Recensione di Biagio Furno

Monster – Kore’eda Hirokazu || Recensione

Regia: Kore’eda Hirokazu

Anno: 2023

Durata: 125 minuti

Genere: Drammatico

Attori principali: Sakura Andō, Eita, Mitsuki Takahata, Shido Nakamura, Yuko Tanaka

Kore’eda Hirokazu ritorna con la sua nuova pellicola dal titolo “Monster” (Kaibutsu 怪物), meritatamente premiata alla 76° edizione del Festival di Cannes.

Saori è una mamma single che, purtroppo, comincia ad accorgersi troppo tardi dell’atteggiamento alquanto preoccupante del figlio, Minato. Quest’ultimo, infatti, mostra dei comportamenti autodistruttivi che portano Saori a pensare che debba essere necessariamente successo qualcosa a scuola. Minato confessa, allora, di aver subito degli abusi, sia verbali che fisici, da parte del professor Hori: a sua detta viene strattonato, spinto e accusato di avere “il cervello di un maiale”. Saori decide di farsi avanti a scuola e di voler far assolutamente licenziare il presunto colpevole di questi atti, fino a quando non viene messo in mezzo anche il nome di un altro bambino, Hoshikawa. Ma quale sarà la verità? Esisterà davvero questo colpevole? E qualora esistesse, sarà davvero il professor Hori?

“Monster” mette alla prova lo spettatore fin dall’inizio: capiamo subito che qualcosa non quadra, e siamo portati a diffidare di tutti i personaggi, dal primo all’ultimo. È per questo motivo che è importante conoscere tutte le versioni dei fatti per arrivare alla verità che, come ben sappiamo, sta sempre nel mezzo. I punti di vista presentati, rispettivamente quello di Saori, del professor Hori, e dei due bambini Minato e Hoshikawa, fanno sì che venga messa in atto una sorta di staffetta in cui il ruolo di carnefice passa da un personaggio all’altro. Mentire si rivela essere l’unico modo per impedire che il nostro vero io sia rivelato agli altri.

Concetto ricorrente all’interno della storia è quello della corrispettività tra diversità e mostruosità. Se si è diversi, si è dei mostri. Chi ha il cervello di un maiale, non può essere umano. Ma che cos’è davvero la diversità? Non siamo già tutti diversi? È a queste domande che Hoshikawa ormai ha già risposto da tempo, mentre Minato, pur sapendo qual è la risposta, non trova il coraggio di accettarla. Non possiamo scegliere chi e come essere, e la “malattia” non può essere curata a forza di botte, contrariamente a ciò che crede il padre di Hoshikawa. L’unica risoluzione finale concepibile è che nessuno è un mostro, ma alla fine tutti siamo dei mostri.

“Monster” è una storia piena di paura: paura di se stessi, dei propri sentimenti; paura degli altri e di ciò che potrebbero fare o pensare; paura di scoprire la verità su chi abbiamo di fianco. Ma soprattutto, paura di essere diversi, di essere mostri.

Recensione di Sara Orlando

Yukio Mishima – La via del guerriero || Recensione

Autore: Mishima Yukio

Traduttore: Andrea Maurizi

Editore: Feltrinelli

Edizione: 2023

La Via del guerriero – Introduzione allo Hagakure” è un saggio del 1967 di Mishima Yukio, e per quanto non sia parte della sua produzione più nota, offre un chiaro disegno delle tematiche morali ed estetiche che impregnano i romanzi dell’autore, largamente conosciuti e apprezzati anche fuori dai confini nazionali.

Mishima offre un’interpretazione personale dello Hagakure, testo del XVII secolo che raccoglie aforismi e insegnamenti di Yamamoto Tsunetomo (poi Jōchō), filosofo e guerriero appartenente a un’antica famiglia di samurai del feudo di Nabeshima. Nel fare ciò, Mishima organizza metodicamente i suoi pensieri e i passaggi più salienti dell’opera per argomenti, come amore, morte, tradizione, passione e valore guerriero, sviscerandoli nelle loro contraddizioni e nelle false interpretazioni che ne vengono fatte nella cultura popolare.

Se è vero che Mishima viene spesso criticato da alcuni colleghi per il suo atteggiamento auto-orientalizzante, ovvero il suo dipingere un Giappone reale ma anacronistico ormai parte del passato, in questo saggio l’autore funge da ponte tra Giappone ed Europa. Lo Hagakure non è certo un libro noto in Occidente, ma instaurando paragoni e parallelismi con alcuni pilastri della letteratura e della filosofia classica europea, Mishima avvicina il testo di Yamamoto Tsunetomo a un più ampio pubblico, accorciando l’abisso temporale che separa il lettore moderno dal Giappone feudale.

Mishima legge lo Hagakure in gioventù, e vi trova il suo paradigma morale ed estetico, l’esempio cardine della sua idea di uomo di azione e la guida per una morte, e di conseguenza una vita, valorosa. È dunque intrinseca nel saggio la critica alla società contemporanea a Mishima, un tempo storico a cui questi non sente di appartenere, nei cui valori e costumi non si rispecchia, ed è allora Yamamoto Tsunetomo, samurai vissuto tre secoli prima, a essere eletto come esempio principe di dignità e rispetto.

 “Il libro a cui non avevo mai smesso di fare riferimento doveva essere la fonte della mia etica e lo strumento che mi aveva permesso di accettare la mia gioventù; doveva essere un libro che mi aveva aiutato e tenere insieme la mia solitudine e il mio atteggiamento anacronistico, ma doveva anche essere un libro che la società aveva messo al bando. E lo Hagakure rispondeva a tutti questi requisiti.”