Yukio Mishima – La via del guerriero || Recensione

Autore: Mishima Yukio

Traduttore: Andrea Maurizi

Editore: Feltrinelli

Edizione: 2023

La Via del guerriero – Introduzione allo Hagakure” è un saggio del 1967 di Mishima Yukio, e per quanto non sia parte della sua produzione più nota, offre un chiaro disegno delle tematiche morali ed estetiche che impregnano i romanzi dell’autore, largamente conosciuti e apprezzati anche fuori dai confini nazionali.

Mishima offre un’interpretazione personale dello Hagakure, testo del XVII secolo che raccoglie aforismi e insegnamenti di Yamamoto Tsunetomo (poi Jōchō), filosofo e guerriero appartenente a un’antica famiglia di samurai del feudo di Nabeshima. Nel fare ciò, Mishima organizza metodicamente i suoi pensieri e i passaggi più salienti dell’opera per argomenti, come amore, morte, tradizione, passione e valore guerriero, sviscerandoli nelle loro contraddizioni e nelle false interpretazioni che ne vengono fatte nella cultura popolare.

Se è vero che Mishima viene spesso criticato da alcuni colleghi per il suo atteggiamento auto-orientalizzante, ovvero il suo dipingere un Giappone reale ma anacronistico ormai parte del passato, in questo saggio l’autore funge da ponte tra Giappone ed Europa. Lo Hagakure non è certo un libro noto in Occidente, ma instaurando paragoni e parallelismi con alcuni pilastri della letteratura e della filosofia classica europea, Mishima avvicina il testo di Yamamoto Tsunetomo a un più ampio pubblico, accorciando l’abisso temporale che separa il lettore moderno dal Giappone feudale.

Mishima legge lo Hagakure in gioventù, e vi trova il suo paradigma morale ed estetico, l’esempio cardine della sua idea di uomo di azione e la guida per una morte, e di conseguenza una vita, valorosa. È dunque intrinseca nel saggio la critica alla società contemporanea a Mishima, un tempo storico a cui questi non sente di appartenere, nei cui valori e costumi non si rispecchia, ed è allora Yamamoto Tsunetomo, samurai vissuto tre secoli prima, a essere eletto come esempio principe di dignità e rispetto.

 “Il libro a cui non avevo mai smesso di fare riferimento doveva essere la fonte della mia etica e lo strumento che mi aveva permesso di accettare la mia gioventù; doveva essere un libro che mi aveva aiutato e tenere insieme la mia solitudine e il mio atteggiamento anacronistico, ma doveva anche essere un libro che la società aveva messo al bando. E lo Hagakure rispondeva a tutti questi requisiti.”

I casi del detective Aoyama – Ōsaka Keikichi || Recensione

Autore: Ōsaka Keikichi

Traduzione e curatela: Sara Saventi

Editore: Luni Editrice

Edizione: 2024

Per la prima volta edito in Italia, esce per la collana Arcipelago Giappone “I casi del detective Aoyama”, una raccolta di racconti gialli di Ōsaka Keikichi, scrittore della prima metà del Novecento e tassello imprescindibile della storia del poliziesco giapponese.

A legare i racconti è, come da titolo, la figura di Aoyama Kyōsuke: brillante investigatore le cui conoscenze sembrano spaziare ogni campo scientifico, capace di analizzare al microscopio la scena del crimine e risolvere il caso più intricato senza concedersi il minimo margine di errore.

I racconti proposti seguono l’originale ordine di pubblicazione e i casi affrontati dal detective si fanno gradualmente più complessi, offrendo uno spaccato della produzione più caratteristica di Ōsaka Keikichi, purtroppo poco conosciuto anche in patria. Ōsaka segue la scuola Doyle (tanto che cita direttamente la sua creazione più famosa, Sherlock Holmes), imperniando i suoi racconti sulla deduzione logica, l’indagine tramite indizi, le prove tangibili del crimine. In “Il boia dei grandi magazzini”, il primo episodio della raccolta, è Aoyama stesso ad affermare:

“Va bene ricercare il movente, è ovvio, ma vorrei oppormi alle menti semplicistiche e mediocri che si ostinano a ritenere tale prassi l’unico strumento a disposizione nell’investigazione di un crimine.”

L’infallibilità e la prontezza con cui Aoyama viene a capo di ogni apparentemente insolvibile enigma spiazza non solo il lettore, ma in primis gli altri personaggi coinvolti nelle vicende, che non possono in alcun modo reggere il confronto con il detective. È questa sicurezza e talvolta spavalderia che conferisce al personaggio un certo fascino, e l’invidia si unisce all’ammirazione. Il narratore di turno si trova sempre a seguire in silenzio Aoyama, e anche quando ha delle intuizioni corrette è comunque sempre un passo indietro rispetto all’infallibile detective, che allora gli sorride e procede a snocciolare un’analisi degli indizi raccolti decisamente più puntuale.

A fare da padrone ne “I racconti del detective Aoyama” non è solamente il nostro protagonista, ma anche la varietà di ambientazioni in cui questo si muove. Così facendo Ōsaka mostra un certo gusto realista, ritraendo le realtà del Giappone a lui contemporaneo. Come sfondo per le vicende sceglie ora un cantiere navale o una stazione ferroviaria, ora un tribunale. L’intreccio dei racconti è semplice ma mai banale, e nel caso c’è sempre un risvolto imprevedibile che solo Aoyama è in grado di decifrare e smascherare, per giungere alla sua risoluzione. È questa la freschezza nella scrittura di Ōsaka Keikichi che rimane intatta tutt’oggi, nonostante i quasi cento anni che ci separano da lui.

Recensione di Elena Angelucci

Tokyo Sonata – Kurosawa Kiyoshi || Recensione

Regia: Kurosawa Kiyoshi

Anno: 2008

Durata: 121 minuti

Genere: Drammatico

Attori principali: Kagawa Teruyuki, Koizumi Kyōko, Yakusho Kōji

Film di maggiore successo dell’ormai consolidato regista Giapponese, “Tokyo Sonata” è un’avvincente esplorazione delle difficoltà vissute all’interno di una famiglia giapponese contemporanea e del suo progressivo sgretolamento. Il film approfondisce la complessità delle relazioni familiari, delle aspettative sociali e della ricerca della realizzazione personale.

Nella pellicola, seguiamo appunto le vicende della famiglia Sasaki, una famiglia di media classe composta da Ryūhei e Megumi, rispettivamente padre e madre di due figli, Takashi e Kenji.
Il nucleo familiare è immerso in un contesto il quanto più possibile capitalista: Ryūhei, padre e patriarca, si impone all’interno delle mura domestiche in maniera autorevole, ignorando le esigenze e le emozioni della propria moglie e dei propri figli; Megumi, nonostante le buone intenzioni non riesce a scrollarsi di dosso il ruolo sottomissivo che un matrimonio fondato puramente su basi opportunistiche le ha conferito, finendo per assecondare passivamente il fare del marito; i figli Kenji e Takashi, nonostante una buona capacità nel comportarsi educatamente a casa, finiscono per riversare poi all’esterno le ribellioni causate dalle svariate iniziative stroncate dal proprio padre.

Il film si apre con il licenziamento di Ryūhei dall’ufficio per cui ha lavorato per diversi anni. Questo evento sarà la singola goccia che romperà l’equilibrio di una famiglia all’apparenza normale.
Ryūhei infatti, incapace di mostrare il proprio fallimento e allo stesso tempo di accettare un’offerta di lavoro qualitativamente inferiore, fingerà di non essere mai stato licenziato, anche grazie all’aiuto di un suo amico di liceo, anch’esso disoccupato e finendo per vivere quasi una vita parallela alle spalle della famiglia.
Anche Kenji, figlio minore, inizia a seguire segretamente lezioni di piano, nonostante un categorico divieto del padre.
Takashi, il figlio maggiore vive dissociandosi dalla propria famiglia ed è quasi sempre fuori casa, nascondendo dentro di sé una grande insoddisfazione e incertezza nei confronti della vita.
Megumi, nonostante sia cosciente che il suo ruolo in quanto madre e moglie è quello di tenere unita la famiglia, non riesce comunque a trovare la forza necessaria per superare questi avvenimenti e finisce per scappare.
Questa serie di bugie e cose non dette finiscono progressivamente per sovrapporsi l’una sull’altra, culminando nel fallimento personale dei personaggi e nella conseguente dissoluzione della famiglia.

In seguito a svariati eventi che portano ogni singolo membro a vivere un’esperienza che lo porta a vivere il picco della propria inquietudine esistenziale, decidono alla fine comunque tutti di tornare nella propria casa, con un’iconica scena che mostra il solito pasto svolto nel totale silenzio, incapaci di comunicare e finendo col nascondere ancora una volta il proprio malessere.

L’esplorazione dell’identità, dell’impatto delle difficoltà economiche e della ricerca di uno scopo individuale nel film risuona universalmente, rendendolo un commento toccante sulla condizione umana. L’abilità di Kurosawa di fondere commenti sociali e drammi familiari intimi si traduce in un film che resta nella mente dello spettatore, invitandolo a riflettere sulle complessità della vita moderna e sulla ricerca della realizzazione personale.

Our hope – Hitsujibungaku || Recensione

Hitsujibungaku è un trio indie rock fondato a Tokyo nel 2011. Inizialmente costituito da cinque membri, il gruppo inizia la sua carriera realizzando cover di altre band, per poi cominciare a scrivere materiale originale ed esibirsi durante i primi anni di liceo. Attualmente il trio è costituito da Shiotsuka Moeka, cantante, Kasai Yurika al basso e Fukuda Hiroa alla batteria. La parola bungaku nel nome sta a indicare l’importanza del testo nella musica della band; un lirismo delicato ma allo stesso tempo d’impatto, accompagnato da una musica che sa essere dolce e incisiva quando necessario, costituisce l’elemento distintivo dello stile di Hitsujibungaku.                              

Questa caratteristica emerge in particolar modo nel loro terzo album, our hope, che presenta influenza indie rock, dream pop e shoegaze. L’album si apre con hopi, in cui la voce della cantante e i cori, accompagnati da una chitarra riverberata e nostalgica, danno vita a un’atmosfera quasi sognante, resa ancora più suggestiva da un testo altrettanto evocativo.                                                                                                                      

 A seguire Hikarutoki (光る時), una delle tracce più rappresentative dei temi principali e del sound del disco: la voce cristallina di Shiotsuka Moeka è arricchita da armonizzazioni incisive e da una batteria che si mantiene inizialmente stabile e costante ma che cambia tempo nel ritornello, rilasciando l’aspettativa creatasi nella prima strofa ed esprimendo così in modo molto efficace il messaggio della canzone: il testo invita l’ascoltatore ad avere speranza nel futuro nonostante le avversità, poiché la bellezza della vita risiede proprio nella capacità dell’essere umano di poter fiorire di nuovo nonostante le intemperie. Il momento di splendore a cui fa riferimento il titolo può essere raggiunto affrontando la vita di petto senza farsi ostacolare dalla paura del futuro.                                                                                                                            

Un tema molto simile viene trattato nella quarta traccia, Mayoiga (マヨイガ), caratterizzata da un sound più oscuro dovuto alla presenza di una chitarra e un basso più intensi. La cantante sembra parlare direttamente all’ascoltatore, sottolineando l’importanza di agire per il proprio futuro, poiché la ricompensa di tale impegno ha un valore inestimabile. Allo stesso tempo, dobbiamo dare a noi stessi la possibilità di essere vulnerabili e dare sfogo alla nostra tristezza nei momenti più duri.                                   

our hope vuole ricordarci che ognuno di noi ha il potere di cambiare la propria vita e di costruire una realtà in cui splendere senza paura. L’album è un invito alla resilienza e alla speranza, a compiere piccoli miracoli apparentemente insignificanti ma che hanno il potere di mostrarci chi siamo davvero e il nostro potenziale; il tutto è incorniciato da un’atmosfera intima ed energetica allo stesso tempo, capace di mettere in luce le nostre paure più profonde ma anche di incoraggiarci ad agire per sconfiggerle.

Recensione di Francesca Marinelli

Il paese dei suicidi – Yū Miri || Recensione

Autrice: Yū Miri

Traduttrice: Laura Solimando

Editore: Atmosphere Libri

Edizione: 2020

Per lei era finita. La vita, però, andava avanti.

“Il paese dei suicidi” di Yū Miri è un romanzo che inizia con la fine. Tutto ciò che poteva accadere di felice nella vita della protagonista è già successo, non resta che vuoto e inadeguatezza.

Mone è un’adolescente all’inizio delle scuole superiori ed è del tutto chiusa in se stessa. Il rapporto con i genitori è praticamente inesistente. Il padre ha un’amante e la madre ne è consapevole, per questo ha in piano di fuggire insieme al figlio favorito, Satoshi. Anche a scuola la situazione non è migliore. Mone ha sì un gruppo di amiche con cui passare i pomeriggi, ma si può parlare di amicizia se il rapporto si basa unicamente sulla ricerca continua dell’approvazione della leader? Tra discussioni frivole su quale cibo sia più alla moda e quale colore sia più di tendenza, Mone cerca di restare a galla, perché essere tagliata fuori dal gruppo significa diventare invisibile anche per il resto della scuola.

Mone vuole morire.

Il romanzo si apre con un thread di un blog dedicato a chi, come lei, vuole togliersi la vita.

Su questo sito, non è difficile per Mone trovare un gruppo di persone con cui organizzarsi per suicidarsi insieme.

“Il paese dei suicidi” scaturisce indubbiamente dall’esperienza personale dell’autrice. Yū Miri, infatti, è stata soggetta a bullismo così forte a causa delle sue origini coreane da tentare il suicidio numerose volte in giovane età. È ben evidente la carica critica alla società giapponese, che emargina il singolo al punto che anche nell’atto estremo del suicidio si sente la necessità di trovare dei compagni sconosciuti, per non gravare su familiari e amici con i propri disturbi.

Tra la negligenza dei genitori e le amicizie fasulle a scuola, l’unica strada percorribile secondo Mone è quella del suicidio.

Purtroppo il personaggio di Mone non è indagato in maniera ottimale, sembra più un guscio vuoto che vuole contenere in poche pagine un’esperienza di vita assai più complessa. Ne consegue una narrazione a tratti impersonale e quasi superficiale, fermo restando che l’apatia è uno dei sintomi depressivi che più si evidenzia nella giovane protagonista.

Tuttavia a lettura terminata la mente del lettore resta affollata di immagini vivide, difficili da dimenticare, per quanto il contesto dato dal romanzo possa risultare scarno. Mone davanti ai binari del treno con la sua divisa scolastica; la luce calda e infuocata nella macchina in cui il gruppo ha deciso di suicidarsi; l’amato peluche di Mone, l’unico che l’ha vista piangere.

Sono sempre le percezioni di Mone a rendere la morte, prima un’idea lontana quasi fosse un sogno, un’esperienza improvvisamente concreta, che sembra addirittura di poter toccare con mano.

Conoscendo il mondo di Mone unicamente tramite le sue parole e i suoi sensi, più che le descrizioni sono i suoni a rendere vive le ambientazioni e l’atmosfera del romanzo. Siamo inondati dalle onomatopee del treno che sfreccia sui binari, le stazioni annunciate all’altoparlante, e il chiacchiericcio ovattato delle altre studentesse che intervallano i pensieri di Mone.

Tutti rumori di un mondo che non le appartiene e al quale lei non sente di appartenere.

Elena Angelucci

Sakamoto Ryuichi – A thousand Knives || Recensione

Sakamoto Ryuichi è un musicista particolarmente conosciuto per essere stato compositore di colonne sonore di diversi film degni di nota, lavorando al fianco di registi di fama internazionale, tra i quali figurano specialmente Ōshima Nagisa e Bernardo Bertolucci. L’ultima colonna sonora è stata composta per “Kaibutsu” di Kore’eda Hirokazu, film del 2023, anno in cui il musicista è venuto a mancare. Sakamoto presenta però alle spalle una carriera musicale ben più ampia ed è noto ai cultori del campo per essere stato uno dei pionieri della musica elettronica. Questo suo lato è visibile in maniera più chiara nei suoi lavori nella band “Yellow Magic Orchestra” e nei suoi progetti da solista ed è proprio per questo che oggi andremo ad approfondire il suo primo EP “A Thousand Knives”.

Pubblicato nel 1978, “A Thousand Knives” (千のナイフ)segna il debutto solista di Sakamoto e mostra il suo approccio pionieristico alla composizione e alla progettazione del suono. L’album inizia dal brano omonimo, “Thousand Knives”, aperto da una voce robotica fatta di suoni poco intellegibili. Subito a seguire un abile intreccio di strati di suoni sintetizzati che creano un paesaggio sonoro molto futuristico, culminante in un deciso assolo di chitarra. L’uso dei sintetizzatori era ancora relativamente nuovo all’epoca e l’uso innovativo di questa tecnologia da parte di Sakamoto stabilisce un nuovo standard per la musica elettronica.

 In brani come “Grasshoppers” viene messa in mostra la formazione classica di Sakamoto e la sua capacità di integrare elementi tradizionali ed elettronici anche a rischio di ottenere risultati contraddittori. Si evince anche la chiara voglia di incastrare melodie tradizionali asiatiche in questa già grande commistione di generi, come avviene in “Das Neue Japanische Elektronische Volkslied” e “The end of Asia”.

L’album sfida le nozioni convenzionali di genere e stile, mescolando elementi di musica elettronica, jazz e classica. Ciò che ne risulta è un’opera fondamentale che ha gettato le basi per l’evoluzione della musica elettronica. L’approccio visionario alla composizione e la curiosità testarda con la quale Sakamoto abbraccia nuove tecnologie hanno lasciato un segno indelebile nel mondo della musica. Questo album rimane una testimonianza del suo spirito sperimentale e resiste sicuramente alla prova del tempo.