Una notte di novembre viene rinvenuto il cadavere di un noto e stimato avvocato. Steso nei sedili posteriori della propria macchina parcheggiata in un via chiusa al traffico, ha il coltello ancora conficcato nel ventre. Per gli investigatori non è difficile individuare il colpevole, specialmente perché è lui stesso che, dopo una prima esitazione, confessa il crimine commesso. Eppure qualcosa non torna: è tutto troppo semplice, e la polizia sembra non notare, forse di proposito, alcuni dettagli. Mentre le autorità giuridiche premono per un processo e una rapida risoluzione del problema, Mirei, figlia della vittima, e Kazuma, figlio del reo confesso, oppongono resistenza.
Sono loro le figure centrali del romanzo: due ragazzi inaspettatamente legati da un’empatia reciproca, tanto diversi nei modi e nel carattere, quanto uniti nel comune obiettivo di far luce sugli eventi che li coinvolgono. Decisi a districare i segreti che le rispettive famiglie hanno celato loro per trent’anni, vogliono entrambi la verità, consapevoli dei pericoli che questa comporta. Higashino Keigo dedica il titolo originale del romanzo proprio a loro, battezzandolo “Hakuchō to koumori” (白鳥とコウモリ), ovvero “Il cigno e il pipistrello”.
“Proprio non mi riesce di capirli” replicò Nakamachi inghiottendo un po’ di tofu. “Sono come la luce e le tenebre, il giorno e la notte. Pensa se un cigno e un pipistrello si mettessero a volare in cielo insieme.”
Se da un lato abbiamo Kazuma, timido, riservato, che dubita di avere il diritto di contestare l’arresto del padre, dall’altro abbiamo Mirei, caparbia e determinata, che sin da subito rompe i confini del suo ruolo di “parte offesa”. Quando lui tentenna, lei procede a passo deciso. Dove la voce di lui è flebile e sommessa, quella di lei risuona severa e risoluta.
Il volto della ragazza sembrò farsi teso. Era come se si fosse ricordata solo in quel momento che il ragazzo dinanzi a lei era il figlio dell’imputato.
“Se non si fa nulla, l’udienza procederà su questa linea e nessuno metterà in dubbio la ricostruzione degli avvenimenti” riprese Kazuma distogliendo lo sguardo. “Se il colpevole è davvero mio padre, può anche andare bene così, dopotutto…”
“No che non andrebbe bene!” Il tono di voce di Mirei si fece di nuovo severo. “Io voglio sapere la verità, serve a questo l’udienza.”
Le indagini procedono dunque su due fronti diversi: le ricerche dell’ispettore Godai, e le ricerche clandestine dei due giovani. Alternando nei capitoli i punti di vista dei tre personaggi, Higashino Keigo offre una narrazione che scorre come un fiume in piena, coinvolgendo il lettore nello sviluppo graduale e costante delle indagini. Complici della prosa naturale e diretta sono senza dubbio i dialoghi, che colorano le pagine del romanzo e rendono immersiva l’esperienza di lettura.
Maestro del racconto giallo, in “Delitto a Tokyo” Higashino Keigo miscela alla perfezione l’intrigo del mistero a dialoghi di personaggi sfaccettati, che si rivelano essere l’esatto opposto di ciò che ci si sarebbe aspettato. Ne risulta un romanzo che cattura inevitabilmente l’attenzione del lettore e tiene stretta la presa fino all’ultima pagina, fino all’ultimo risvolto di trama.
“La buca” è il secondo romanzo della scrittrice Hiroko Oyamada, vincitore nel 2013 del prestigioso Premio Akutagawa. Asa decide di lasciare Tokyo e il suo stressante lavoro a contratto per trasferirsi insieme al marito nella zona di periferia in cui è cresciuto. La protagonista si ritroverà catapultata in una realtà diametralmente opposta a quella a cui era abituata: se prima la sua vita era scandita dai ritmi intensi e dalla frenesia della metropoli, adesso la quiete quasi innaturale della campagna e il frastuono delle cicale fanno da sfondo a giornate lunghe e monotone.
L’apparente normalità di questo villaggio sperduto inizia a crollare quando Asa incontra sul suo cammino una creatura dal pelo nero e folto, che non sembra assomigliare ad alcuna specie animale esistente. Come l’Alice del Paese delle Meraviglie, la protagonista si ritrova a seguire questo inquietante Bianconiglio per poi precipitare nella sua tana, un antro scavato nella terra lungo il margine di un fiume e che sembra essere stato realizzato a sua misura, in attesa che lei ci finisca dentro.
La tana in cui cade la protagonista non conduce però a mondi popolati da creature fantastiche, ma a una consapevolezza più profonda della realtà alienante in cui l’individuo è costretto a vivere; la buca potrebbe allora rappresentare il ruolo imposto su di noi dalla società, una prigione di erba e fango che impedisce qualsiasi forma di cambiamento, o forse non è altro che una discarica in cui gettare coloro che non hanno voluto o non sono stati in grado di accettare il posto nel mondo che è stato scelto per loro, mentre il fiume del tempo scorre inesorabile di fronte ai loro occhi.
Da questo momento in poi Asa inizierà a conoscere gli abitanti del villaggio e le loro usanze bizzarre; riti dall’effetto straniante e apparentemente privi di significato costituiscono le dinamiche sociali di questo microcosmo immerso in un’atmosfera onirica ma allo stesso tempo estremamente sensoriale. Ben presto la protagonista scoprirà che anche suo marito e la sua famiglia nascondono qualcosa di sinistro dietro una facciata di apparente normalità e perfezione. Il mondo descritto ne “La buca” è lo specchio della nostra società: l’assurdità che la caratterizza viene portata all’estremo, al punto tale da sembrare di trovarsi quasi su un altro pianeta, ma su ogni pagina c’è il riflesso limpido del nostro mondo e della parte più nascosta di noi stessi.
“The Last 10 Years”, con titolo originale 余命10年 (Yomei Jū Nen), è una pellicola del 2022 di Michihito Fuiji, regista conosciuto per film come “The Journalist” e “Ao no Kaerimichi”.
Si tratta della storia di Matsuri Takabayashi, una ragazza affetta da una grave forma di malattia polmonare a causa della quale le rimangono dieci anni di vita. Dopo essere stata dimessa dall’ospedale, si ritrova a dover affrontare la vita da adulta che per tanto tempo non ha conosciuto. Una sera, viene invitata da delle amiche di vecchia data a una rimpatriata con la classe delle scuole medie e qui incontra Kazuto Manabe. Kazuto vive una situazione complicata: la sua famiglia non vuole avere nulla a che fare con lui, e dopo essere stato licenziato per l’ennesima volta, tenta il suicidio. Tramite questo evento comincia prima un’amicizia e poi una storia d’amore speciale, sempre vissuta in modo più profondo da parte di Kazuto, che all’inizio non viene messo al corrente da Matsuri della sua malattia.
Per tanto tempo la protagonista è stata consapevole che un giorno sarebbe semplicemente scomparsa, e ormai l’idea non la spaventa più. Una ragazza rassegnata davanti alla morte e un ragazzo rassegnato davanti alla vita: questo è ciò che ci viene inizialmente presentato di Matsuri e Kazuto. O almeno, questo è quello che sono fino a quando non si incontrano, aprendosi a un nuovo capitolo nel racconto. La loro convergenza fa sì che uno rappresenti la ragione di esistere dell’altro, ciò che li rende capaci di prendere la loro vita in mano e di plasmarla in qualcosa di nuovo e bellissimo. Si spingono l’un l’altro a migliorare costantemente, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista lavorativo e dell’auto-realizzazione. Questi sentimenti provocano paura, perché rappresentano la prova vivente che entrambi, adesso, hanno qualcosa da perdere. Ma anche se sanno che non potranno rimanere insieme per sempre come tutte le coppie felici, sfruttano al massimo il tempo che hanno. Il film racconta una commovente storia d’amore che, però, non può fare a meno di aver come sottofondo storie di amicizia e di famiglia. Senza queste altre due componenti a farle da sostegno costante, Matsuri non potrebbe vivere la sua vita con la leggerezza che la caratterizza malgrado la sua malattia.
È interessante come per tutto il film la ragazza si impegni a riprendere con la sua videocamera ogni ricordo per lei importante; si tratta di un modo per rimanere per sempre nello stesso istante, per guadagnare un tempo che lei sa di non avere, per poter vivere se non nel futuro, almeno nel passato. Nonostante le tematiche trattate siano forti, la pellicola riesce ad esporle con dolcezza e a provocare nello spettatore un forte senso di nostalgia e di speranza, che riflette quella voglia di vivere e di poter sperimentare ancora la vita di Matsuri, che finalmente, grazie a Kazuto, ha ritrovato.
“Quando il cielo piove di indifferenza” (無情の神が舞い降りる) è un romanzo di Shiga Izumi, pubblicato nel 2017.
La storia si sviluppa all’interno del primo mese dal triplice disastro di Fukushima. Yoshida Yōhei è uno scapolo quarantenne che ha vissuto il disastro della centrale di Fukushima. Il suo villaggio, dal quale non si vuole allontanare, si trova entro un raggio di 20 km dalla centrale. Nonostante l’esortazione ad evacuare come tutti gli altri residenti, decide di rimanere nella sua casa insieme alla madre, rimasta disabile in seguito ad un ictus. Yōhei non la vuole spostare per via delle sue gravi condizioni ed è convinto che se evacuasse lui stesso diventerebbe la causa della sua morte.
Nonostante le radiazioni, la sera fa spesso una passeggiata fuori casa, di solito in direzione della casa di una sua amica delle elementari, Yasaka Misuzu, morta per un incidente del quale lui si sente responsabile: i due bambini stavano inseguendo il pavone dell’amica che Yōhei stesso aveva liberato.
Durante una di queste passeggiate, dove entrata nel giardino della casa dell’amica d’infanzia, incontra una volontaria di recupero gatti, randagi o dispersi dai padroni durante l’evacuazione, Mimura Reiko, alla quale racconta di stare soccorrendo il labrador nero che è legato nel pollaio dentro al giardino.
Pochi giorni dopo il loro primo incontro, si rincontrano casualmente in un “conbini” e decidono di prendere un caffè. Questo rivela all’uomo che ha bisogno del contatto umano, in quanto si trova solo a curare la madre in stato vegetativo. La freddezza con cui viene trattato dalla ragazza, gli fa criticare i volontari come lei, che hanno più a cuore la salvezza degli animali piuttosto che degli esseri umani.
Alla morte della madre saranno solo il figlio e Reiko ad assistere al funerale, ma sarà per Yōhei motivo per rimettersi in carreggiata: il funerale diventa il tasto di reset, il primo evento quotidiano dal fallout nucleare che gli fa prendere la decisione di allontanarsi finalmente dal suo villaggio, al quale è legato ma che non lo porta a nulla di fatto, per andarsene a Tokyo. Per via dell’opportunità che gli dà, la sua morte viene presa con un senso di sollievo, ma anche con colpa perché è un sentimento che non si dovrebbe provare nei confronti della dipartita di un genitore. Lui la accudiva ma non per amore filiale, ma perché era come se la dovesse ripagare del fatto di averlo fatto nascere. Inoltre prova dei sentimenti contrastanti per la madre. Per tutta la vita l’ha accusata di non essersi interessata della morte di Misuzu, di non averla pianta.
Nonostante l’incidente nucleare sia lo sfondo della nuova quotidianità di Yōhei, è molto forte la sua presenza. Il nucleare stesso viene paragonato al pavone, maestoso, ma che man mano che abbellisce il suo piumaggio per attrarre le femmine, va incontro a tanti pericoli: prima di tutto diventa più visibile da parte dei predatori. Lo stesso è il nucleare, che provoca disastri in nome del progresso tecnologico.
Shiga Izumi esprime il suo dissenso nei confronti dell’uso del nucleare fin dalle primissime pagine del romanzo, quando affianca Fukushima non solo ai più grandi incidenti nucleari come Three Mile Island o Chernobyl, ma anche ai più grandi errori dell’uso del nucleare, ovvero Hiroshima e Nagasaki. Fukushima è come un nuovo bombardamento, che provoca di nuovo disagio sociale per coloro che erano nei dintorni della centrale nucleare al momento dell’esplosione, trattati di nuovo come gli hibakusha dei due bombardamenti.
Le conseguenze sociali del disastro nucleare sono il tema principale anche del secondo racconto contenuto nella stessa edizione: “La mia sedia vuota” (私のいない椅子).
Itō Kana è una ragazza delle superiori costretta ad abbandonare la sua città sul mare per rifugiarsi dietro alla catena montuosa che si trova alle spalle.
La narrazione della storia principale, ovvero la realizzazione di un film di studenti liceali di cui Kana dovrebbe svolgere il ruolo di protagonista, si alterna ai ricordi della ragazza al momento del disastro: ha perso entrambi i nonni materni per colpa dello tsunami, è stata sfollata per giorni insieme alla madre in una palestra finché la zia, la sorella materna, non se n’è presa carico e l’ha portata oltre catena montuosa.
Il padre è stato spostato in un’altra centrale e la madre è rimasta sconvolta dal disastro, rendendola incapace di qualsiasi reazione. Kana risponde a questa mancanza di reazione da parte della madre con la rabbia e il completo distacco.
La catena montuosa diventa per la ragazza un limite visivo insopportabile: vuole vedere il mare, nonostante sia stato la causa di tutto quello che sta passando. Sarà proprio la sua voglia di vedere l’oceano a dare inizio al progetto del film del laboratorio di fotografia, che verrà proiettato nelle sale cinematografiche di tutto il Giappone, a testimonianza del disagio provato da tutti gli sfollati.
A fare da tutore agli studenti, è il regista di film horror Koguma Yasuo, col quale Kana instaurerà un rapporto particolare.
Sarà l’atteggiamento scostante della protagonista e un incidente di natura conflittuale durante un giorno di riprese a far sì che la ragazza venga espulsa definitivamente dal progetto. Accanto a lei, rimarranno solo la zia e Akimoto Akio, anche lui sfollato. È proprio per la loro natura di sfollati che i due ragazzi legano molto, messi da parte dagli studenti che invece non hanno subito direttamente le conseguenze del triplice disastro.
Essendo stata il motivo di slancio alla produzione del film e dovendone essere la protagonista, era convinta che quello fosse il suo film, non realizzando che doveva essere un esempio della vita condivisa da tutti gli evacuati.
Attraverso atteggiamenti, pensieri e discussioni con Akio, sembra che Kana voglia sabotare la prima del film, ma alla fine, farà solo quello che ha portato alla conclusione del progetto: vedrà il mare e riinstaurerà legami umani.
“Diventare Ninagawa Mika”, autobiografia della celebre fotografa, è arrivato in Italia il 3 novembre 2023 edito da Cuepress, tradotto da Corrado Cucchi e curato da Roberta Novielli e Francesco Vitucci.
In questo volume, Ninagawa Mika ripercorre le tappe più significative della sua carriera da fotografa e in seguito da regista, arricchendole di aneddoti, riflessioni a posteriori, ed episodi apparentemente triviali ma che sommati l’uno all’altro tratteggiano i contorni di una personalità così colorata e luminosa quando immortalata in una fotografia, ma che affonda le sue radici anche in ispirazioni e influssi di tutt’altro genere. Ninagawa Mika esplora e ci racconta il suo passato a partire dall’infanzia, dalle prime immagini che hanno colpito la sua fantasia, i primi approcci alla creazione artistica e gli input che in maniera conscia o inconscia hanno plasmato la sua persona nel corso degli anni e le hanno permesso di “diventare Ninagawa Mika”.
“Altri fotografi avranno avuto carriere simili alla mia, ma penso che il fattore fondamentale sia sempre il grado di riconoscibilità. Qualsiasi sia il set fotografico, e chiunque sia il fotografo, la differenza sta interamente in questo aspetto.”
L’autobiografia non si dilunga in spiegazioni tecniche di ambito fotografico o registico, né si addentra in approfondimenti della vita privata dell’autrice: le due sfere si combinano e si bilanciano l’un l’altra in un equilibrio che Ninagawa stessa afferma essere il suo obiettivo nel lavoro e nelle relazioni interpersonali. Di conseguenza, gli aneddoti e le esperienze che l’autrice riporta fluiscono con naturalezza, quasi seguissero il ritmo spontaneo di una conversazione. È così che ci confida le sue insicurezze, ciò che reputa importante sul set e nella vita, e ci racconta le sfide più impegnative, senza mai perdere l’amore per la fotografia, l’arte tramite cui ha trovato se stessa.
“Nessuno poteva dirmi cosa fosse o cosa non fosse la fotografia, perché essa costituiva un mio privato santuario. E quel santuario rispondeva soltanto a ciò che sentivo io. Per questo, ero decisa a non ricevere insegnamenti e a non imparare da nessuno. La mia scelta non fu dettata unicamente dal mio desiderio di libertà, ma penso abbia avuto a che fare con la volontà di preservare la miaoriginalità.”
Ricordiamo che l’opera verrà presentata giovedì 23 novembre presso l’Odeon Gallery di Bologna (Via Mascarella 3)
“Little Sister”, con titolo originale “Umimachi Diary”, è un film del famosissimo Kore’eda Hirokazu basato sull’omonimo manga di Akimi Yoshida.
Le tre sorelle Sashi, Yoshino e Chika, abbandonate ormai da 15 anni da entrambi i genitori, hanno imparato a vivere tranquillamente e in autonomia nella loro casa di famiglia a Kamakura. Questo equilibrio si scioglie quando ricevono un invito per il funerale del padre, che si era creato una nuova famiglia in un’altra città. Le sorelle si recano (più per dovere che per affetto) alla cerimonia, e qui incontrano la loro sorellastra, figlia del padre e dell’amante che rovinò il rapporto dei loro genitori, Suzu. Immediatamente Sashi, la sorella maggiore e colei che si è presa cura per tutti quegli anni delle due sorelle minori, sente di avere un’affinità particolare con la ragazzina. Anche Suzu, nel vedere da fuori il rapporto che le tre sorelle hanno e che lei essendo cresciuta da sola non ha mai avuto, vorrebbe costruire un legame con loro. Per questo motivo, Sashi sente di voler liberare Suzu da quella cittadina in cui ormai non restava più niente per lei, e la invita a vivere con loro a Kamakura. Da qui comincia la storia delle, ora, quattro sorelle.
Il tema principale è, ovviamente, quello della famiglia, in particolare della sorellanza. L’unicità della pellicola sta nella delicatezza e nella sensibilità con cui Kore’eda si addentra in questa storia: ci viene mostrata una visione sorprendentemente ottimista che colpisce come una ventata di aria fresca; non si tratta del ritratto di un dramma familiare che ci aspetteremmo, anzi, viene a mancare proprio quello scontro generazionale che fa sì che i componenti della famiglia vadano via via allontanandosi per poi ritrovarsi alla fine. Suzu viene subito inglobata all’interno del meccanismo familiare nonostante i dubbi e le incertezze che la sua infanzia le ha lasciato, e la sua somiglianza con Sashi fa sì che quest’ultima riservi delle premure esclusive nei suoi confronti. L’ambiente-casa risulta essere il luogo sicuro, in cui le sorelle non possono essere separate da niente e nessuno, ed è quando si fuoriesce da questo che le situazioni si complicano. In questo senso, sono presenti dei fattori esterni che spesso vanno a intaccare, ma mai gravemente, il rapporto delle sorelle: delusioni amorose, lavorative, disaccordi su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Le quattro sorelle, che rappresentano anche quattro modi di essere, sono semplicemente donne che si amano l’un l’altra nonostante i rispettivi difetti.
La regia di Kore’eda ci catapulta nella loro intimità, ci fa sentire parte di questo rapporto speciale. L’andamento calmo e privo di straordinarietà fa sì che il film sia il riquadro della quotidianità, e soprattutto ci dimostra che una storia non deve essere un susseguirsi di eventi drammatici o sbalorditivi per considerarla degna di essere raccontata.
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