Hiroko Oyamada – La Buca || Recensione

Autore: Hiroko Oyamada

Editore: Neri Pozza

Traduzione: Gianluca Coci

Edizione: 2022

“La buca” è il secondo romanzo della scrittrice Hiroko Oyamada, vincitore nel 2013 del prestigioso Premio Akutagawa.                                                                                 
Asa decide di lasciare Tokyo e il suo stressante lavoro a contratto per trasferirsi insieme al marito nella zona di periferia in cui è cresciuto. La protagonista si ritroverà catapultata in una realtà diametralmente opposta a quella a cui era abituata: se prima la sua vita era scandita dai ritmi intensi e dalla frenesia della metropoli, adesso la quiete quasi innaturale della campagna e il frastuono delle cicale fanno da sfondo a giornate lunghe e monotone.         

L’apparente normalità di questo villaggio sperduto inizia a crollare quando Asa incontra sul suo cammino una creatura dal pelo nero e folto, che non sembra assomigliare ad alcuna specie animale esistente. Come l’Alice del Paese delle Meraviglie, la protagonista si ritrova a seguire questo inquietante Bianconiglio per poi precipitare nella sua tana, un antro scavato nella terra lungo il margine di un fiume e che sembra essere stato realizzato a sua misura, in attesa che lei ci finisca dentro.                                                                                                                          

La tana in cui cade la protagonista non conduce però a mondi popolati da creature fantastiche, ma a una consapevolezza più profonda della realtà alienante in cui l’individuo è costretto a vivere; la buca potrebbe allora rappresentare il ruolo imposto su di noi dalla società, una prigione di erba e fango che impedisce qualsiasi forma di cambiamento, o forse non è altro che una discarica in cui gettare coloro che non hanno voluto o non sono stati in grado di accettare il posto nel mondo che è stato scelto per loro, mentre il fiume del tempo scorre inesorabile di fronte ai loro occhi.                                                                                                                         

Da questo momento in poi Asa inizierà a conoscere gli abitanti del villaggio e le loro usanze bizzarre; riti dall’effetto straniante e apparentemente privi di significato costituiscono le dinamiche sociali di questo microcosmo immerso in un’atmosfera onirica ma allo stesso tempo estremamente sensoriale. Ben presto la protagonista scoprirà che anche suo marito e la sua famiglia nascondono qualcosa di sinistro dietro una facciata di apparente normalità e perfezione.                                                                                                                       
 Il mondo descritto ne “La buca” è lo specchio della nostra società: l’assurdità che la caratterizza viene portata all’estremo, al punto tale da sembrare di trovarsi quasi su un altro pianeta, ma su ogni pagina c’è il riflesso limpido del nostro mondo e della parte più nascosta di noi stessi.   


Recensione di Francesca Marinelli

The last 10 years || Recensione

Regia: Michihito Fuiji

Anno: 2022

Durata: 124 minuti

Genere: romantico, drammatico

Attori principali: Lily Franky, Hideko Hara, Nao Honda, Satoru Iguchi, Nana Komatsu.

The Last 10 Years”, con titolo originale 余命10年 (Yomei Jū Nen), è una pellicola del 2022 di Michihito Fuiji, regista conosciuto per film come “The Journalist” e “Ao no Kaerimichi”.

Si tratta della storia di Matsuri Takabayashi, una ragazza affetta da una grave forma di malattia polmonare a causa della quale le rimangono dieci anni di vita. Dopo essere stata dimessa dall’ospedale, si ritrova a dover affrontare la vita da adulta che per tanto tempo non ha conosciuto. Una sera, viene invitata da delle amiche di vecchia data a una rimpatriata con la classe delle scuole medie e qui incontra Kazuto Manabe. Kazuto vive una situazione complicata: la sua famiglia non vuole avere nulla a che fare con lui, e dopo essere stato licenziato per l’ennesima volta, tenta il suicidio. Tramite questo evento comincia prima un’amicizia e poi una storia d’amore speciale, sempre vissuta in modo più profondo da parte di Kazuto, che all’inizio non viene messo al corrente da Matsuri della sua malattia.

Per tanto tempo la protagonista è stata consapevole che un giorno sarebbe semplicemente scomparsa, e ormai l’idea non la spaventa più. Una ragazza rassegnata davanti alla morte e un ragazzo rassegnato davanti alla vita: questo è ciò che ci viene inizialmente presentato di Matsuri e Kazuto. O almeno, questo è quello che sono fino a quando non si incontrano, aprendosi a un nuovo capitolo nel racconto. La loro convergenza fa sì che uno rappresenti la ragione di esistere dell’altro, ciò che li rende capaci di prendere la loro vita in mano e di plasmarla in qualcosa di nuovo e bellissimo. Si spingono l’un l’altro a migliorare costantemente, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista lavorativo e dell’auto-realizzazione. Questi sentimenti provocano paura, perché rappresentano la prova vivente che entrambi, adesso, hanno qualcosa da perdere. Ma anche se sanno che non potranno rimanere insieme per sempre come tutte le coppie felici, sfruttano al massimo il tempo che hanno. Il film racconta una commovente storia d’amore che, però, non può fare a meno di aver come sottofondo storie di amicizia e di famiglia. Senza queste altre due componenti a farle da sostegno costante, Matsuri non potrebbe vivere la sua vita con la leggerezza che la caratterizza malgrado la sua malattia.

È interessante come per tutto il film la ragazza si impegni a riprendere con la sua videocamera ogni ricordo per lei importante; si tratta di un modo per rimanere per sempre nello stesso istante, per guadagnare un tempo che lei sa di non avere, per poter vivere se non nel futuro, almeno nel passato. Nonostante le tematiche trattate siano forti, la pellicola riesce ad esporle con dolcezza e a provocare nello spettatore un forte senso di nostalgia e di speranza, che riflette quella voglia di vivere e di poter sperimentare ancora la vita di Matsuri, che finalmente, grazie a Kazuto, ha ritrovato.

Recensione di Sara Orlando

Shiga Izumi – Quando il cielo piove d’indifferenza || Recensione                                       

Autore: Shiga Izumi  

Traduzione: Veronica De Pieri

Edizione: 2021

 Quando il cielo piove di indifferenza” (無情の神が舞い降りる) è un romanzo di Shiga Izumi, pubblicato nel 2017.

La storia si sviluppa all’interno del primo mese dal triplice disastro di Fukushima.
Yoshida Yōhei è uno scapolo quarantenne che ha vissuto il disastro della centrale di Fukushima.
Il suo villaggio, dal quale non si vuole allontanare, si trova entro un raggio di 20 km dalla centrale. Nonostante l’esortazione ad evacuare come tutti gli altri residenti, decide di rimanere nella sua casa insieme alla madre, rimasta disabile in seguito ad un ictus. Yōhei non la vuole spostare per via delle sue gravi condizioni ed è convinto che se evacuasse lui stesso diventerebbe la causa della sua morte.

Nonostante le radiazioni, la sera fa spesso una passeggiata fuori casa, di solito in direzione della casa di una sua amica delle elementari, Yasaka Misuzu, morta per un incidente del quale lui si sente responsabile: i due bambini stavano inseguendo il pavone dell’amica che Yōhei stesso aveva liberato.

Durante una di queste passeggiate, dove entrata nel giardino della casa dell’amica d’infanzia, incontra una volontaria di recupero gatti, randagi o dispersi dai padroni durante l’evacuazione, Mimura Reiko, alla quale racconta di stare soccorrendo il labrador nero che è legato nel pollaio dentro al giardino.

Pochi giorni dopo il loro primo incontro, si rincontrano casualmente in un “conbini” e decidono di prendere un caffè. Questo rivela all’uomo che ha bisogno del contatto umano, in quanto si trova solo a curare la madre in stato vegetativo. La freddezza con cui viene trattato dalla ragazza, gli fa criticare i volontari come lei, che hanno più a cuore la salvezza degli animali piuttosto che degli esseri umani.

Alla morte della madre saranno solo il figlio e Reiko ad assistere al funerale, ma sarà per Yōhei motivo per rimettersi in carreggiata: il funerale diventa il tasto di reset, il primo evento quotidiano dal fallout nucleare che gli fa prendere la decisione di allontanarsi finalmente dal suo villaggio, al quale è legato ma che non lo porta a nulla di fatto, per andarsene a Tokyo. Per via dell’opportunità che gli dà, la sua morte viene presa con un senso di sollievo, ma anche con colpa perché è un sentimento che non si dovrebbe provare nei confronti della dipartita di un genitore. Lui la accudiva ma non per amore filiale, ma perché era come se la dovesse ripagare del fatto di averlo fatto nascere. Inoltre prova dei sentimenti contrastanti per la madre. Per tutta la vita l’ha accusata di non essersi interessata della morte di Misuzu, di non averla pianta.

Nonostante l’incidente nucleare sia lo sfondo della nuova quotidianità di Yōhei, è molto forte la sua presenza. Il nucleare stesso viene paragonato al pavone, maestoso, ma che man mano che abbellisce il suo piumaggio per attrarre le femmine, va incontro a tanti pericoli: prima di tutto diventa più visibile da parte dei predatori. Lo stesso è il nucleare, che provoca disastri in nome del progresso tecnologico.

Shiga Izumi esprime il suo dissenso nei confronti dell’uso del nucleare fin dalle primissime pagine del romanzo, quando affianca Fukushima non solo ai più grandi incidenti nucleari come Three Mile Island o Chernobyl, ma anche ai più grandi errori dell’uso del nucleare, ovvero Hiroshima e Nagasaki. Fukushima è come un nuovo bombardamento, che provoca di nuovo disagio sociale per coloro che erano nei dintorni della centrale nucleare al momento dell’esplosione, trattati di nuovo come gli hibakusha dei due bombardamenti.


Le conseguenze sociali del disastro nucleare sono il tema principale anche del secondo racconto contenuto nella stessa edizione: “La mia sedia vuota” (私のいない椅子).

Itō Kana è una ragazza delle superiori costretta ad abbandonare la sua città sul mare per rifugiarsi dietro alla catena montuosa che si trova alle spalle.

La narrazione della storia principale, ovvero la realizzazione di un film di studenti liceali di cui Kana dovrebbe svolgere il ruolo di protagonista, si alterna ai ricordi della ragazza al momento del disastro: ha perso entrambi i nonni materni per colpa dello tsunami, è stata sfollata per giorni insieme alla madre in una palestra finché la zia, la sorella materna, non se n’è presa carico e l’ha portata oltre catena montuosa.

Il padre è stato spostato in un’altra centrale e la madre è rimasta sconvolta dal disastro, rendendola incapace di qualsiasi reazione. Kana risponde a questa mancanza di reazione da parte della madre con la rabbia e il completo distacco.

La catena montuosa diventa per la ragazza un limite visivo insopportabile: vuole vedere il mare, nonostante sia stato la causa di tutto quello che sta passando. Sarà proprio la sua voglia di vedere l’oceano a dare inizio al progetto del film del laboratorio di fotografia, che verrà proiettato nelle sale cinematografiche di tutto il Giappone, a testimonianza del disagio provato da tutti gli sfollati.

A fare da tutore agli studenti, è il regista di film horror Koguma Yasuo, col quale Kana instaurerà un rapporto particolare.

Sarà l’atteggiamento scostante della protagonista e un incidente di natura conflittuale durante un giorno di riprese a far sì che la ragazza venga espulsa definitivamente dal progetto. Accanto a lei, rimarranno solo la zia e Akimoto Akio, anche lui sfollato. È proprio per la loro natura di sfollati che i due ragazzi legano molto, messi da parte dagli studenti che invece non hanno subito direttamente le conseguenze del triplice disastro.

Essendo stata il motivo di slancio alla produzione del film e dovendone essere la protagonista, era convinta che quello fosse il suo film, non realizzando che doveva essere un esempio della vita condivisa da tutti gli evacuati.

Attraverso atteggiamenti, pensieri e discussioni con Akio, sembra che Kana voglia sabotare la prima del film, ma alla fine, farà solo quello che ha portato alla conclusione del progetto: vedrà il mare e riinstaurerà legami umani.

Diventare Ninagawa Mika – Ninagawa Mika || Recensione

“Diventare Ninagawa Mika”, autobiografia della celebre fotografa, è arrivato in Italia il 3 novembre 2023 edito da Cuepress, tradotto da Corrado Cucchi e curato da Roberta Novielli e Francesco Vitucci.

In questo volume, Ninagawa Mika ripercorre le tappe più significative della sua carriera da fotografa e in seguito da regista, arricchendole di aneddoti, riflessioni a posteriori, ed episodi apparentemente triviali ma che sommati l’uno all’altro tratteggiano i contorni di una personalità così colorata e luminosa quando immortalata in una fotografia, ma che affonda le sue radici anche in ispirazioni e influssi di tutt’altro genere. Ninagawa Mika esplora e ci racconta il suo passato a partire dall’infanzia, dalle prime immagini che hanno colpito la sua fantasia, i primi approcci alla creazione artistica e gli input che in maniera conscia o inconscia hanno plasmato la sua persona nel corso degli anni e le hanno permesso di “diventare Ninagawa Mika”.

“Altri fotografi avranno avuto carriere simili alla mia, ma penso che il fattore fondamentale sia sempre il grado di riconoscibilità. Qualsiasi sia il set fotografico, e chiunque sia il fotografo, la differenza sta interamente in questo aspetto.”

L’autobiografia non si dilunga in spiegazioni tecniche di ambito fotografico o registico, né si addentra in approfondimenti della vita privata dell’autrice: le due sfere si combinano e si bilanciano l’un l’altra in un equilibrio che Ninagawa stessa afferma essere il suo obiettivo nel lavoro e nelle relazioni interpersonali. Di conseguenza, gli aneddoti e le esperienze che l’autrice riporta fluiscono con naturalezza, quasi seguissero il ritmo spontaneo di una conversazione. È così che ci confida le sue insicurezze, ciò che reputa importante sul set e nella vita, e ci racconta le sfide più impegnative, senza mai perdere l’amore per la fotografia, l’arte tramite cui ha trovato se stessa.

“Nessuno poteva dirmi cosa fosse o cosa non fosse la fotografia, perché essa costituiva un mio privato santuario. E quel santuario rispondeva soltanto a ciò che sentivo io. Per questo, ero decisa a non ricevere insegnamenti e a non imparare da nessuno. La mia scelta non fu dettata unicamente dal mio desiderio di libertà, ma penso abbia avuto a che fare con la volontà di preservare la mia originalità.”

Ricordiamo che l’opera verrà presentata giovedì 23 novembre presso l’Odeon Gallery di Bologna (Via Mascarella 3)

Little Sister || Recensione

Regia: Kore’eda Hirokazu

Anno: 2015

Durata: 128 minuti

Genere: drammatico

Attori principali: Haruka Ayase, Masami Nagasawa, Kaho, Suzu Hirose, Ryo Kase

“Little Sister”, con titolo originale “Umimachi Diary”, è un film del famosissimo Kore’eda Hirokazu basato sull’omonimo manga di Akimi Yoshida.

Le tre sorelle Sashi, Yoshino e Chika, abbandonate ormai da 15 anni da entrambi i genitori, hanno imparato a vivere tranquillamente e in autonomia nella loro casa di famiglia a Kamakura. Questo equilibrio si scioglie quando ricevono un invito per il funerale del padre, che si era creato una nuova famiglia in un’altra città. Le sorelle si recano (più per dovere che per affetto) alla cerimonia, e qui incontrano la loro sorellastra, figlia del padre e dell’amante che rovinò il rapporto dei loro genitori, Suzu. Immediatamente Sashi, la sorella maggiore e colei che si è presa cura per tutti quegli anni delle due sorelle minori, sente di avere un’affinità particolare con la ragazzina. Anche Suzu, nel vedere da fuori il rapporto che le tre sorelle hanno e che lei essendo cresciuta da sola non ha mai avuto, vorrebbe costruire un legame con loro. Per questo motivo, Sashi  sente di voler liberare Suzu da quella cittadina in cui ormai non restava più niente per lei, e la invita a vivere con loro a Kamakura. Da qui comincia la storia delle, ora, quattro sorelle.

Il tema principale è, ovviamente, quello della famiglia, in particolare della sorellanza. L’unicità della pellicola sta nella delicatezza e nella sensibilità con cui Kore’eda si addentra in questa storia: ci viene mostrata una visione sorprendentemente ottimista che colpisce come una ventata di aria fresca; non si tratta del ritratto di un dramma familiare che ci aspetteremmo, anzi, viene a mancare proprio quello scontro generazionale che fa sì che i componenti della famiglia vadano via via allontanandosi per poi ritrovarsi alla fine. Suzu viene subito inglobata all’interno del meccanismo familiare nonostante i dubbi e le incertezze che la sua infanzia le ha lasciato, e la sua somiglianza con Sashi fa sì che quest’ultima riservi delle premure esclusive nei suoi confronti. L’ambiente-casa risulta essere il luogo sicuro, in cui le sorelle non possono essere separate da niente e nessuno, ed è quando si fuoriesce da questo che le situazioni si complicano. In questo senso, sono presenti dei fattori esterni che spesso vanno a intaccare, ma mai gravemente, il rapporto delle sorelle: delusioni amorose, lavorative, disaccordi su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Le quattro sorelle, che rappresentano anche quattro modi di essere, sono semplicemente donne che si amano l’un l’altra nonostante i rispettivi difetti.

La regia di Kore’eda ci catapulta nella loro intimità, ci fa sentire parte di questo rapporto speciale. L’andamento calmo e privo di straordinarietà fa sì che il film sia il riquadro della quotidianità, e soprattutto ci dimostra che una storia non deve essere un susseguirsi di eventi drammatici o sbalorditivi per considerarla degna di essere raccontata.

Recensione di Sara Orlando

Mikkō – Yoshiko Sai || Recensione

Yoshiko Sai è una cantautrice nata nella prefettura di Nara, che nel corso della sua carriera poliedrica ha rappresentato un’avanguardia nel panorama musicale giapponese. Il suo esordio come cantante avvenne ai tempi del liceo, negli anni ’60, quando decise di creare una band ispirata dal ben più famoso “Akai Tori”, gruppo folk dell’epoca. La produzione della cantautrice, che ha all’attivo cinque album, si divide tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni duemila, in cui il Giappone ha assistito al suo ritorno sulla scena musicale dopo un silenzio durato circa trent’anni. I suoi album rappresentano una commistione tra elementi di folk tradizionale e di city pop, strizzando l’occhio a sonorità vicine al jazz e alla psichedelia. Oggi vi presentiamo un’opera esemplificativa della sua carriera, influenzata tanto dalla letteratura quanto dall’arte visiva: si tratta di “Mikkou”.

Pubblicato il 25 luglio del 1976, Mikkou rappresenta una svolta nella produzione dell’artista, in quanto è il primo album a contenere esclusivamente brani originali. Composto da 9 tracce per una durata complessiva di 47 minuti, già dalla copertina (realizzata dalla stessa Sai) mostra un’atmosfera apparentemente melliflua e leggera, che però viene spesso accompagnata da un’esecuzione ricca di suspence e a volte da una certa inquietudine onirica. Nella scrittura dei testi la cantante fa riferimento al suo bagaglio di letture, che comprende i racconti surreali e bizzarri di autori come Mushitaro Oguri e Seishi Yokomizo. Dal punto di vista strumentale, l’album è fortemente centrato sulla melodia vocale, che viene solitamente accompagnata da non più di due strumenti. Infatti, la produzione tende a mettere in risalto i singoli componenti che contribuiscono alla realizzazione del brano, piuttosto che a enfatizzare l’armonia nel suo complesso.

La traccia di apertura è “Kaasama No Uta” (Canzone della Madre), che lascia libera espressione al groove psichedelico del vibrafono. In tutti gli altri brani la componente psichedelica viene smorzata e affiancata da sonorità più pop, ma rimanendo comunque presente e tornando a tutti gli effetti nella title track finale. A seguire “Haru” (Primavera), che trasporta l’ascoltatore in un’atmosfera noir, dove piano, chitarra e basso accompagnano con una melodia di forte ispirazione jazz la voce lenta ma sempre nitida di Yoshiko. Si alternano poi tracce dalle sfaccettature più diverse: in “Nemuri no Kuni” (Il Paese del Sonno) l’unico accompagnamento della cantante è una sonata in pianoforte, che rende la canzone tanto essenziale nella sua struttura come poetica nella realizzazione; in “Hito no Inai Shima” (L’Isola Disabitata) si ritorna ad un suono più onirico accentuato dalle note del dulcimer e dalla linea del basso in sottofondo; ancora, il brano “Tenshi no You ni” presenta un ritmo molto più veloce e allegro alla batteria, dalle sonorità vicine al city pop, su cui si susseguono chitarra ritmica, sintetizzatore e flauto. In penultima traccia troviamo “Hyouryuusen” (Nave alla Deriva), ballata blues in cui voce e chitarra elettrica si alternano tra melodie lente e assoli ipnotici.

Nel complesso, l’album risulta molto interessante sia dal punto di vista musicale che da quello lirico, e riesce a far immergere l’ascoltatore in un mondo tanto fantastico quanto intangibile. L’essenzialità delle melodie, tenute insieme dalla voce pulita e avvolgente di Yoshiko Sai, rende l’album adatto tanto ad un ascolto occasionale quanto ad uno più attento, rimanendo così accessibile ma senza scadere nella banalità.