23 Febbraio 2022 | Registi
Ben ritrovati! Questa è Akushon!, la rubrica dei registi giapponesi di JFS e oggi vi parliamo di Doi Nobuhiro!
Nato a metà degli anni ’60 nella prefettura di Hiroshima, Doi cresce con una passione per il cinema trasmessagli anche dall’opera del concittadino Hasegawa Kazuhiko, specialmente tramite la pellicola Taiyō wo Nusunda Otoko, resa in inglese col titolo The man who stole the sun. All’università, Doi frequenta l’ateneo Waseda della capitale e si laurea nell’ambito delle scienze politiche ed economiche. È in questo periodo che prende i primi contatti anche col palcoscenico, facendo parte di un gruppo di ricerca sulle arti drammatiche nell’ambiente universitario stesso. Una volta laureato, entra a far parte della nota emittente TBS di cui dirige diverse serie tv molto viste e presenti nel dibattito di pubblico e critica, a tal punto da essere ribattezzato come “regista-asso” del canale TBS. Tra i dorama più rilevanti della sua carriera troviamo Ai shite iru to itte kure, in inglese Tell me that you love me, insieme a Beautiful Life e Good Luck. Tra i film da lui girati spiccano titoli come Ima, ai ni yukimasu e Nada Sōsō, noto anche col titolo di Tears for you.
Come abbiamo detto, la carriera di Doi Nobuhiro inizia nel piccolo schermo e tutt’ora le sue principali opere sono destinate per questo medium, infatti contiamo soltanto 8 lungometraggi. Questa sua attività sulle serie tv, soprattutto dorama, si rifletterà nella sua produzione cinematografica regalandoci delle opere con un taglio registico tipico di una serie tv ma che comunque riesce a rimanere godevole nel lungometraggio. Tra le sue opere possiamo menzionare Ima, ai ni yukimasu del 2004 nonché opera prima, Hanamizuki del 2010 dove troviamo rappresentata una storia a distanza tra una giovane ragazza e un aspirante pescatore, Birigyaru del 2015, lungometraggio sul riscatto di una ragazza del liceo considerata senza speranze e, infine, The voice of Sin, uno degli ultimi apprezzati lavori del regista.
Se vi abbiamo incuriosito con la vita di Doi Nobuhiro, continuate a seguirci per scoprire di più sulle opere menzionate nel video di oggi. A mercoledì prossimo con Akushon!
9 Febbraio 2022 | Registi
Eccoci ritornati con il secondo atto dell’opera di Hiroki Ryūichi! Questa è Akushon!, la rubrica dei registi di JFS, si parte!
Adattamento del romanzo omonimo firmato da Akasaka Mari, Vibrator ritrae l’incontro tra una scrittrice freelance segnata da accompagnata da “voci interiori” con un camionista sicuro di sé e che la aiuterà a scoprire la propria sessualità e autoconsapevolezza. Rei e Takatoshi intraprendono perciò una sorta di road trip insieme, viaggiando sul camion di lui fino all’Hokkaido e ritorno. I due cominciano un percorso di reciproca apertura, marcato da pochi ma significativi dialoghi e da una sorta di intesa a pelle che gli consente di costruire un legame fuori dal comune. Terajima Shinobu ha meritatamente conquistato il premio come miglior attrice al Tokyo Film Festival del 2003 per la propria interpretazione, superando la comunque valida prova del co-protagonista, il noto Ōmori Nao che appare anche nelle scene di Ichi the Killer.
Conosciuto anche come Tokyo Love Hotel, il film Sayonara Kabukichō è un curioso spaccato del 2014 su diversi nodi della società nipponica. Il fulcro della pellicola è un hotel a ore, uno dei tanti nidi dove si rifugiano individui emarginati, tra lavori squallidi e insoddisfazioni personali. Nel contesto di questo edificio, una serie di coppie vivono vicissitudini che daranno esiti differenti: chi si lascia, chi si ritrova dopo essersi perso, il tutto in una cornice dove l’amor carnale è spiacevole e ridicolo e l’affetto si annida nelle crepe della realtà quotidiana, insinuandosi dove può, spesso con piccole attenzioni e gesti misurati. Danno un’ottima prova della propria capacità attoriale la squillo Iria, interpretata dall’attrice coreana Lee Eun-woo, e il giovane Toru, uno dei dipendenti del love hotel, portato in scena dall’attore Sometani Shōta. In questa opera del regista, in tono quasi spensierato si narrano le difficoltà delle fasce al margine: prostitute e ragazze a domicilio, la xenofobia e i problemi a integrarsi in una società monolitica, la povertà e la frustrazione di non poter guadagnare con un lavoro dignitoso, e sullo sfondo l’indimenticabile disastro del Tōhoku che popola ancora l’immaginario dei giapponesi.
Il terzo Film di cui vi parleremo è Raiō, uscito nelle sale giapponesi nel 2010. Il lungometraggio racconta la storia di Narimichi, nobile appartenente alla famiglia Tokugawa, che incuriosito da una storia su un Tengu che vive fra le montagne decide di partire alla ricerca del demone. Qui conoscerà Rai, una donna dal passato controverso che cerca in tutti i modi di proteggere la montagna dove vive. I due si innamorano, ed è proprio su questo rapporto, impossibile per l’epoca, che il regista cerca di indagare ed esprimere tutta la sua filosofia cinematografica; sia attraverso scene che visivamente rappresentano la distanza sociale tra i due protagonisti, sia con scene da vero e proprio melodramma storico.
L’ultimo lungometraggio di oggi è Daijōbu san kumi del 2013. I legami interpersonali sono al centro della visione del regista; in questo film però egli non si concentrerà più sull’amore tra uomo e donna ma estenderà questa sua visione al rapporto professore-alunni. Come soggetto però non sceglierà un professore qualsiasi, infatti Akao Shinosuke nasce senza arti ma decide comunque di proseguire con la sua carriera. Il regista però sceglie di raccontare la storia dal punto di vista di Shiraishi Yusaku, un membro del consiglio studentesco con una visione un po’ antiquata dell’ambiente scolastico. La visione che si ottiene quindi è una visione oggettiva e cruda di quelli che possono essere i problemi dia fisici che psicologici di una classe particolare e stravagante come questa.
E con oggi concludiamo il nostro approfondimento su Hiroki Ryūichi! Potete guardare il nostro video qui. Se siete curiosi di conoscere le storie di altri registi giapponesi continuate a seguire Akushon!
26 Gennaio 2022 | Registi
Ciao a tutti! Nonostante l’importante lavoro che ci richiede portare al cinema i nostri amati film, non ci dimentichiamo del nostro ormai classico appuntamento con Akushon!, la rubrica che racconta le figure più e meno conosciute del panorama attuale del cinema giapponese. Oggi vi introduciamo brevemente un personaggio noto e apprezzato in questo ambito, parliamo di Hiroki Ryūichi!
Nato nel 1954 in una città della prefettura di Fukushima, nella parte nord dello Honshū, un Hiroki poco più che ventenne comincia la sua carriera in un genere comune tra i cineasti giapponesi, il pinku eiga, dalla vena erotica soft. In questo ambiente, svolge attività soprattutto come aiuto regista presso la Ōkura Eiga, per poi passare alla Yū Pro di Nakamura Genji, da assistente con anche un ruolo nel montaggio e incursioni nelle sfere manageriali. Come regista, la sua prima opera risale al 1982 e si intitola Seigyaku! On’na o abaku, ma non viene ben ricevuta e questo lo porta a ritornare al ruolo di assistente. Fino a fine anni ’80, navigherà nelle stesse acque, risultando regista di titoli sadomaso e, in casi rari, di pornografia esplicita. L’interesse per la sessualità e le relazioni rimane un punto focale nelle sue pellicole, ma viene traslato in nuove opere che hanno come obiettivo il pubblico generalista e che lo porteranno al giro di boa della sua carriera registica con la pellicola 800 Two Lap Runners, dove studia le relazioni adolescenziali di carattere etero e omosessuale. Da questo momento in poi, Hiroki riceve un sempre maggior plauso della critica e si consacra come regista che tratta non solo le vite sessuali, ma anche e soprattutto il tema dell’alienazione dell’emarginazione del genere femminile nella società nipponica.
Molti registi, giapponesi e non solo, prima di dedicarsi a produzioni mainstream hanno avuto una parentesi nella produzione erotica o pornografica. Hiroki Ryūichi è il perfetto esempio di come questo tipo di produzioni, includendo anche i pinku eiga, non diano meno importanti o prive di arte e autorialità. Infatti, come lui stesso ha dichiarato in un’intervista per il Midnight Eye “le differenze tra i miei film pink e quelli mainstream sono il budget e le circostanze produttive”, sottolineando come le sue opere, che sono 76 solo per il grande schermo, vertano principalmente sull’incontro tra un uomo e una donna e delle vicissitudini, non solo emotive, che si creano in questi tipi di rapporti. Tra queste 76 opere, frutto di una vera e propria visione autoriale del mezzo cinematografico, vi parleremo di Vaiburtā, film del 2003 che mostra quanto negli anni il regista abbia interiorizzato questo tipo di visione; Raiou, uscito nelle sale nel 2010, che propone il rapporto tra due persone agli antipodi della gerarchia sociale Tokugawa; Daijōbu san Kumi del 2013, dove il regista si distacca dal suo filone principale e racconta la storia di un insegnante senza arti e il rapporto che crea coi suoi studenti e Sayōnara Kabukichō del 2014, un film che ruota intorno ad un love hotel a Kabukichō e alle storie dei personaggi che vi fanno visita.
E con questo concludiamo la prima parte dell’approfondimento su Hiroki Ryūichi. Potete guardare il nostro video qui. Se la carriera di questo regista vi ha incuriosito, ci vediamo tra due settimane con la seconda parte!
23 Dicembre 2021 | Registi
Eccoci alla puntata numero 2 su Miki Satoshi, noi siamo l’associazione Takamori e questa è Akushon, la nostra rubrica dei registi! Si parte!
In Za Pūru è un film del 2005, prima prova al lungometraggio del regista comico Miki Satoshi. La storia si basa sulla serie di racconti brevi scritti da Okuda Hideo e che hanno per protagonista lo psichiatra Irabu Ichirō. Interpretato dal comico Suzuki Matsuo, il protagonista è un eccentrico dottore che svolge le sue consulenze nel seminterrato dell’ospedale diretto dal padre. Gli si presentano tre casi clinici: quelli di Kazuo, Tetsuya e Suzumi. Chi è ossessionato dall’idea di dover fare un’ora in piscina tutti i giorni della propria vita, chi è sconvolto da un’erezione permanente, chi non può allontanarsi da casa per timore che il gas resti acceso: i 3 pazienti portano le loro manie alle attenzioni del medico, che troverà per loro le soluzioni più disparate e antiscientifiche, non astenendosi dall’irriderli. La narrazione di Miki ha un che di giocoso e il film raramente lascia cadere l’attenzione dello spettatore, con interessanti angoli di ripresa e grazie alla prova eccellente di Suzuki Matsuo nei panni dello psichiatra, che mette in ombra i seppur capaci attori che interpretano i pazienti da lui visitati.
Seguiamo con Ore, ore!, in traduzione inglese It’s me, it’s me!, uscito nel 2013. Il protagonista Hitoshi, impersonato da Kamenashi Kazuya, famoso idol giapponese, è un ventenne con un sogno, quello di diventare un fotografo, che ha tuttavia sepolto nel cassetto e conduce l’esistenza di un qualsiasi commesso di un negozio di elettronica. Casualità vuole che, irritato da un cliente, egli entri in possesso del suo cellulare e lo utilizzi per far andare in porto una truffa. Da quel momento in poi, la sua esistenza cambia e comincia un potente gioco di maschere: i furti di identità si susseguono uno dietro l’altro e il giovane commesso Hitoshi ne è carnefice e vittima molteplici volte. I vari ego si fronteggiano o si aiutano, mentre l’identità del protagonista si frammenta in una miriade di storie, scambi, delusioni e difficili accettazioni di se stessi e dell’altro.
Continuiamo con Damejin, uscito nelle sale giapponesi per la prima volta nel 2006. Ryosuke, interpretato da Satō Ryūta, accompagnato da due suoi amici in una sorta di esplorazione di una cava, incontra una strana figura che gli dice che per salvare il mondo dovrà recarsi in India. Non sarebbe un compito difficile, se non fosse che i tre sono persone tutt’altro che intraprendenti e soprattutto dovranno buttarsi per la prima volta nell’impegno del lavoro dovendo racimolare un milione di yen per arrivare a destinazione. Nonostante il film sia del 2006, la sua lavorazione risale al 2002; in un Giappone in pieno collasso economico. Questo aspetto è molto presente nei personaggi, che sono tutti quanti dei soggetti molto eccentrici accomunati da una perdita della speranza totale nella società che li circonda.
Infine vi parleremo di Ten Ten, in traduzione inglese Adrift in Tokyo, uscito nel 2007. Takemura è uno studente senza famiglia e senza amici con un debito molto grande sulle spalle. Quando Fukuhara, colui che dove va riscattare il debito, va da lui per dargli un ultimatum gli fa un’offerta: per riscattare il debito dovrà accompagnarlo in giro per Tokyo. I due quindi iniziano un tutt’altro che breve viaggio per la metropoli, scoprendo anche il crimine commesso da Fukuhara prima di incontrarlo. Durante questo singolare viaggio i due incontreranno e si si scontreranno con svariate personalità, trovando quasi un rapporto di amicizia.
Per oggi è tutto! Potete guardare il nostro video qui e se volete scoprire altre curiosità sul cinema giapponese e i suoi registi continuate a seguirci! Ci vediamo l’anno prossimo con Akushon!
15 Dicembre 2021 | Registi
Ciao e ben ritrovati! Noi siamo l’associazione Takamori e questa è la rubrica Akushon!, dove vi parliamo della vita e dei film dei registi giapponesi. Oggi diciamo due parole sulla figura di Miki Satoshi, seguiteci!
Miki Satoshi nasce nel 1961 e proviene da Yokohama, la metropoli che fa parte della stessa conurbazione di Tokyo. Consegue gli studi universitari presso l’ateneo Keio della capitale, dove si laurea presso il dipartimento di Letteratura. Ai tempi dell’università, viene invitato da un amico a partecipare a una selezione per un lavoro part-time come apprendista sceneggiatore televisivo, risultando dei due amici l’unico ammesso al ruolo. Il ventenne Miki entra perciò nell’ufficio preposto e comincia a lavorare a programmi TV di successo di varie emittenti, da Tamori Club dell’emittente Asahi a The spring of Trivia in onda sulle reti di Fuji TV, sancendo così l’inizio della propria carriera nel piccolo schermo. In seguito, collabora in vari progetti con Takenaka Naoto, i City Boys e con il drammaturgo Miyazawa Akio. Dal 2005, con la trasposizione di un romanzo di Okuda Hideo sul grande schermo e altri lavori attira l’attenzione in qualità di regista, pur continuando a lavorare nell’ambiente televisivo con serie e drama. Nella sua vita artistica ha svolto quindi molteplici attività, dagli inizi come sceneggiatore alla carriera di regista, con incursioni come drammaturgo e produttore in ambito teatrale. Ora diamo un occhio insieme ai momenti più importanti della sua produzione con la macchina da presa!
Ad una prima occhiata la carriera cinematografica di Miki Satoshi potrebbe sembrare scarna e poco degna di nota, soprattutto per il numero di film prodotti, solamente 9. Non dobbiamo però farci trarre in inganno dai numeri, poiché le sue opere non sono certo lasciate al caso. Infatti proprio perché principalmente ha lavorato per emittenti televisive o per produzioni di serie TV, il regista porta con se una maniera tutta sua di fare cinema: stravagante, complessa ma comunque adatta a tutti i tipi di pubblico. È bene quindi tenere anche in considerazione che la sua carriera nel grande schermo è iniziata da poco più di 15 anni, e che quindi ci riserverà grandi sorprese, soprattutto con il film in uscita nel 2022 “what to do with the dead Kaiju?”. Ma per ora concentriamoci su alcune delle sue opere più significative; come “in the pool”, commedia del 2005 su un singolare neurologo alle prese con altrettanto singolari casi clinici. Per proseguire, abbiamo “damejin”, film del 2006 su tre ragazzi definiti “inutili” che per un viaggio in india farebbero di tutto a parte lavorare. Proseguiamo con Ten ten, film del 2007 vincitore del premio best script al Fantasia film festival. Concludiamo poi con “ore ore”, una commedia del 2013 che è valsa al nostro regista il premio come miglior film all’udine Far east Film festival del 2013.
Per oggi abbiamo finito! Potete guardare il nostro video qui e se volete approfondire sui film dai noi proposti di Miki Satoshi, ci vediamo Mercoledì prossimo per un nuovo video di Akushon!
24 Novembre 2021 | Registi
Siamo di nuovo con voi alla puntata di Akushon!, la rubrica di associazione Takamori che vi racconta in pochi minuti i lavori dei cineasti giapponesi. Non perdiamo tempo e parliamo della prima pellicola di Yamada Yōji.
Iniziamo introducendo il primo titolo della “trilogia del samurai” ovvero The twilight Samurai del 2002. Iguchi Seibei è un Samurai che, a seguito della morte della moglie per tubercolosi, è diviso tra i suoi ormai burocratici doveri di samurai e la vita di padre di una famiglia che purtroppo fa fatica a tirare avanti. Un giorno rincontra la sua amica di gioventù Tomoe tornata dopo il divorzio con un violento spadaccino. Un giorno quest’ultimo decide di sfidare a duello Iguchi, il quale lo sconfigge solamente armato di bastone e ricordandogli perché gli era stato affibiato il nome di “tasogare seibei” ovvero “seibei del crepuscolo”. La voce però si sparge e Iguchi sarà costretto a impugnare nuovamente la spada per rispettare i suoi doveri feudali. Con un film sui samurai Yamada Yōji gioca in casa, e durante tutta la pellicola si vede la minuzia nel progettare ogni dialogo e ogni scena rappresentando al meglio il valore di questo genere cinematografico. Non per niente questo film gli è valsa la nomination agli Oscar per il miglior lungometraggio straniero.
Kakushi ken oni no tsume, tradotta The Hidden Blade, è un’opera del 2004, secondo appuntamento della trilogia. Siamo nell’epoca del Bakumatsu, alla fine del periodo degli shōgun Tokugawa, momento di grandi tensioni e rivolgimenti. Al centro della storia c’è la figura di Katagiri Munezō, interpretato da Nagase Masatoshi, un samurai il cui status familiare è stato minato dal suicidio rituale compiuto dal padre qualche tempo prima. La sua figura risulta ancora più solitaria nel momento in cui, per via del matrimonio contratto dalla sorella e che la porta a vivere altrove, perde una figura fondamentale della sua vita, quella della servitrice Kie, impersonata da Matsu Takako, che ama segretamente. La casa di Munezō, in seguito alla morte della madre, è perciò abitata solo da lui, fino a che un fortuito rincontro con Kie non ne risveglia il sentimento d’amore da tempo accantonato. La trama si complica poi quando giunge in paese, in veste di prigionero, l’antico compagno di accademia e amico di Munezō, Yaichirō, con cui dovrà inaspettatamente rivaleggiare. Lo stile della pellicola risulta sobrio, con inquadrature di ampio respiro che danno spazio ai momenti più drammatici. Se il fulcro del film è dato poi dall’amore impossibile della coppia di protagonisti, Munezō e Kie, c’è spazio per una critica proprio alle incolmabili differenze tra le caste e, più generalmente, al codice samurai del bushidō, rispettato solo dai vassalli e raramente dai loro arroganti signori.
Concludiamo la trilogia samurai con Bushi no ichibun, tradotto in Love and Honor, dell’anno 2006. Anche in questo caso il protagonista è un samurai di basso rango di nome Mimura Shinnojo, interpretato da Kimura Takuya. Egli è insoddisfatto della sua posizione a corte, dove insieme ad altri samurai assaggia il cibo destinato al proprio signore, per scongiurarne l’avvelenamento. In una di queste occasioni, Shinnojo mostra i sintomi dell’intossicazione e, in preda alla febbre e al forte malessere, si risveglia solamente dopo 3 giorni di sofferenze. La realtà è però dura da accettare: dato che la tossina ingerita gli ha provocato una cecità irreversibile, la sua presenza a corte sembra essere divenuta inutile, e Shinnojo pare destinato alla rovina economica. Tuttavia, il signore di cui è al servizio lo grazia e gli concede il mantenimento della rendita annuale, senza ulteriori spiegazioni. La trama si infittisce nel momento in cui si comprende che Kayo, moglie devotissima di Shinnojo, potrebbe avere avuto un ruolo in questo avvenimento benevolo e inatteso. Troviamo nelle scene del film tutto l’orgoglio, il senso del dovere e dell’onore di un samurai che, per la sfortuna capitatagli, si ritiene ormai inutile dentro un sistema che non protegge i più deboli e in cui il fallimento non viene accettato. Di qui il timore alla sconfitta, seppur non quello nei confronti della morte, che mai spaventa il samurai che fa proprie le regole del bushidō. Inoltre, come in The Hidden Blade, la linearità e la sobrietà del racconto e delle riprese caratterizzano l’opera di Yamada, con personaggi brillantemente presentati e approfonditi nella loro struggente emotività e ricchezza.
L’ultimo film di cui parleremo oggi si stacca del tutto dal genere samuraico. Stiamo parlando di Tōkyō Kazoku, un lungometraggio drammatico del 2013. Shūkichi e Tomiko sono una coppia di anziani che vive in una piccola isola nel mare di Seto. Un giorno con la scusa di porgere le condoglianze alla vedova di un amico decidono di recarsi a Tokyo per far visita ai loro tre figli che ormai da tempo si sono trasferiti nella metropoli: Koichi, il figlio maggiore, gestisce un ospedale; Shigeko possiede un salone di bellezza e Shoji, il più piccolo, lavora come allestitore di scenografie del teatro kabuki, anche se sembrerebbe non sforzarsi troppo per cercare un solido progetto di vita. Tra litigi e disavventure la famiglia rimane sempre molto distaccata, ad un certo punto però un drammatico evento cambierà le carte in tavola. Tutto questo viene rappresentato dal regista con grande delicatezza e soprattutto attenzione all’ immagine complessiva delle scene, che evocano forti emozioni e permettono allo spettatore di comprendere esattamente i sentimenti dei personaggi coinvolti.
E con questo video termina il nostro approfondimento su Yamada Yōji! Continuate a seguirci per scoprire tante altre curiosità sul cinema giapponese e i suoi cineasti. Potete guardare il nostro video qui. A presto!
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