I Fishmans sono stati una band giapponese dalle influenze dub, dream pop, funk rock (ma non solo) attiva principalmente tra il 1987 e il 1999, formata dal cantante, chitarrista e trombettista Shinji Sato, il batterista Kensuke Ojima, il bassista Yuzuru Kashiwabara e il tastierista Hasake-Sun (il cui vero nome è sconosciuto).
Fino al 1994, precedentemente al rilascio dell’album “Orange”, era presente nel gruppo anche il chitarrista Kensuke Ojima, poi rientrato nel gruppo anche nel 1999.
La band, dopo la morte del cantante Shinji Sato avvenuta nel 1999, continua tutt’oggi ad esibirsi sporadicamente live, e ha anche rilasciato della musica scritta quando Shinji Sato era ancora in vita, rimanendo una band attiva ad intervalli irregolari.
I Fishmans, rimasti relativamente underground nel corso della loro carriera, acquisirono poi con internet un grosso seguito internazionale, diventando tra le band più importanti del panorama musicale anni ’90 giapponese.
“Orange” è il quarto album del gruppo, uscito nel 1994.
L’album, composto da nove tracce, si apre con il brano “Intro”, breve traccia di 23 secondi dal sapore funk che è una vera e propria introduzione, per l’appunto, al brano successivo (“Kibun”), rappresentando a tutti gli effetti uno spezzone di questo e dando quindi un veloce anticipo su ciò che si potrà poi ascoltare nella successiva traccia. Allo stesso tempo “Intro” anticipa a livello di sound ciò che può essere ritrovato nell’album.
“Kibun” è il primo brano vero e proprio dell’album, che come introdotto da “Intro” presenta delle chiare sonorità funk, con una linea ritmica formata da un basso e una batteria con un gran groove, una chitarra ritmica estremamente funk e una seconda chitarra che propone delle melodie che regalano al pezzo anche delle sfumature un po’ più rock.
La voce androgina del cantante e l’organo in sottofondo richiamano il funk anni ’70, mentre i riff di chitarra funk-rock nella strofa richiamano molto il funk anni ’90 (d’altronde decade di uscita dell’album) dei Red Hot Chili Peppers.
L’album prosegue con “Wasurechau Hitotoki”: anche in questa traccia possiamo ritrovare le influenze funk, con dei suoni a tratti tendenti all’hip hop. La voce del cantante ancora una volta si presenta come estremamente suggestiva e raffinata, con un ritornello decisamente orecchiabile.
Il successivo brano, “My Life”, è un brano più tendente al pop, dalle sonorità più dreamy e a tratti anche jazzy, con melodie che sanno rapire l’orecchio.
“Melody” è una traccia che riprende ma con ancora più enfasi la frenesia dei brani precedenti, con una bella e movimentata linea di basso dal sapore quasi jazz e un assolo di chitarra nel mezzo sporco che accantona la melodia in favore dell’energia, seguito da un crescendo emotivo che culmina con un assolo di organo e una batteria sempre incalzante e convincente.
Il successivo brano “Kaerimichi” inizia con un’intro onirica seguita da un verso in cui si possono sentire a pieno le influenze dub e dream pop della band. Brano molto “laid-back”, un momento più calmo dopo la incalzante “Melody”.
“Kansha (Odoroki)” è un brano che riprende le influenze funk viste in precedenza, con quasi un richiamo al City Pop giapponese anni ’80, decade precedente all’uscita dell’album, e una chitarra ritmica funk incalzante.
L’album prosegue con “Woofer Girl”: anche in questa traccia si possono trovare le influenze dub della band, con la sempre suggestiva voce del cantante, e un finale che richiama i migliori momenti della musica raggae.
La conclusione de’album avviene con “Yoru no Omoi”: traccia che presenta un forte sapore hip hop anni ’90 nella strumentale di basso, batteria e tastiera, con le solite accattivanti melodie della voce, e una chitarra minimal a tratti funk e a tratti più volta al creare suoni che donino un’atmosfera più dreamy/psichedelica al brano, con anche la presenza di una chitarra acustica. La traccia si chiude con un’orecchiabile melodia con cori che sfuma chiudendo appunto l’album.
L’album, molto variegato e divertente, rappresenta sicuramente un must per chi vuole approcciarsi ai Fishmans.
Recensione di Calogero Frangiamone
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