Film che ha colpito buona parte del pubblico e della critica internazionale, Himizu è un film girato dal noto regista giapponese Sono Sion (già regista di Love Exposure) e ambientato nella desolata Fukushima post-disastro nucleare del marzo 2011. Fu lanciato lo stesso anno, prendendo spunto dal manga omonimo ad opera di Minoru Furuya, uscito in realtà una decina di anni prima. Da subito Himizu riscosse enormi riconoscimenti, fino ad essere inserito in concorso al 68° Festival del Cinema di Venezia, dove fu premiata la straordinaria interpretazione del diciannovenne Sometani Shota. Il setting post-apocalittico, la violenza e le conseguenze derivate dall’umano istinto di sopravvivenza fanno di Himizu un vero reportage sulle estreme difficoltà, da parte delle popolazioni colpite, di un ritorno alla normalità.
Lo stesso titolo è già di per sé invitante agli occhi dello spettatore straniero. La parola in katakana ヒミズ è traducibile in italiano con l’espressione nascosto dal sole ed è in questo modo che i giapponesi chiamano l’animale che più di tutti conduce una vita immerso nell’oscurità, ossia la talpa. “Avrei voluto essere una talpa, un himizu“: queste le parole del giovane protagonista Sumida, un ragazzo che, ancor prima del disastro, è vittima di continui soprusi e derisioni da parte del padre; quest’ultimo spesso rimprovera al figlio la sua stessa nascita, evento che ha condotto lui e l’ormai ex moglie alcolizzata ad annullare ogni speranza di condurre una vita normale. Sumida si ritrova a vivere solo in una casetta fatiscente sulle rive di un fiume; suoi unici vicini sono un gruppo di adulti e anziani un po’ strambi che, come lui, hanno perso tutto nel disastro e cercano di tirare avanti alla meno peggio, vivendo in tende o addirittura dentro a barili. In questo clima di perduta innocenza e serenità, Sumida sogna di diventare semplicemente un uomo comune. Allo stesso tempo, in una grande e lussuosa villa, una compagna di classe di Sumida, Chazawa Keiko, vive una vita all’apparenza agiata e normale, ma segnata anch’essa da profonde discordanze tra la ragazza e la madre, anch’ella pentita, come il padre di Sumida, della nascita della propria figlia. Keiko è pazzamente innamorata di Sumida, al punto da trascrivere ogni sua singola parola sui muri della propria stanza, nel disperato tentativo di ritrovare in esse un seppur fioco bagliore di speranza.
In questa dimensione post-apocalittica, i nostri personaggi cercano costantemente un appiglio a quel briciolo di umana bontà e solidarietà che ancora si insinua nei loro corpi, per quanto possibile: l’esempio lampante si ritrova in uno degli anziani “vicini” di Sumida il quale, pur di garantire un futuro al ragazzo rimasto ormai senza genitori, commette l’errore di entrare in un malato giro mafioso nel tentativo di estorcere qualche milione di yen e donarli al giovane. E proprio gli esponenti della yazuka sono solo alcuni dei volti mostruosi della società che il regista introduce nel suo film, in maniera quasi caricaturale, se non addirittura comica o demenziale (in certi momenti sembra quasi di essere catapultati in un tipico film yakuza, per l’appunto); seguono poi killer efferati, pervertiti di ogni sorta, emarginati che hanno reciso definitivamente ogni legame umano. Di conseguenza, lo spettatore non è tenuto a parteggiare per quel tale personaggio, poiché nessuno prevale sull’altro in termini di umanità; non esiste nessun eroe, nel vero senso della parola. In effetti, tutti commettono errori (o, ciò che è peggio, crimini): lo stesso Sumida, incarnatosi ormai in un “paladino della giustizia” al limite dell’esasperazione, arriverebbe addirittura ad uccidere pur di far valere i suoi ideali, nel tentativo continuo di sradicare il male che aleggia nel mondo. L’unica spalla che effettivamente gli rimane è proprio Keiko, la ragazza con la quale inizialmente non riusciva a trovare un dialogo: lei non lo abbandonerà, a costo di dover aspettare anni, poiché la speranza di tornare insieme ad un Giappone pre-3/11 esiste. E’ fioca e lontana, ma esiste.
(Recensione di Sara Martignoni)
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