Wednesday Campanella – Galapagos (2018)

I Suiyōbi no Kampanera (水曜日のカンパネラ, in inglese Wednesday Campanella) sono un gruppo musicale formato nel 2012 da Kenmochi Hidefumi (musica, testi), Dir.F (Yasuhiro Fukunaga, direttore) e KOM_I (“Komuai” Misaki Koshi, voce) che è l’unico membro ad esibirsi sul palco. Il nome del gruppo fa riferimento al fatto che il trio si riuniva in sala prove sempre il mercoledì.

La loro discografia è costituita da diversi mini-album e album, tra cui Watashi wo Onigashima ni Tsuretette (2014) che include il singolo di successo Momotarō e SUPERMAN (2017).

Stavolta vi presentiamo il loro ultimo album in studio, Galapagos.

 

Titolo: Galapagos (ガラパゴス)

Anno di rilascio: 2018

Casa discografica: Warner Music Japan INC.

Tracce: 8

Durata: 36 minuti

 

Tracklist

  1. The Bamboo Princess
  2. Minakata Kumagusu
  3. Picasso
  4. Melos
  5. Matryoshka ft. Moodoïd
  6. Three Mystic Apes
  7. The Sand Castle
  8. A Cat Called Yellow

Non il solito J-pop

Come i precedenti lavori del gruppo, tratta tematiche incentrate sul folklore giapponese e su grandi personalità (Picasso). L’album si apre proprio con una traccia su Kaguya-hime, un classico della tradizione del X secolo: la storia della bambina trovata in una canna di bambù che diventa una bellissima principessa, la quale si scopre essere proveniente dalla luna. Il video musicale unisce alla perfezione questi elementi di tradizione popolare ad altri squisitamente contemporanei con un tocco avant-garde. Da notare inoltre Melos, ispirata dal racconto 走れメロス (Run, Melos!) di Dazai Osamu, e Matryoshka, con alcuni versi in francese.

Il sound non è quello del solito J-pop: include elementi sperimentali, di art pop ed elettronica. Se all’inizio dell’album ha toni più vivaci, verso la fine ne acquisisce di più tenui, soffusi e malinconici. Stessa cosa per i testi, solo nelle prime tracce ironici e colmi di giochi di parole e riferimenti per noi difficili da cogliere.

Come suggerisce il titolo, Galapagos è un album dai toni esotici e piacevole all’ascolto.

 

— recensione di Eleonora Cuccu.

69 Sixty-Nine (1987) – Murakami Ryū

Autore: Murakami Ryū

Titolo originale: シクスティナイン Shikusutinain

Editore: Atmosphere Libri

Traduzione e postfazione: Gianluca Coci

Edizione: 2019

Pagine: 200

Un’eccellenza degli anni ’80

Il Giappone degli anni ’80 è una nazione all’apice del successo economico: dopo la prostrazione seguita alla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, la nazione del Sol Levante in pochi anni si ricostruisce e si afferma come potenza economica mondiale. Figlia degli anni ’70 e ’80 è una letteratura nuova, fresca: autori giovani trattano nuove tematiche per un nuovo pubblico. Il confine tra jun bungaku (letteratura pura) e taishū bungaku (letteratura popolare) va via via dissolvendosi sempre più. Scrittori come Murakami Haruki e Yoshimoto Banana si impongono su scala nazionale prima e mondiale poi. Ma una delle prime opere a rivoluzionare il panorama letterario giapponese è del 1976: Kagirinaku tōmei ni chikai burū (Blu Quasi Trasparente), del ventiquattrenne Murakami Ryū. Nonostante la scabrosità dei temi trattati (dipendenza da droghe, sesso promiscuo, suicidio), l’opera si aggiudica il Premio Akutagawa, il più prestigioso premio letterario giapponese, riservato agli autori di jun bungaku. Metà della giuria si dimette in segno di protesta, ma Murakami entra di diritto nell’albo delle eccellenze della letteratura giapponese di quegli anni. Oltre che come scrittore di romanzi, si afferma anche come saggista e, soprattutto, regista. Molte delle sue opere sono trasposte da egli stesso sul grande schermo. Nel 1987 esce Sixty-Nine, sesto romanzo dell’autore, che lo consacra come uno dei pilastri della letteratura giapponese contemporanea.

L’odio verso il potere

69 segue le vicende dello studente diciassettenne Yazaki Kensuke, soprannominato semplicemente Ken, voce narrante del romanzo. Ambientata in una città del Kyūshū occidentale dominata da una base militare americana, l’opera ritrae alla perfezione il fermento giovanile di fine anni ’60. Siamo in piena rivoluzione studentesca, le contestazioni sono all’ordine del giorno ed ogni pretesto è buono per creare scompiglio. In un contesto di dilagante sovversivismo, gli obiettivi principali di Ken sono lo shooting di un film, l’organizzazione di un festival e l’occupazione del tanto odiato liceo. Proprio così, perché il sentimento che domina il cuore dei giovani ribelli, protagonisti del romanzo, è l’odio verso l’ordine costituito, le istituzioni ed il potere. Un odio che il più delle volte si dimostra cieco, basato su ideologie frutto del “sentito dire” e della disinformazione. Tragedie come il massacro di Nanchino o la guerra del Vietnam, spacciate per cause contro cui nobilmente battersi, si rivelano in realtà un pretesto per scagliare la propria rabbia sulle vecchie generazioni.

“Li avrei massacrati di botte (i professori, ndr), pensavano solo alle regole e alle convenzioni. Università, lavoro, matrimonio: erano i loro dogmi, tutti i loro ragionamenti si basavano sulla certezza che quella fosse l’unica strada per raggiungere la felicità.”  

Una scrittura divertita

Murakami è lucido ed obiettivo nel mettere a nudo anche questo aspetto, il meno lodevole della rivoluzione hippie, vale a dire la protesta senza reali fondamenti ideologici. Ma è altrettanto abile nel trascinare il lettore dalla parte dei giovani combattenti schierati contro i poteri forti, in un impeto di rabbia adolescenziale senza limiti. Il tutto con una prosa divertita e divertente: Murakami manipola la lingua a suo piacimento, così come i suoi personaggi. Ken di norma si esprime in giapponese dialettale, ma per darsi un tono di austerità ricorre ad un perfetto giapponese standard. Non è raro, peraltro, che Murakami tenda a spiazzare il lettore, creando delle vere e proprie illusioni narrative. Scenari frutto dell’immaginazione dei personaggi, che sono smentiti nel giro di poche righe. Il risultato è una scrittura che diverte l’autore e, di conseguenza, il lettore. Lo stesso Murakami afferma, nella postfazione alla prima edizione del romanzo, di non aver mai scritto nulla di così divertente.

“Neanche il tempo di dirglielo e Shirogushi tirò fuori un coltello e me lo piantò nella coscia… No, non è vero, per fortuna accadde solo nella mia immaginazione, però mi afferrò per il colletto e a momenti mi alzava da terra.”

La citazione come ostentazione

Nel romanzo è molto più che frequente l’utilizzo della citazione: la maggior parte dei titoli dei capitoli sono rimandi ad artisti, poeti, album, attori, band. “Arthur Rimbaud”, “Claudia Cardinale”, “Alain Delon”, “Cheap Thrills, “Wes Montgomery”, “Led Zeppelin” sono solo alcuni di questi titoli. Murakami è strettamente connesso alla cultura occidentale dell’epoca e non lo nasconde. Lo stesso Blu Quasi Trasparente si muove sulla medesima lunghezza d’onda, raccontando le avventure di giovani scapestrati che trascorrono le loro giornate ascoltando dischi dei Doors e dei Rolling Stones. In 69, per giunta, la citazione ha un ruolo fondamentale per gli stessi protagonisti, in quanto ostentazione di cultura. Ken sfoggia ed esibisce con vanto le sue letture e i suoi ascolti, talvolta per apparire più maturo di quanto realmente non sia, talvolta per fare colpo sulla bellissima “Lady Jane” Kazuko. Godard e Rimbaud diventano pretesti per far sentire inferiore l’amico Adama, Bookends di Simon & Garfunkel un argomento di conversazione per approcciare Kazuko.

“E cosa pensi di fare? Lettere?”
“No, neanche per sogno”
“Ma allora perché leggi quelle poesie?”
 
Rimasi zitto per un attimo, non potevo mica dirgli che lo facevo per rimorchiare.                                                                                                                                                                       
                                                                                                                                                                

   

Riferimenti autobiografici

Murakami Ryū nasce nel 1952: nel 1969 ha perciò diciassette anni, così come il protagonista di 69. Da giovane suona come batterista in una band dal nome Coelacanth, esattamente come il protagonista di 69. Proprio nel 1969 Murakami e compagni si barricano sul tetto del loro liceo e lo occupano a suon di slogan pacifisti: lo stesso tipo di occupazione che avviene nel romanzo. Definire 69 un’autobiografia è certamente riduttivo, ma non mettere in luce i riferimenti autobiografici presenti nel testo risulterebbe altrettanto fuorviante. Murakami non è nuovo a questo genere di rimandi: il già citato Blu Quasi Trasparente (di cui consiglio caldamente la lettura) è pieno zeppo di riferimenti all’esperienza giovanile dell’autore. I richiami autobiografici, se vogliamo, sono ancora più palesi, dal momento che è proprio il protagonista del romanzo a chiamarsi Ryū. 69 è allo stesso modo un’opera semi-autobiografica, seppur in modo meno diretto e più velato. La vera differenza la fanno i toni, che in 69 sono sicuramente meno scuri e, come già detto, più divertiti. Blu Quasi Trasparente è tragico, nichilista; 69 è psichedelico, nostalgico, dominato dal Peace & Love. Il confronto tra i due romanzi e la veridicità dei riferimenti autobiografici sono approfonditi nell’interessante postfazione di Gianluca Coci, traduttore dell’opera.

Conclusioni

Certamente un romanzo coinvolgente sotto ogni punto di vista. Murakami Ryū ha purtroppo riscosso meno successo rispetto all’omonimo Haruki, soprattutto all’estero. È tuttavia un autore che sa trattare tematiche importanti in modo mai banale. Persino nei romanzi più “leggeri”, come nel caso di 69, lascia spazio ad importanti spunti di riflessione: bucando la sottile coltre di comicità con cui Murakami avvolge il romanzo, il lettore si può concentrare sull’analisi del contesto storico-sociale che l’autore gli presenta. È il romanzo della maturità, in cui Murakami sveste i panni del giovane scapestrato di Blu Quasi Trasparente ed indossa quelli dell’uomo adulto che guarda con disincanto al proprio passato. Il mio consiglio, perciò, è di leggere di entrambe le opere, al fine di ottenere una panoramica più vasta su questo straordinario autore.

— recensione di Pietro Spisni


Guarda anche:

 

 

 

 

 

 

Ogawa Yōko – L’isola dei senza memoria

Autore: Ogawa Yōko

Titolo originale: 密やかな結晶 – Hisoyakana kesshō

Editore: Il Saggiatore

Traduzione: Laura Testaverde

Edizione: 2018

Pagine: 302

 

L’autrice

Ogawa Yōko (小川 ・洋子) è un’autrice contemporanea giapponese. Nata nel 1962, si è laureata in lettere e letteratura all’Università di Waseda, Tokyo.

Il suo romanzo d’esordio “Quando la farfalla si sbriciolò (揚羽蝶が壊れる時 – agehachō ga kowareru toki, 1988) ha ottenuto il premio letterario Kaien. I due romanzi successivi “Una perfetta stanza d’ospedale” (完璧な病室- kanpekina byōshitsu, 1989) e La piscina (ダイビングプル – daibingu puru, 1989), sono stati nominati per il premio Akutagawa. Il celebre racconto La gravidanza di mia sorella (妊娠カレンダー – ninshin karendā), invece, è stato premiato nel 1990 e pubblicato sul New Yorker nel 2004. La sua opera più conosciuta all’estero è “La formula del professore” (博士の愛した数式- hakase no aishita sūshiki, 2004), vincitrice del premio Yomiuri e best seller in Giappone, da cui è stato tratto un film nel 2006.

“L’isola dei senza memoria” (密やかな結晶 – hisoyakana kesshō) è stato pubblicato in Giappone nel 1994, in Italia solo nel 2018.

Trama

La vicenda è ambientata in una realtà distopica, su un’isola i cui abitanti sono costretti giorno dopo giorno a dimenticare. O meglio, vengono rimossi periodicamente dalle loro menti tutti i ricordi associati a determinati oggetti o azioni. La mattina, svegliandosi, percepiscono nell’aria un cambiamento e sanno che qualcosa è stato “cancellato” e che presto non riusciranno più a ricordare la sua funzione. Con un ultimo sguardo nostalgico dicono addio alle rose, ai profumi, alle fotografie, prima di distruggerli o abbandonarli. La popolazione si arrende impotente di fronte allo svanire delle emozioni associate a quegli oggetti, ne dimentica il nome e non prova nemmeno rimpianto per ciò che hanno perso. Rimangono i relitti delle barche, ma nessuno sa più come usarle per fuggire.

La società è regolata da questo rigido meccanismo e la misteriosa “polizia segreta” ha il compito di vigilare sul suo funzionamento, rimuovendo ogni ostacolo fisico. E se qualcuno, invece, per motivi sconosciuti, riuscisse a ricordare? Questo mondo surreale è visto attraverso gli occhi della giovane protagonista, che si affida alla scrittura nella continua speranza che le parole non vengano cancellate.

Il potere della memoria

Il tema centrale del romanzo è l’importanza della memoria, singola e collettiva. Su quest’isola senza nome, in un tempo imprecisato, ricordare è un crimine; chi disubbidisce è perseguitato e costretto a nascondersi o ad essere portato via. Questo regime totalitario priva i cittadini dei loro oggetti quotidiani, dei calendari, dei libri, della loro libertà di conservare l’idea delle cose nel tempo. Le separazioni materiali sono usate dall’autrice come simboli della perdita del concetto stesso di “umanità”.

Con la scelta di una scrittrice come protagonista, le parole si fanno concretizzazione della memoria. La letteratura diventa un mezzo sovversivo attraverso il quale dare voce a chi non ne ha, come una macchina da scrivere permette a una dattilografa muta di comunicare. Ma cosa rimarrà, alla fine, di questa voce?

L’isola dei senza memoria” descrivendo una realtà alienata e distopica alla Orwell, è un monito a non sottovalutare le libertà che ci sembrano scontate e che definiscono la nostra identità passata, presente e futura.

 

– di Cecilia Manfredini


Guarda anche:

Dazai Osamu – La studentessa e altri racconti

Matsumoto Seichō – Come sabbia tra le dita

Edogawa Ranpo – La strana storia dell’isola Panorama