Amore (1959)
Autore: Inoue Yasushi
Titolo originale: Ai
Editore: Adelphi Edizioni
Collana: Piccola Biblioteca Adelphi
Traduzione: Giorgio Amitrano
Edizione: 2006
Pagine: 118
Inoue Yasushi
Laureatosi nel 1936 presso la prestigiosa Università di Kyōto, una delle università imperiali nonché la seconda più antica del Giappone, Inoue Yasushi pubblicò la sua prima opera soltanto nel 1949, all’età di quarantuno anni. Fin da subito furono riconosciute le sue abilità: vinse il premio Akutagawa nel 1950, uno dei premi letterari per scrittori emergenti più prestigiosi di tutto il Giappone. La sua produzione si compone essay writers principalmente di romanzi storici, tra cui Honkakubu Ibun (lett. “il testamento di Honkakubu”), la sua ultima opera, che raggiunse notevole popolarità attraverso la sua trasposizione cinematografica di fine anni ’80 intitolata Morte di un maestro del tè, vincitore del Leone d’Argento alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 1989.
Ai (Amore)
Sebbene tardivo, Inoue fu estremamente prolifico, e nel 1959 pubblicò un libro composto da tre brevi racconti, intitolato Amore. Tre racconti per tre amori diversi: l’amore passato che non si può dimenticare e che consuma il presente; un amore meno impetuoso e meno totalizzante ma non per questo meno memorabile; infine l’amore che come una nuova brezza ravviva la fiamma della vita e dona speranza per il futuro.
Seiteki (Il Giardino di rocce)
Il primo dei tre racconti s’intitola “Il Giardino di rocce”. In questa storia Uomi, da poco sposato con Mitsuki, che è più giovane di lui di una decina d’anni, decide di andare a Kyōto in luna di miele. L’antica capitale, però, è per Uomi un pozzo di memorie degli anni universitari, e, invece che creare nuovi ricordi insieme alla moglie, finisce per ignorarla in favore del ricordo di passioni passate. La storia finisce con Uomi che viene abbandonato dalla giovane sposa, pentita del proprio matrimonio.
Kekkon kinenbi (Anniversario di matrimonio)
La seconda storia narra in realtà di un ricordo di un giovane vedovo, Karaki Shunkichi. Due anni prima era partito con la moglie per un breve viaggio in onore del loro anniversario di matrimonio, viaggio che si erano concessi solamente perché Shunkichi aveva vinto alla lotteria diecimila yen. Questo breve viaggio venne, ad ogni modo, ulteriormente accorciato data l’estrema tirchieria della coppia, che finirà per passare quasi tutta la giornata in treno per poi tornare a casa la sera stessa. È un evento di poco conto in sé e per sé, ma l’autore sembra volerci mostrare come l’amore sia degno di essere celebrato anche attraverso ricordi semplici di momenti passati insieme.
Shi to koi to nami to (La morte, l’amore, le onde)
La terza e ultima storia racconta le vicende di Sugi Sennosuke, un giovane uomo di trentasette anni che si trova a pernottare in un piccolo hotel sul mare e che ha ormai deciso di togliersi la vita di lì a poco. Nell’hotel è presente solo un’altra cliente, una giovane ragazza di nome Nami, che si capirà ben presto intende anch’essa suicidarsi, lanciandosi dalla scogliera vicina. Nel momento in cui Sugi decide di aiutare la giovane Nami a vivere, si riaccende inconsciamente in lui un istinto alla sopravvivenza, una ragione valida per continuare a vivere.
Come le onde nel mare
Nei primi due racconti Inoue usa il ricordo e l’atto del ricordare sia per dare validità ad amori persi che per mostrare la forza totalizzante che questi amori possono avere sulle persone. Se, in particolare nel primo racconto, gli effetti dell’amore hanno conseguenze distruttive, invalidanti, ne “La morte, l’amore, le onde”, Inoue aggiunge l’ultimo tassello alla discussione. Qui ci mostra infatti come la passione amorosa possa ridare senso ad una vita che sembrava ormai persa. L’amore è come un’onda (non a caso nami significa appunto onda) che ti travolge e ti trasporta dove vuole lei. Potrebbe salvarti, trasportandoti sano e salvo a riva, oppure potrebbe essere la tua fine, spingendoti contro gli scogli rocciosi.
— recensione di Giulio Venturi
Gli omicidi dello zodiaco – Shimada Sōji
Autore: Shimada Sōji
Titolo originale: Senseijutsu satsujin jiken
Editore: Giunti Editore
Collana: M
Traduzione: Giovanni Borriello
Edizione: 2017
Pagine: 336
Come possono “astrologia” e “investigazione” trovarsi nello stesso libro? La prima è spesso denigrata, ridotta a un passatempo per quelli che credono nel soprannaturale. La seconda invece è l’opposto: logica, fredda, ancorata alla realtà, che segue uno schema ben preciso. Ebbene, Shimada Sōji riesce a guadagnarsi la fama proprio unendo questi due mondi che sembrano completamente opposti. Uscito in Giappone nel 1981, riusciamo a mettere le mani su questo libro solo nel 2017 grazie a Giovanni Borriello che lo traduce. Gli omicidi dello zodiaco è il risultato di quella riscoperta dei romanzi noir da parte del Giappone cominciata intorno agli anni ’20.
Un caso controverso
Mitarai Kiyoshi e Ishioka Kazumi riprendono in mano un caso vecchio di decenni, rimasto insoluto a causa del caos scatenato dalla Seconda Guerra Mondiale. Tutto ruota attorno a Umezawa Heikichi, artista, alchimista e appassionato di astrologia, un uomo solitario che passa la maggior parte del tempo nel suo studio. Un giorno, proprio qui viene ritrovato morto con il cranio spaccato, ma la porta dell’edificio è chiusa dall’interno. In più, fra gli oggetti presenti spiccano alcuni strani appunti. Riguardano la creazione della donna perfetta, Azoth, che Umezawa progettava di portare in vita usando parti del corpo delle sue due figlie, due figliastre e due nipoti, basandosi sul segno zodiacale di ognuna. Lui muore lasciando il suo “capolavoro” incompiuto, ma le ragazze vengono trovate ugualmente morte un mese dopo, proprio nel modo indicato da Umezawa. C’è davvero un nesso fra queste morti? Il grande piano di Umezawa è stato forse portato avanti da qualcun altro?
Nonostante la grande quantità di nomi e di informazioni inizialmente possa spaventare, lo scrittore riesce ad equilibrare perfettamente le dettagliatissime dinamiche del caso, il contesto storico e gli scambi di battute sarcastiche e divertenti tra i personaggi. E quello che coinvolge maggiormente è proprio la sfida che lancia Shimada stesso, affermando che il lettore ha in mano tutti gli strumenti per risolvere il caso prima che la soluzione venga svelata. Vi sentite pronti a raccogliere il guanto?
Per gli appassionati di gialli e non
Shimada affronta in modo brillante e originale quello che potrebbe sembrare un enigma della camera chiusa, perché lo trasforma in qualcosa di nuovo e inesplorato. Si apprezzano i dettagli che si è premurato di inserire, le ricerche che ha fatto, la tradizione che si intreccia con la modernità e quel pizzico di soprannaturale che movimenta un po’ la vita di ciascuno di noi. Piacevole e scorrevole, più giallo che thriller, questo libro è un intrigante passatempo che vi metterà alla prova e dal quale rimarrete piacevolmente sorpresi.
– recensione di Francesca Panza
Guarda anche:
Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto
Autore: Ogawa Yōko
Titolo originale: 猫を抱いて象と泳ぐ (Neko wo Daite Zō to Oyogu)
Editore: Il Saggiatore
Collana: La Cultura
Traduzione: Laura Testaverde
Edizione: 2015
Pagine: 237
Il romanzo ha come protagonista un bambino, di cui non sappiamo il nome, che ha una particolarità fisica piuttosto bizzarra. Appena nato, le sue labbra sono completamente serrate. I medici lo operano immediatamente, e per ricostruire le labbra lacerate utilizzano un pezzo di pelle asportato dallo stinco del neonato. Questo causerà la crescita, seppur lieve in un primo momento, di una leggera peluria sulle sue labbra. Come se non bastasse questo a renderlo bersaglio dei suoi coetanei a scuola, il bambino è molto taciturno e non ha amici o passatempi. Gli unici con cui si sente a suo agio sono Indira, un’elefantessa morta molto tempo prima sul tetto dei grandi magazzini, e Mummia, una misteriosa bambina rimasta intrappolata nello spazio stretto fra i muri di due abitazioni, una delle quali è proprio quella del nostro protagonista. In lui cresce quindi l’idea che la parola non sia necessaria di per sé, e che sarebbe stato meglio rimanere nel silenzio della sua bocca chiusa, come quando era un neonato.
Il poeta sotto la scacchiera
Ciò che cambia per sempre la sua vita, è l’incontro col Maestro, un ex-conducente che vive in un vecchio autobus fuori servizio assieme al suo gatto bianco e nero, Pedone. Qui, accompagnato dalle golose merende del Maestro, il bambino imparerà a giocare a scacchi sul suo tavolino-scacchiera. Mostra subito una predisposizione naturale, ma qualcosa sembra non funzionare. Durante le partite, il bambino sente un’ansia schiacciante che non gli permette di concentrarsi al meglio. Decide quindi di accovacciarsi sotto al tavolino e di prendere in braccio Pedone, cercando di tranquillizzarsi. Il Maestro non dice nulla, come se capisse la naturalezza di quel gesto, e il bambino ritrova la serenità. Riesce a immaginare la scacchiera guardando la superficie inferiore del tavolo e a capire le mosse dell’avversario dal solo suono che emettono i pezzi. Sarà il primo passo perché gli venga attribuito, in omaggio al magnifico “poeta sulla scacchiera”, il famoso scacchista russo Aleksandr Alechin, il soprannome di Little Alechin, il “poeta sotto la scacchiera“.
Il mare degli scacchi
La metafora più ricorrente del romanzo è quella del “mare degli scacchi“. Il gioco infatti non viene percepito come tale, o come semplice sport, ma come l’esplorazione di un infinito mare di possibilità. Un luogo in cui nuotare da soli può sembrare spaventoso, ma che per il bambino non è così. Lui ha con sé Indira, Mummia e Pedone, una squadra formidabile in grado di trovare un varco di luce anche nel buio del fondale marino. Il Maestro gli ha insegnato a nuotare, ma col tempo il bambino dovrà imparare a cavarsela da solo, cercando di fare sempre “la mossa migliore, non la più forte“.
L’uomo lanciò il bambino nel mare degli scacchi e lo guidò nel tracciare un percorso ineguagliabile senza intimorirsi al cospetto di nessuna fossa oceanica, per quanto profonda, e di nessuna corrente, per quanto fredda.
L’automa
Nonostante giocare sotto alla scacchiera sia la base della strategia del ragazzo, si renderà presto conto che nessun circolo potrebbe mai accettare una condizione simile. Ma ecco che arriva l’idea, presa in prestito dall’inventore ungherese Wolfgang von Kempelen: il Turco.
Il Turco
Il Turco fu un automa costruito nel 1769 dal barone von Kempelen per l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che ne rimase subito affascinata. Era composto dal pupazzo di un uomo mediorientale con tanto di turbante, attaccato a una cassa di legno con scacchiera, che al suo interno rivelava i complessi marchingegni atti a farlo muovere. Ciò che mancava, era la presenza dell’uomo. Si diceva che potesse giocare a scacchi in completa autonomia e senza perdere mai. Incontro dopo incontro, la sua fama crebbe, tanto da farlo girare in tutta Europa e sbarcare negli Stati Uniti. Fra i personaggi più celebri che persero contro di lui, ricordiamo Giorgio III, Benjamin Franklin, Napoleone e Federico II di Prussia. Per molto tempo il Turco Meccanico venne studiato dalle più grandi menti, perfino da esorcisti, ma senza capirne il funzionamento. La svolta arrivò con le intuizioni di Edgar Allan Poe, che capì in che modo il giocatore “umano” all’interno della macchina riuscisse a muoversi e a mascherare la sua presenza. Il Turco venne avvolto dalle fiamme di un incendio nel 1854 e sarà il figlio dell’ultimo proprietario a fornirci ulteriori dettagli sull’invenzione qualche anno dopo.
Little Alechin
Al circolo di scacchi decidono quindi di costruire un automa sulla falsa riga del fantoccio messo a punto dal barone, in cui il bambino possa giocare indisturbato. Collegato al tanto amato tavolino-scacchiera del Maestro e tenendo in braccio la riproduzione di Pedone, si rivela il nascondiglio perfetto. E quale volto migliore di Aleksandr Alechin? Da qui, Little Alechin comincia a manovrare i meccanismi interni di Little Alechin, sfruttando la dimensione ridotta del suo corpo. Ma a differenza dell’automa originale, non sono necessarie scacchiere o candele per creare le condizioni agevoli per riprodurre la partita all’interno della cassa di legno. Il bambino continua a giocare guardando la faccia inferiore della scacchiera, immerso nell’oscurità, nuotando con i suoi affetti più cari nell’immenso mare degli scacchi.
Conclusione
Ognuno dei personaggi che incontreremo in questo viaggio, avrà un’idea tutta sua degli scacchi. Ma fra di loro, una costante rimane irremovibile. Gli scacchi sono l’espressione della libertà più pura dell’individuo, sotto forma di una semplice griglia 8×8. E Ogawa Yōko riesce alla perfezione a trasmettere questa sensazione, in un susseguirsi di mosse mozzafiato destinate a far innamorare.
Libro consigliato agli appassionati e non, perché sarà un vero piacere per tutti perdersi, almeno per un po’, nel meraviglioso mare degli scacchi sotto la guida del nostro Little Alechin.
— recensione di Laura Arca
Guarda anche:
Commenti recenti