21 Luglio 2021 | Registi
Siamo di nuovo qui per parlarvi dei film di Kurosawa Kiyoshi con la nostra rubrica Akushon, i registi di JFS! Partiamo da un classico della cinematografia di questo autore: Tokyo Sonata!
Fin dai primi minuti del film, il regista ci mostra che in questa storia non c’è spazio per la spensieratezza, perché si comprende subito come la famiglia Sasaki, dopo il licenziamento del padre Ryuhei dalla sua azienda, sia destinata a sprofondare in un limbo. Una impasse quasi autoimposta, che deriva anche dalle presunte dinamiche familiari imposte dalla società, e che mette in moto un lento processo di degrado degli eventi che riguarderà tutti e quattro i componenti. L’opera sottolinea per tutta la sua durata come l’ipocrisia dei due genitori e i loro comportamenti quasi folli portino i figli ad allontanarsi sempre di più dalla figura genitoriale, generando situazioni crude e spiacevoli. Anche grazie alla particolare attenzione alla fotografia e alla regia, Kurosawa fa sorgere sin dal principio una domanda in chi guarda: come farà la famiglia Sasaki ad uscire da questo ciclo di emozioni distruttive e ipocrisia?
Nel 2015, Kurosawa gira il film drammatico Kishibe no tabi, noto con il titolo di Journey to the shore. Nonostante la fama acquisita come regista horror, il regista si mette qui alla prova nel genere drammatico, portando in scena la storia di una coppia particolare costituita da una giovane insegnante di pianoforte, Mizuki, e dal marito defunto, il dentista Yusuke. I due viaggiano attraverso luoghi significativi della vita di lui, posti che l’hanno ospitato nei periodi precedenti la sua morte, regalando agli sposi una seconda, inusuale luna di miele. I protagonisti incontrano nel percorso una serie di personaggi: un indefesso venditore di giornali, una coppia che gestisce un ristorante di gyoza, un anziano contadino e la sua giovane nuora. Queste persone hanno aiutato Yusuke in vita e ora si mostrano ai protagonisti nei loro lati più intimi, le cui ferite derivano da un passato carico di sensi di colpa e del rimpianto nei confronti dei propri cari. Si crea in tutte queste storie, incastonate nella narrazione principale, un peculiare dialogo tra vita e morte, colpa e catarsi, distacco e unione, che descrivono con grazia il rapporto che la cultura giapponese dei vivi nutre con l’aldilà e i suoi abitanti.
E’ il 2016 l’anno in cui Kurosawa torna a cimentarsi nel ramo di cui è uno dei cardini: il J-horror. La storia ruota attorno alla nuova vita della coppia protagonista, il detective e professore di criminologia Koichi Takakura e la moglie Yasuko. Dopo l’incidente avvenuto in commissariato durante un interrogatorio, Koichi decide di portare il suo bagaglio criminologico nelle aule universitarie, anche per ritrovare una dimensione di vita più tranquilla con la consorte. I due traslocano in una nuova zona della città, tuttavia l’accoglienza dei vicini delle case accanto non risulta calorosa né gradevole. La tensione tende a nascondersi all’occhio dello spettatore per gran parte del film e riemerge prepotentemente solo nelle scene finali, contribuendo così a una lenta e progressiva costruzione dell’atmosfera, abilità di cui Kurosawa è maestro. Nonostante la direzione dell’intreccio narrativo sia intuibile già nella prima metà dell’opera, la capacità registica, la fotografia e l’attenzione maniacale ai dettagli più “inquietanti” rendono godibili le due ore abbondanti di film, senza intaccarne la tenace presa sull’attenzione degli spettatori. Concludiamo con due parole su Supai no tsuma.
Ci troviamo nel Giappone degli anni ‘40 e Yusaku è il direttore di una azienda di commercio internazionale che si diletta nel registrare piccoli cortometraggi con la moglie Satoko, la vera protagonista di questa storia. Dopo un viaggio di lavoro in Manciuria, Yusaku scopre un terribile crimine perpetrato dalla sua nazione e cercherà insieme alla moglie di svelarne le trame per incastrare il suo stesso paese. Kurosawa però non tratta l’opera esclusivamente come film di guerra o di resistenza, ma con grande delicatezza accompagna lo spettatore in situazioni di tradimenti e separazioni, mostrando così uno squarcio originale di quella che poteva essere la vita di un cosmopolita in quegli anni. Anche in questo caso però, il regista non si esime dal narrare le crudeltà vissute in quel periodo storico, rendendo in tal modo questo film un’opera polivalente.
Con questo terminiamo il nostro breve viaggio tra le opere di Kurosawa Kiyoshi. Vi aspettiamo al prossimo appuntamento per conoscere nuovi autori del panorama del cinema giapponese, nel frattempo, seguiteci sui nostri profili social! Potete guardare il nostro video cliccando qui. A presto!
14 Luglio 2021 | Registi
Benvenuti al nuovo appuntamento di Akushon, la rubrica dei registi di JFS! Dopo una pausa un po’ più lunga del solito, riprendiamo il filo del discorso raccontandovi qualcosa di… Kurosawa Kiyoshi!
Kurosawa nasce nel 1955 in una delle metropoli pulsanti dello Honshū, la città di Kôbe. Durante gli studi di sociologia alla Rykkyo University di Tokyo si interessa al cinema, anche grazie al contatto col rinomato critico Shigehiko Hasumi. Qui, lavora ad alcuni cortometraggi che lo porteranno alle prime importanti vittorie di premi di caratura nazionale, come il Pia Film Festival. Procede poi nel settore come assistente e aiuto regista di lungometraggi, da Kandagawa Wars del 1983, ascrivibile al genere erotico pinku tipico di quegli anni, a vari V-films e opere del sottogenere yakuza eiga.
In seguito, sul principio degli anni ’90, nonostante la ormai decennale carriera da regista professionista, si reca negli Stati Uniti per studiare film-making, con una borsa del Sundance Institute che ha vinto grazie a una sceneggiatura originale da lui scritta. Il suo trampolino artistico giunge tuttavia nel ’97, con la firma del lungometraggio The Cure, che lo consacra come uno dei maggiori rappresentanti del j-horror. A questo seguiranno altri titoli di altalenante successo, che comunque mostrano la sua indubbia capacità di rinnovamento artistico e la versatilità della sua cinepresa.
La carriera di Kurosawa Kiyoshi inizia con una serie di cortometraggi autoprodotti per mettere in pratica le nozioni apprese durante gli studi per poi, analogamente a Miike Takashi, spostarsi nel mondo del V-cinema. Con il suo primo lungometraggio Shigarami Gakuen del 1981 inizierà una lunga filmografia composta da più di 40 opere di cui sarà regista. Durante il suo percorso artistico, il regista non si limiterà a spaziare tra pink films, horror, thriller e drama ma svolgerà una vera e propria indagine stilistica e tecnica sulla propria visione registica. Tra le sue numerose opere si possono menzionare ad esempio Tokyo Sonata, film del 2008 che vanta ben 10 premi tra i quali “Un certain regard” a Cannes e Journey to the shore, pellicola drammatica che narra la storia di un’insegnante vedova e del viaggio col fantasma del suo defunto marito.
Gira inoltre Supai no Tsuma (2020), vincitore del premio golden star del Festival El Gouna e Creepy (2016), un thriller-poliziesco sul caso di una famiglia vittima di un crimine inspiegabile.
Se volete saperne di più su Kurosawa Kiyoshi e le sue opere potete guardare il nostro video cliccando qui, ci vediamo per la seconda parte mercoledì prossimo!
16 Giugno 2021 | Registi
Ben ritrovati con il consueto appuntamento con Akushon, la rubrica dei registi di JFS! Riprendiamo il filo parlando di 4 pellicole della variegata produzione di… Miike Takashi!
In Big Bang Love, Juvenile A, opera del 2006, si mette in luce la capacità di Miike di costruire il set cinematografico e di renderlo iconico. Il giallo e il nero dominano, la prigione in cui si svolge la trama è scarna, dura e rude come chi tra quelle sbarre è condannato a risiedervi per un tempo indefinito. Per motivi diversi giungono in quel luogo due giovani, Jun e Shiro, accomunati dall’accusa di omicidio. I due instaureranno un legame stretto e ambiguo, che li renderà apparentemente distanti ma inseparabili nel difficile ambiente del carcere. Nel racconto di Miike lo spazio e il tempo corrono intrecciati, confondendosi, ripetendosi, in una circolarità esasperata che porta lo spettatore nel mondo interiore dei personaggi. Esso infatti assume concrete immagini esteriori: navicelle spaziali, piramidi e arcobaleni, che tratteggiano le tensioni, le aspirazioni e i destini dei due protagonisti.
Nonostante il periodo di splendore dello “spaghetti western” sia ormai terminato, Miike realizza un film che è sostanzialmente un tributo a Sergio Leone con una fortissima impronta autoriale: Sukiyaki Western Django. La storia che racconta è un forte richiamo a Per un pugno di dollari del regista italiano e a Yojinbo di Akira Kurosawa: uno straniero, interpretato da Hideaki Itō, arriva nelle terre del west e si ritrova nel bel mezzo di uno scontro tra due famiglie che si contendono un tesoro probabilmente sepolto nel villaggio. Le due famiglie sono però il clan Heike e il clan Genji, si viene quindi a creare una sorta di seguito della rinomata guerra Genpei del tardo periodo Heian, sebbene in stile western. Il fatto che il film sia recitato in inglese mette poi in evidenza come il regista riesca a spaziare e mescolare i generi con cui è cresciuto, con un risultato veramente particolare.
Samurai, clan nobiliari, seppuku. In altre parole, passato: con esso si confronta Miike nel film Ichimei, ripresa del passato storico e cinematografico giapponese. Difatti, il film si rifà ad una pellicola del 1962 di Kobayashi Masaki che trattava il medesimo intreccio: il rōnin Hanshiro, un samurai decaduto, vuole commettere il suicidio rituale, come vuole la rigida tradizione del bushidō. Interpella per questo gli esponenti del casato nobiliare degli Iyi, affinché, secondo il rituale del codice samuraico, possa compiere il gesto estremo nel giardino della loro dimora. Similmente, con alcune variazioni sul tema, si snoda la trama del remake di Miike: si aggiungono un’attenzione quasi maniacale alla fotografia; l’egregia interpretazione di Ichikawa Ebizō, attore di kabuki che impersona il protagonista; e la vividezza delle musiche del compositore Sakamoto Ryūichi. Il risultato è un film dove il melodramma raggiunge notevoli picchi di umanità, conservando il messaggio sociale e politico sull’anacronismo del codice samuraico che il predecessore Kobayashi aveva ben impresso alla sua opera.
Tra film d’autore e western, il cineasta ci propone anche As the Gods will, che è l’adattamento cinematografico dell’omonimo manga scritto e illustrato dalla coppia Fujimura – Kaneshiro. Miike, con la peculiare esagerazione della violenza tipica del suo stile, mette su pellicola la storia di Shun Takahata, interpretato da Sōta Fukushi, studente delle superiori che vorrebbe una vita alla larga dalla noia, la quale invece lo travolge nella monotonia della quotidianità. Un giorno Shun verrà accontentato in una maniera molto particolare, ritrovandosi in un gioco mortale architettato da una divinità sconosciuta con altri studenti, che da ora in poi verranno considerati “神の子” (kami no ko), ovvero figli di dio. Il povero Shun sarà costretto a veder morire molti suoi compagni e cercherà di sfuggire alla sua stessa morte, pagando però un prezzo molto alto.
Qui vi abbiamo presentato alcuni lungometraggi di Miike Takashi, ma la sua carriera cinematografica composta da più di 100 opere è molto più vasta e varia, difficilmente riassumibile in una manciata di film. Per guardare il nostro video cliccate qui. Vi invitiamo quindi ad approfondire la produzione di questo regista a tutto tondo, inoltre potete continuare a seguirci qui su YouTube e sui nostri profili social per approfondire la carriera di molti altri registi giapponesi!
Alla prossima!
9 Giugno 2021 | Registi
Siamo di nuovo qui per raccontarvi le opere dei registi di Akushon, una rubrica di JFS! Oggi parliamo di Miike Takashi!
Miike nasce in un’area difficile di Ōsaka, la zona di Yao, all’inizio degli anni Sessanta. La famiglia è di origine nikkei, ovvero le due generazioni che l’hanno preceduto, nonno e padre, hanno vissuto l’uno in Cina e l’altro in Corea, per poi tornare in patria. La passione di gioventù è la moto e per breve tempo Miike accarezza il sogno di poter correre professionalmente. Poi a 18 anni decide di recarsi a Yokohama, per studiare alla Film School fondata dal noto Imamura Shōhei, di cui sarà poi anche assistente alla regia. Nonostante il regista affermi di non aver frequentato a lungo i corsi della scuola, si diploma presso di essa e comincia così la sua brillante ed eccentrica carriera.
Miike Takashi, come alcuni suoi colleghi della nuova scuola del cinema giapponese, inizia la sua carriera nell’ambito del V-Cinema, ovvero con la produzione di lungometraggi in video destinati ad un pubblico casalingo e non alle sale. Esordirà sul grande schermo nel 1995 con Shinjuku Triad Society, avendo però già realizzato 12 opere per il piccolo schermo. Nella sua carriera possiamo contare più di 100 lungometraggi di grande varietà, che spaziano da adattamenti di manga fino a vere e proprie opere di genere.
Tra le tantissime pellicole realizzate possiamo citare Ichimei (2011), una storia di onore, vendetta e disgrazia che coinvolge un samurai decaduto e il destino del suo figliastro, oppure Sukiyaki western Django (2007), un eccentrico omaggio agli spaghetti western in stile Miike.
Gira inoltre Big bang Love (2006), che da centralità alla fotografia e ai suoni tramite la storia di due carcerati in un futuro sconosciuto, e As the Gods Will (2014), vincitore dell’Academy giapponese del 2015.
La peculiarità del regista è l’eccesso che conduce i fili della sua poliedrica carriera. Infatti, Miike non si è mai limitato ad un solo genere, ma ha realizzato nella sua carriera lungometraggi che tra loro sono del tutto slegati, se non per la sua capacità registica che lo vedrà emergere come uno dei principali cineasti giapponesi moderni, oltre che dei migliori registi contemporanei agli occhi, ad esempio, di Quentin Tarantino.
Potete guardare il nostro video qui! E se volete approfondire meglio temi e opere di Miike Takashi, ci vediamo mercoledì prossimo con un nuovo video! Intanto, seguiteci sui nostri canali social. A presto!
14 Aprile 2021 | News
Akushon! – I registi di JFS
Questa settimana l’Associazione Takamori apre una nuova rubrica dedicata ai grandi registi del cinema giapponese. Il primo appuntamento è dedicato a Ogigami Naoko.
La 49enne cineasta Ogigami Naoko nasce nella prefettura di Chiba, a Est della capitale, dove rimane fino al termine degli studi giovanili presso il Dipartimento di Image Science dell’ateneo locale. Durante questi anni e nonostante l’iniziale preferenza per la fotografia, si sviluppa il suo interesse per la cinepresa, che la porta a migrare a fine anni ‘90 verso la Mecca della cinematografia mondiale: Los Angeles.
Qui si forma alla Scuola di Cinema della University of Southern California e ritornerà in Giappone, una volta laureatasi, solo nel 2000. Nel suo periodo americano rimane parzialmente isolata dal resto degli studenti anche per via delle sue lacune linguistiche, riceve tuttavia un buon supporto dal corpo docente che mostra fiducia e apertura nei suoi confronti e che la spinge a girare il suo primo corto. Rientrata nel Sol Levante, in concomitanza con lo stigma sociale che la vedeva donna adulta senza lavoro né partner, si rende conto dell’estrema chiusura mentale della cinematografia nipponica e decide di battere la strada della produzione indipendente. Riceve in questo ambiente di nicchia discriminazioni minime che le permetteranno di portare avanti in relativa tranquillità la sua carriera di regista.
La produzione cinematografica della regista comprende 8 film, realizzati tra il 2004 e il 2017, ma la sua carriera di regista inizia nel 1999 con due cortometraggi: Ayako e Hoshinokun Yumenokun. Tra le sue opere più importanti possiamo trovare Barber Yoshino (バーバー吉野), primo lungometraggio, Megane (メガネ), etichettato come iyashikei-eiga ovvero film terapeutici. Inoltre ha diretto Rentaneko (レンタネコ) storia di una ragazza che combatte la propria e altrui solitudine affittando gatti, e Close-Knit (彼らが本気で編むときは) vincitore del Teddy Award al Festival internazionale del Cinema di Berlino.
In tutte le sue opere Naoko Ogigami presenta una critica costante alla società giapponese e ognuna ne racconta una parte tramite storie di persone comuni. Gli intrecci sono quindi diversificati e complessi toccando temi come la solitudine, la discriminazione, il conformismo e la famiglia. Nonostante questo, la regista si mantiene sul genere della commedia, inserendo nelle storie dei personaggi una velata ironia che le rende più leggere e appassionanti.
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