Benvenuti! Questa è Meijin Film Directors, la rubrica Takamori sui registi giapponesi, e oggi vi parleremo di Kitano Takeshi.
Kitano nasce ad Adachi, Tokyo nel 1947 ed è il più giovane della famiglia. Fu cresciuta da una madre molto severa ed esigente, tanto da paragonare la sua vita a vivere nella yakuza, racconta che nel suo vicinato i bambini ammiravano solo giocatori di baseball e yakuza, cosa che poi influenzò i suoi lavori cinematografici. Guadagnò la sua popolarità in Giappone come comico, ma successivamente cominciò a cimentarsi nella cinematografia, quando il regista di “Violent cop”, nel quale Kitano aveva il ruolo principale, si ritirò dal ruolo affidandogli il film. Lui riscrisse molto lo script e modellò il film secondo il suo stile e da lì iniziò la sua carriera come regista. Nel 1998 vinse il Leone d’oro al festival del film di Venezia, grazie al suo film “Hanabi“, diventando il terzo regista a vincere il premio.
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Il protagonista della storia è Tsuda, un agente assicurativo sottomesso al proprio capo e insoddisfatto del proprio lavoro. Convive da tempo con la sua ragazza Hizuru: i due conducono una vita monotona e sessualmente insoddisfacente, in linea con la piccola borghesia nipponica. Tsuda rincontra casualmente Kojima, pugile professionista e suo vecchio compagno di liceo, il quale è attratto dalla sua compagna e cerca fin da subito di sedurla. Tsuda lo viene a sapere e irrompe nell’umile appartamento del boxer intento a punirlo ma riceverà un potente pugno in volto che lo tramortisce. Sentendosi virilmente inferiore, si iscrive alla stessa palestra del suo rivale sognando un giorno di poterlo battere e riconquistare l’amore di Hizuru. Quest’ultima decide di separarsi dal compagno e inizia a vivere a casa di Kojima; nel frattempo scopre lentamente di provar piacere nella mortificazione del proprio corpo e comincia a sperimentare diverse pratiche di autolesionismo.
Tsukamoto, regista di culto giapponese, è riuscito a mescolare il genere sportivo, il dramma sentimentale, il grottesco e la critica sociale realizzando un’opera originalissima. Attraverso uno stile di regia frenetico e angusto e una fotografia caratterizzata da colori allucinanti, racconta le nevrosi degli abitanti di Tokyo, raffigurata come soffocante e insopportabile. La violenza è rappresentata in tutte le sue forme, dalla vendetta al riscatto sociale passando per il piacere sessuale, e sembra essere la soluzione naturale all’alienazione della metropoli, l’unico modo cioè per sentirsi vivi.
Benritrovati! Questa è Meijin Film Directors, la rubrica Takamori sui registi giapponesi, e oggi continuiamo a parlarvi di Kurosawa Akira.
Nel 1954 dirige uno delle più importanti opere giapponesi di sempre, “I sette samurai”: ambientato durante il periodo feudale, narra la storia di un villaggio di contadini che ingaggia un gruppo di samurai per difendersi dai briganti, esaltando il sacrificio e il senso di comunità. Questo capolavoro immortale, oltre ad aver portato per la prima volta il cinema asiatico all’attenzione internazionale, ha ispirato grandi artisti americani delle generazioni successive attraverso le sue innovazioni narrative e tecniche.
“Anatomia di un rapimento” del 1963 è il film più americano del regista: Gondo è un socio azionario di un’importante azienda di cui sta per prendere il totale controllo senonché riceve una telefonata dove viene a sapere che suo figlio è stato rapito. Si scoprirà che per errore il bambino in ostaggio è il figlio del suo autista. Siamo di fronte a un film investigativo tecnicamente sublime che gioca con la geometria degli spazi, in una dialettica tra alto-basso che rappresenta il dualismo tra paradiso-inferno. Un’opera che tiene col fiato sospeso dal primo all’ultimo minuto mostrando l’intera stratificazione della società giapponese.
“Sogni” del 1990 è il testamento cinematografico di Kurosawa: un lungometraggio suddiviso in otto storie dal carattere onirico che attingono al folklore nipponico e alla storia del Giappone, con alcuni riferimenti biografici dello stesso regista. Nonostante il carattere non convenzionale dei racconti, Kurosawa esprime chiaramente le sue idee sull’inutilità della guerra, la cattiveria intrinseca dell’essere umano, la perdita del legame primordiale con la natura e la vita in senso più ampio.
Se volete scoprire le vite e le opere di altri registi giapponesi, continuate a seguirci! A presto!
Bentornati su Takamori! Questa è Meijin film directors, la rubrica sui registi giapponesi. Oggi vi parleremo di Kurosawa Akira.
Kurosawa nasce nel 1910 da una famiglia di origine samuraica. Nonostante l’enfasi sul miglioramento fisico, il padre incoraggiò i figli ad avvicinarsi anche alle usanze più occidentali come ad esempio il cinema, che riteneva educativo. Questa fu un’esperienza molto formativa per il giovane Kurosawa, insieme ad un insegnante delle elementari che accese in lui la passione per il disegno.
Kurosawa iniziò la sua carriera come assistente regista fino a produrre film completamente originali, tra cui sicuramente il più celebre e influente è Rashōmon. Infatti fu proprio questa pellicola a guadagnargli il leone d’oro alla mostra cinematografica di Venezia, dando quindi spazio alle produzioni giapponesi anche a livello internazionale.
Se volete saperne di più su Kurosawa Akira, continuate a seguirci per conoscere la sua filmografia!
Attori principali: Takayuki Hamatsu, Harumi Syuhama, Mao Higurashi
“Zombie contro zombie”, il cui titolo originale è “One cut of the dead”, è un film che parla della realizzazione di un film ambientato durante le riprese di un film.
Proviamo a spiegarci meglio, la storia è divisa in tre parti: nella prima vediamo una troupe intenta a realizzare un film horror all’interno di un impianto di filtraggio d’acqua abbandonato. La leggenda vuole che l’edificio sia infestato dagli zombie perché è stato usato anni prima dall’esercito giapponese per sperimentazioni sugli esseri umani. Il regista è molto esigente, quasi manesco nei confronti degli attori e pretende che la recitazione sia il più credibile possibile. Ad un certo punto due membri della troupe vengono morsi da uno zombie, diventando zombie a loro volta, ma il regista, entusiasta che la realtà diventi essa stessa il racconto, continua a girare con la sua macchina da presa. Dopo una serie di risvolti rocamboleschi l’unica a rimanere in vita è la giovane attrice Chinatsu.
Appena dopo i titoli di coda sentiamo “ok, stop!” che ci porta fuori dalla diegesi e ci fa capire che tutto quello che è successo era le riprese di un altro film. Nel secondo atto, ambientato un mese prima, al regista Higurashi viene commissionato, da parte di un’emittente televisiva, un mediometraggio horror in diretta girandolo con un unico piano sequenza. Higurashi accetta questa proposta al limite dell’impossibile e si dedica al casting e alle prove, coinvolgendo la figlia come aiuto alla regia e la moglie come attrice. La terza e ultima parte consiste nella messa in atto del telefilm, visto stavolta dalla parte della vera troupe, mostrandoci tutti gli imprevisti che hanno portato a cambiamenti repentini rispetto alla sceneggiatura di partenza come caviglie slogate e attacchi di diarrea. Questa parte giustifica alcune soluzioni di regia che sembrano il frutto di una negligenza registica.
L’incipit si presenta come un zombie-movie indipendente al limite del trash, nonostante un magistrale piano sequenza di quasi quaranta minuti che ricorda il linguaggio dei videogiochi. Ma i toni in seguito si fanno leggeri e divertenti e il film ci svela il dietro le quinte di una produzione low budget dove l’errore e il tentativo di risolverlo costituiscono l’espediente comico principale.
Quando si tratta di film metanarrativi o ambientati su un set cinematografico la dialettica tra realtà e finzione emerge spontaneamente e “Zombie contro zombie” non fa eccezione: Harumi, la moglie di Higurashi, in passato ha dovuto rinunciare alla recitazione perché si immedesimava troppo nei personaggi e questo eccessivo coinvolgimento emerge durante le riprese, mettendo in difficoltà gli altri attori. Un altro esempio è Hosoda, l’attore che interpreta il direttore della fotografia, il quale prima di entrare in scena si beve un’intera bottiglia di sakè stordendosi completamente. Una volta che il suo personaggio diventa zombie, Hosoda non sta recitando ma il suo barcollare deriva dalla sua condizione psicofisica.
Un film a dir poco geniale che si sviluppa su tre livelli di narrazione, come una matrioska di racconti, però creato in modo tale che lo spettatore possa orientarsi senza confondersi.
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