“Per lei era finita. La vita, però, andava avanti.”
“Il paese dei suicidi” di Yū Miri è un romanzo che inizia con la fine. Tutto ciò che poteva accadere di felice nella vita della protagonista è già successo, non resta che vuoto e inadeguatezza.
Mone è un’adolescente all’inizio delle scuole superiori ed è del tutto chiusa in se stessa. Il rapporto con i genitori è praticamente inesistente. Il padre ha un’amante e la madre ne è consapevole, per questo ha in piano di fuggire insieme al figlio favorito, Satoshi. Anche a scuola la situazione non è migliore. Mone ha sì un gruppo di amiche con cui passare i pomeriggi, ma si può parlare di amicizia se il rapporto si basa unicamente sulla ricerca continua dell’approvazione della leader? Tra discussioni frivole su quale cibo sia più alla moda e quale colore sia più di tendenza, Mone cerca di restare a galla, perché essere tagliata fuori dal gruppo significa diventare invisibile anche per il resto della scuola.
Mone vuole morire.
Il romanzo si apre con un thread di un blog dedicato a chi, come lei, vuole togliersi la vita.
Su questo sito, non è difficile per Mone trovare un gruppo di persone con cui organizzarsi per suicidarsi insieme.
“Il paese dei suicidi” scaturisce indubbiamente dall’esperienza personale dell’autrice. Yū Miri, infatti, è stata soggetta a bullismo così forte a causa delle sue origini coreane da tentare il suicidio numerose volte in giovane età. È ben evidente la carica critica alla società giapponese, che emargina il singolo al punto che anche nell’atto estremo del suicidio si sente la necessità di trovare dei compagni sconosciuti, per non gravare su familiari e amici con i propri disturbi.
Tra la negligenza dei genitori e le amicizie fasulle a scuola, l’unica strada percorribile secondo Mone è quella del suicidio.
Purtroppo il personaggio di Mone non è indagato in maniera ottimale, sembra più un guscio vuoto che vuole contenere in poche pagine un’esperienza di vita assai più complessa. Ne consegue una narrazione a tratti impersonale e quasi superficiale, fermo restando che l’apatia è uno dei sintomi depressivi che più si evidenzia nella giovane protagonista.
Tuttavia a lettura terminata la mente del lettore resta affollata di immagini vivide, difficili da dimenticare, per quanto il contesto dato dal romanzo possa risultare scarno. Mone davanti ai binari del treno con la sua divisa scolastica; la luce calda e infuocata nella macchina in cui il gruppo ha deciso di suicidarsi; l’amato peluche di Mone, l’unico che l’ha vista piangere.
Sono sempre le percezioni di Mone a rendere la morte, prima un’idea lontana quasi fosse un sogno, un’esperienza improvvisamente concreta, che sembra addirittura di poter toccare con mano.
Conoscendo il mondo di Mone unicamente tramite le sue parole e i suoi sensi, più che le descrizioni sono i suoni a rendere vive le ambientazioni e l’atmosfera del romanzo. Siamo inondati dalle onomatopee del treno che sfreccia sui binari, le stazioni annunciate all’altoparlante, e il chiacchiericcio ovattato delle altre studentesse che intervallano i pensieri di Mone.
Tutti rumori di un mondo che non le appartiene e al quale lei non sente di appartenere.
Quando, all’inizio degli anni ’80 di ritorno dal Giappone, Goffredo Parise diede alle stampe il suo diario in forma di romanzo, L’eleganza è frigida (Adelphi, 2008), fissò attraverso il proprio alter ego narrativo alcune delle caratteristiche di quella cultura che tanto amava e che con altrettanta passione giudicava per molti versi a rischio. «Marco – scriveva l’autore vicentino – era preso da febbrile interesse per il Paese dove si trovava come da un gioco di spie in cui, per capire i messaggi, occorreva l’uso dell’inchiostro simpatico. Infatti ogni giorno di più il Giappone gli pareva diviso in due, come appunto le spie che hanno sempre due facce. Una era la colossale maschera occidentale, con i suoi edifici e quasi tutti i suoi prodotti di moda e di consumo, l’altra faccia, niente affatto colossale e spettacolare, anzi fragile e sottile come carta dipinta, era il Giappone vero. I due volti non si mostravano mai insieme».
LE PAROLE DI PARISE che evocano uno dei temi ricorrenti nell’analisi della moderna cultura giapponese, si prestano anche ad essere utilizzate per un esame dell’ampia produzione narrativa ispirata al romanzo poliziesco che ha visto emergere il grande Paese asiatico a livello internazionale. Perché non solo le vendite del «settore» sono in costante crescita a Tokyo, ma dopo «l’onda scandinava» sembra essere questa una delle nuove frontiere della geopolitica del noir globale. Solo che in misura ancora più netta rispetto ad altre realtà, nel caso del Giappone si ha l’impressione di trovarsi spesso a che fare con almeno due fondamentali linee di ispirazione e modelli narrativi che muovono dalle tradizioni locali come dalle forme della letteratura poliziesca consolidatesi nel tempo in Europa e negli Stati Uniti. Intanto, a pesare, è prima di tutto la Storia. Nel senso che i racconti di detective, misteri e omicidi da risolvere fanno la loro comparsa nel Paese durante l’Era Meiji, anche definita come «periodo del regno illuminato» che va dagli ultimi decenni dell’800 ai primi dello scorso secolo: epoca durante la quale si assiste sia ad una modernizzazione della società giapponese che ad una sua apertura verso l’esterno…
Una notte di novembre viene rinvenuto il cadavere di un noto e stimato avvocato. Steso nei sedili posteriori della propria macchina parcheggiata in un via chiusa al traffico, ha il coltello ancora conficcato nel ventre. Per gli investigatori non è difficile individuare il colpevole, specialmente perché è lui stesso che, dopo una prima esitazione, confessa il crimine commesso. Eppure qualcosa non torna: è tutto troppo semplice, e la polizia sembra non notare, forse di proposito, alcuni dettagli. Mentre le autorità giuridiche premono per un processo e una rapida risoluzione del problema, Mirei, figlia della vittima, e Kazuma, figlio del reo confesso, oppongono resistenza.
Sono loro le figure centrali del romanzo: due ragazzi inaspettatamente legati da un’empatia reciproca, tanto diversi nei modi e nel carattere, quanto uniti nel comune obiettivo di far luce sugli eventi che li coinvolgono. Decisi a districare i segreti che le rispettive famiglie hanno celato loro per trent’anni, vogliono entrambi la verità, consapevoli dei pericoli che questa comporta. Higashino Keigo dedica il titolo originale del romanzo proprio a loro, battezzandolo “Hakuchō to koumori” (白鳥とコウモリ), ovvero “Il cigno e il pipistrello”.
“Proprio non mi riesce di capirli” replicò Nakamachi inghiottendo un po’ di tofu. “Sono come la luce e le tenebre, il giorno e la notte. Pensa se un cigno e un pipistrello si mettessero a volare in cielo insieme.”
Se da un lato abbiamo Kazuma, timido, riservato, che dubita di avere il diritto di contestare l’arresto del padre, dall’altro abbiamo Mirei, caparbia e determinata, che sin da subito rompe i confini del suo ruolo di “parte offesa”. Quando lui tentenna, lei procede a passo deciso. Dove la voce di lui è flebile e sommessa, quella di lei risuona severa e risoluta.
Il volto della ragazza sembrò farsi teso. Era come se si fosse ricordata solo in quel momento che il ragazzo dinanzi a lei era il figlio dell’imputato.
“Se non si fa nulla, l’udienza procederà su questa linea e nessuno metterà in dubbio la ricostruzione degli avvenimenti” riprese Kazuma distogliendo lo sguardo. “Se il colpevole è davvero mio padre, può anche andare bene così, dopotutto…”
“No che non andrebbe bene!” Il tono di voce di Mirei si fece di nuovo severo. “Io voglio sapere la verità, serve a questo l’udienza.”
Le indagini procedono dunque su due fronti diversi: le ricerche dell’ispettore Godai, e le ricerche clandestine dei due giovani. Alternando nei capitoli i punti di vista dei tre personaggi, Higashino Keigo offre una narrazione che scorre come un fiume in piena, coinvolgendo il lettore nello sviluppo graduale e costante delle indagini. Complici della prosa naturale e diretta sono senza dubbio i dialoghi, che colorano le pagine del romanzo e rendono immersiva l’esperienza di lettura.
Maestro del racconto giallo, in “Delitto a Tokyo” Higashino Keigo miscela alla perfezione l’intrigo del mistero a dialoghi di personaggi sfaccettati, che si rivelano essere l’esatto opposto di ciò che ci si sarebbe aspettato. Ne risulta un romanzo che cattura inevitabilmente l’attenzione del lettore e tiene stretta la presa fino all’ultima pagina, fino all’ultimo risvolto di trama.
“La buca” è il secondo romanzo della scrittrice Hiroko Oyamada, vincitore nel 2013 del prestigioso Premio Akutagawa. Asa decide di lasciare Tokyo e il suo stressante lavoro a contratto per trasferirsi insieme al marito nella zona di periferia in cui è cresciuto. La protagonista si ritroverà catapultata in una realtà diametralmente opposta a quella a cui era abituata: se prima la sua vita era scandita dai ritmi intensi e dalla frenesia della metropoli, adesso la quiete quasi innaturale della campagna e il frastuono delle cicale fanno da sfondo a giornate lunghe e monotone.
L’apparente normalità di questo villaggio sperduto inizia a crollare quando Asa incontra sul suo cammino una creatura dal pelo nero e folto, che non sembra assomigliare ad alcuna specie animale esistente. Come l’Alice del Paese delle Meraviglie, la protagonista si ritrova a seguire questo inquietante Bianconiglio per poi precipitare nella sua tana, un antro scavato nella terra lungo il margine di un fiume e che sembra essere stato realizzato a sua misura, in attesa che lei ci finisca dentro.
La tana in cui cade la protagonista non conduce però a mondi popolati da creature fantastiche, ma a una consapevolezza più profonda della realtà alienante in cui l’individuo è costretto a vivere; la buca potrebbe allora rappresentare il ruolo imposto su di noi dalla società, una prigione di erba e fango che impedisce qualsiasi forma di cambiamento, o forse non è altro che una discarica in cui gettare coloro che non hanno voluto o non sono stati in grado di accettare il posto nel mondo che è stato scelto per loro, mentre il fiume del tempo scorre inesorabile di fronte ai loro occhi.
Da questo momento in poi Asa inizierà a conoscere gli abitanti del villaggio e le loro usanze bizzarre; riti dall’effetto straniante e apparentemente privi di significato costituiscono le dinamiche sociali di questo microcosmo immerso in un’atmosfera onirica ma allo stesso tempo estremamente sensoriale. Ben presto la protagonista scoprirà che anche suo marito e la sua famiglia nascondono qualcosa di sinistro dietro una facciata di apparente normalità e perfezione. Il mondo descritto ne “La buca” è lo specchio della nostra società: l’assurdità che la caratterizza viene portata all’estremo, al punto tale da sembrare di trovarsi quasi su un altro pianeta, ma su ogni pagina c’è il riflesso limpido del nostro mondo e della parte più nascosta di noi stessi.
“Quando il cielo piove di indifferenza” (無情の神が舞い降りる) è un romanzo di Shiga Izumi, pubblicato nel 2017.
La storia si sviluppa all’interno del primo mese dal triplice disastro di Fukushima. Yoshida Yōhei è uno scapolo quarantenne che ha vissuto il disastro della centrale di Fukushima. Il suo villaggio, dal quale non si vuole allontanare, si trova entro un raggio di 20 km dalla centrale. Nonostante l’esortazione ad evacuare come tutti gli altri residenti, decide di rimanere nella sua casa insieme alla madre, rimasta disabile in seguito ad un ictus. Yōhei non la vuole spostare per via delle sue gravi condizioni ed è convinto che se evacuasse lui stesso diventerebbe la causa della sua morte.
Nonostante le radiazioni, la sera fa spesso una passeggiata fuori casa, di solito in direzione della casa di una sua amica delle elementari, Yasaka Misuzu, morta per un incidente del quale lui si sente responsabile: i due bambini stavano inseguendo il pavone dell’amica che Yōhei stesso aveva liberato.
Durante una di queste passeggiate, dove entrata nel giardino della casa dell’amica d’infanzia, incontra una volontaria di recupero gatti, randagi o dispersi dai padroni durante l’evacuazione, Mimura Reiko, alla quale racconta di stare soccorrendo il labrador nero che è legato nel pollaio dentro al giardino.
Pochi giorni dopo il loro primo incontro, si rincontrano casualmente in un “conbini” e decidono di prendere un caffè. Questo rivela all’uomo che ha bisogno del contatto umano, in quanto si trova solo a curare la madre in stato vegetativo. La freddezza con cui viene trattato dalla ragazza, gli fa criticare i volontari come lei, che hanno più a cuore la salvezza degli animali piuttosto che degli esseri umani.
Alla morte della madre saranno solo il figlio e Reiko ad assistere al funerale, ma sarà per Yōhei motivo per rimettersi in carreggiata: il funerale diventa il tasto di reset, il primo evento quotidiano dal fallout nucleare che gli fa prendere la decisione di allontanarsi finalmente dal suo villaggio, al quale è legato ma che non lo porta a nulla di fatto, per andarsene a Tokyo. Per via dell’opportunità che gli dà, la sua morte viene presa con un senso di sollievo, ma anche con colpa perché è un sentimento che non si dovrebbe provare nei confronti della dipartita di un genitore. Lui la accudiva ma non per amore filiale, ma perché era come se la dovesse ripagare del fatto di averlo fatto nascere. Inoltre prova dei sentimenti contrastanti per la madre. Per tutta la vita l’ha accusata di non essersi interessata della morte di Misuzu, di non averla pianta.
Nonostante l’incidente nucleare sia lo sfondo della nuova quotidianità di Yōhei, è molto forte la sua presenza. Il nucleare stesso viene paragonato al pavone, maestoso, ma che man mano che abbellisce il suo piumaggio per attrarre le femmine, va incontro a tanti pericoli: prima di tutto diventa più visibile da parte dei predatori. Lo stesso è il nucleare, che provoca disastri in nome del progresso tecnologico.
Shiga Izumi esprime il suo dissenso nei confronti dell’uso del nucleare fin dalle primissime pagine del romanzo, quando affianca Fukushima non solo ai più grandi incidenti nucleari come Three Mile Island o Chernobyl, ma anche ai più grandi errori dell’uso del nucleare, ovvero Hiroshima e Nagasaki. Fukushima è come un nuovo bombardamento, che provoca di nuovo disagio sociale per coloro che erano nei dintorni della centrale nucleare al momento dell’esplosione, trattati di nuovo come gli hibakusha dei due bombardamenti.
Le conseguenze sociali del disastro nucleare sono il tema principale anche del secondo racconto contenuto nella stessa edizione: “La mia sedia vuota” (私のいない椅子).
Itō Kana è una ragazza delle superiori costretta ad abbandonare la sua città sul mare per rifugiarsi dietro alla catena montuosa che si trova alle spalle.
La narrazione della storia principale, ovvero la realizzazione di un film di studenti liceali di cui Kana dovrebbe svolgere il ruolo di protagonista, si alterna ai ricordi della ragazza al momento del disastro: ha perso entrambi i nonni materni per colpa dello tsunami, è stata sfollata per giorni insieme alla madre in una palestra finché la zia, la sorella materna, non se n’è presa carico e l’ha portata oltre catena montuosa.
Il padre è stato spostato in un’altra centrale e la madre è rimasta sconvolta dal disastro, rendendola incapace di qualsiasi reazione. Kana risponde a questa mancanza di reazione da parte della madre con la rabbia e il completo distacco.
La catena montuosa diventa per la ragazza un limite visivo insopportabile: vuole vedere il mare, nonostante sia stato la causa di tutto quello che sta passando. Sarà proprio la sua voglia di vedere l’oceano a dare inizio al progetto del film del laboratorio di fotografia, che verrà proiettato nelle sale cinematografiche di tutto il Giappone, a testimonianza del disagio provato da tutti gli sfollati.
A fare da tutore agli studenti, è il regista di film horror Koguma Yasuo, col quale Kana instaurerà un rapporto particolare.
Sarà l’atteggiamento scostante della protagonista e un incidente di natura conflittuale durante un giorno di riprese a far sì che la ragazza venga espulsa definitivamente dal progetto. Accanto a lei, rimarranno solo la zia e Akimoto Akio, anche lui sfollato. È proprio per la loro natura di sfollati che i due ragazzi legano molto, messi da parte dagli studenti che invece non hanno subito direttamente le conseguenze del triplice disastro.
Essendo stata il motivo di slancio alla produzione del film e dovendone essere la protagonista, era convinta che quello fosse il suo film, non realizzando che doveva essere un esempio della vita condivisa da tutti gli evacuati.
Attraverso atteggiamenti, pensieri e discussioni con Akio, sembra che Kana voglia sabotare la prima del film, ma alla fine, farà solo quello che ha portato alla conclusione del progetto: vedrà il mare e riinstaurerà legami umani.
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