Edito da Luni Editrice, “L’inferno delle ragazze” di Yumeno Kyūsaku narra sotto forma di racconti epistolari le storie di tre personaggi femminili che, pur diversi per esperienze, sono infine uniti da un destino comune.
In quest’opera l’inferno si incarna nella realtà divenendo metafora della vita quotidiana, del logorante trascorrere dei giorni in un sistema costruito sull’oppressione delle voci femminili.
Tutte e tre le protagoniste sono donne “diverse”, considerate come delle invertite o delle aliene, prive per caso o per scelta della maternità che caratterizza il prototipo sociale della donna perfetta, relegata dall’opinione comune dell’epoca al ruolo di moglie fedele e di angelo del focolare. La maternità viene da loro anzi negata con una scelta cosciente –come nel secondo racconto- o si presenta come una caratteristica totalmente estranea al personaggio, frutto di una pressione sociale inattingibile. La rinuncia al ruolo di madre e alle funzioni imposte come “naturali” fanno parte di una più ampia ribellione che non arriva tuttavia mai ad assumere i toni di una volontà di cambiamento sistemico dei rapporti di potere patriarcali o di una lucida critica femminista.
L’opera ha il pregio raro di offrire una prospettiva altra sul Giappone dell’inizio dell’epoca Shōwa.
Pur se condizionata dallo sguardo maschile dell’autore, essa rappresenta infatti una preziosa riflessione sulla tematica di genere e tratta di personaggiai margini della società, troppo spesso esclusi dalle pagine della letteratura; donne di condizione medio-bassa, lavoratrici o studentesse, non conformi al modello tradizionale richiesto alla donna giapponese quando non addirittura opposte a esso per caratteristiche psicologiche (o presunte tali) e fisiche. Vi compare non secondaria anche la tematica dell’omosessualità, di trattazione particolarmente delicata in un’epoca di rigida censura che infatti colpisce alcune parole nelle ultime pagine dell’ultimo racconto. Dalla testimonianza dei personaggi appare un altro grande protagonista, un sistema invisibile ma oppressivo che incombe sulle protagoniste e le schiaccia con il peso delle sue aspettative e obbligazioni, quando non con la più cruda violenza fisica e sessuale.
La forma epistolare contribuisce a rendere ancora più unica l’opera, filtrando con delicatezza da un determinato punto di vista gli eventi e giocando sottilmente con i tempi narrativi distorcendoli, accavallandoli, rispondendo a una razionale più emotiva che prettamente cronologica.
L’autore, figlio della sua epoca, non giunge mai all’elaborazione di una vera critica femminista; dall’opera non traspare infatti mai una precisa volontà di cambiamento delle relazioni tra i sessi né una salda intenzione di modificare il ruolo della donna trasformando la struttura di una nazione, il Giappone degli anni ’30, caratterizzata da un accentuato paternalismo e modellata proprio sulle strutture famigliari tradizionali. Appare però evidente una forte attenzione per la condizione femminile a cui l’autore guarda con profonda empatia e con una certa solidarietà ma dall’esterno, senza che questo sentimento si concretizzi in una forma di effettiva protesta sociale o in solide proposte di cambiamento; unica parziale eccezione è costituita dal discorso del direttore all’interno del terzo capitolo, che alla luce dei fatti narrati si svela però essere vuota retorica. Le varie forme di ribellione dei personaggi dell’opera non offrono quindi nessuna possibilità di redenzione.
Anche le vittorie apparenti sono accompagnate dalla tragedia che le prepara o le segue, non riuscendo in nessun modo a costruire una realtà migliore.
Al contrario, la protesta sembra incapace di approdare a una dimensione costruttiva, riuscendo solo a rendere più profondo l’inferno del quotidiano trascinandovi anche i personaggi maschili che ne sono responsabili.
Dopo l’appuntamento al Mondadori Bookstore di Mestre e alla biblioteca Sala Borsa a Bologna, continua il giro di presentazioni de “Il teatro Fantasma“. Questa volta l’appuntamento è a San Lazzaro presso la Mediateca il 9 novembre, a tenere la presentazione come sempre il Professore Francesco Vitucci, uno dei traduttori del libro di Yokomizo Seishi.
Vi aspettiamo numerosi e come sempre vi rimandiamo alla nostra personale recensione del libro!
Pubblicato originariamente nel 1906, “Il signorino” è un romanzo di formazione di Natsume Sōseki, forse il più celebre autore giapponese dell’era moderna. Traendo forte ispirazione dalla propria vita personale, lo scrittore racconta la storia di un avventato ed irascibile giovane di Tōkyō, il quale si vede offrire un lavoro da insegnante nella piccola cittadina di Matsuyama, nell’isola di Shikoku. Le molte differenze culturali lo porteranno a scontrarsi con diversi personaggi, dagli studenti agli altri professori. La storia è umoristica e satirica, ma tratta anche i profondi temi del conflitto e della crescita personale.
Considerata tra le migliori opere dell’autore, non esiste programma scolastico giapponese dove questo romanzo non figuri. Dato l’uso di un linguaggio relativamente semplice ed immediato, questo libro offre un’opportunità agli studenti di giapponese, come quelli dei corsi di lingua Takamori, di cimentarsi con una prima lettura in lingua originale.
TRAMA
Il romanzo inizia con una riflessione del protagonista, Ishikawa Tatsugorō, chiamato più comunemente “Bocchan“. Questa parola significa appunto “signorino”, “padroncino” ed è il nome in cui viene chiamato dalla cameriera di famiglia, Kiyo, la quale è l’unica persona al mondo che prova ancora per lui un affetto sincero. Nonostante la sua famiglia sia appunto abbiente, egli viene tenuto in disparte dai familiari e considerato come un fallimento. Egli si sente quindi deluso dal suo lavoro e dalle persone che lo circondano, così decide di accettare un posto di insegnante in campagna, sperando in un nuovo inizio.
“Fin da quando ero bambino, il temperamento irriflessivo che ho ereditato dai miei genitori mi ha causato un sacco di guai”
“Quanto a mia madre, ripeteva sempre che ero un violento, un prepotente, temeva che sarei finito male. […] È già tanto che sia riuscito a evitare la galera.”
Botchan arriva così nella città di Matsuyama, nell’isola di Shikoku. Si rende presto conto che il luogo è molto diverso da Tōkyō ed è presto considerato come un outsider dai residenti locali. All’arrivo di Bocchan nella scuola, l’autore introduce diversi nuovi personaggi, facendo ampio uso di ironia. Egli vi assegna dei nomignoli basati sull’aspetto o su delle caratteristiche peculiari: troviamo, ad esempio, il preside, chiamato “Tanuki”, l’insegnante di inglese, “Camicia Rossa”, e l’insegnante di matematica, “Porcospino”. Le interazioni di Bocchan con i suoi colleghi evidenziano le assurdità e le stranezze della loro personalità. Quest’uso di umorismo è, in maniera abbastanza apparente, non solo una scelta stilistica dell’autore, ma anche un meccanismo di difesa del protagonista. Le esperienze di Bocchan a Matsuyama sono infatti segnate da scontri culturali e incomprensioni. Fatica ad adattarsi ai costumi e allo stile di vita rurale. Mentre Porcospino sembra l’unico a provare simpatia e solidarietà per il nuovo arrivato, Bocchan ha diverse occasioni per scontrarsi con i propri colleghi, in particolare con Camicia Rossa, dinamica che sarà, non a caso, centrale al culmine del romanzo.
Altrettanto fondamentale è il rapporto di Bocchan con i propri alunni. Gli studenti, infatti, si prendono spesso gioco di lui, facendogli scherzi, il che gli rende difficile stabilire la propria autorità di insegnante. La causa è spesso la sua origine: la differenza tra la capitale ed il piccolo paesino di provincia sembra a volte abissale e non intacca solo i costumi e i modi, ma soprattutto il linguaggio. Ci vorrà infatti molto tempo perché il protagonista riesca a formare un forte legame con in propri allievi, il quale si rivelerà ancora più forte grazie alle fatiche compiute.
Mentre Bocchan affronta le sfide del suo nuovo ambiente, subisce una profonda crescita personale. È costretto ad imparare importanti lezioni di vita sulla natura umana e sulla società. Il confronto con gli altri personaggi, che sia piacevole o spiacevole, gli fornisce appunto una guida e una prospettiva, portandolo a cambiare il modo in cui affronta la realtà che lo circonda. Bocchan, insegnante in una scuola, matura egli stesso si vede portare alla consapevolezza di non poter cambiare il mondo per soddisfare esclusivamente i suoi desideri. Il romanzo si conclude con Bocchan che guarda al futuro con un ritrovato senso di scopo.
ANALISI
Il personaggio di Bocchan è un insegnante giovane e inesperto. Nel corso della narrazione, si trova costretto ad affrontare e a riconsiderare innumerevoli aspetti che lo hanno sempre caratterizzato. Ciò, gli impone una crescita e uno sviluppo personale: le sue esperienze nella scuola di campagna lo aiutano a maturare e ad acquisire una comprensione più profonda della vita e della natura umana. Sono le interazioni e le relazioni di Bocchan con questi personaggi a modellare le sue esperienze e la sua crescita personale. Egli non è soltanto costretto alle prese con le sfide e le frustrazioni del suo nuovo ambiente, ma riflette soprattutto sulla propria identità, sui propri valori e principi.
In particolare, Bocchan è costretto ad affrontare un significativo scontro culturale tra lo stile di vita urbano a cui è abituato e i modi tradizionali e rurali delle persone della zona. Ciò offre l’opportunità per un ritratto satirico e critico della società giapponese, in particolare nella rappresentazione del sistema educativo e delle interazioni tra le diverse classi sociali. Dietro alle osservazioni e ai commenti del protagonista si cela infatti il pensiero dell’autore: Sōseki, attraverso il personaggio di Bocchan, intendeva criticare la natura rigida e spesso ipocrita del sistema educativo giapponese dell’epoca Meiji. Vengono così portati alla luce l’inefficacia di alcuni metodi di insegnamento e la prevalenza di favoritismi e corruzione che permeano il sistema.
Sōseki utilizza vari personaggi e situazioni nel romanzo per criticare la prevalenza dell’ipocrisia e dell’inganno nella società, ritraendo ad esempio personaggi che si presentano in un modo ma si comportano diversamente in privato, riflettendo una generale mancanza di onestà e autenticità. Tutto questo attraverso l’abile uso dell’umorismo e dei differenti registri linguistici. Leggendo il romanzo in lingua originale, si notano infatti diverse espressioni dialettali che servono a porre distanza tra i personaggi. Tutto questo evidenzia le distinzioni di classe e le difficoltà che qualcuno come Bocchan, che non proviene da un ambiente estraneo, deve affrontare quando si muove nel panorama sociale. Sōseki esplora lo scontro
tra i valori tradizionali giapponesi e le influenze occidentali, che stavano diventando più importanti durante il periodo Meiji. Botchan si trova spesso in contrasto con i costumi e le tradizioni locali, riflettendo la tensione tra modernità e tradizione nella società giapponese.
Nonostante i temi così complessi, lo sguardo introspettivo rende la lettura estremamente fruibile. Ciò è supportato dalla narrazione in prima persona, la quale rende l’esposizione più personale ed il rapporto tra lettore e narratore più intimo.
Nel complesso, “Il signorino” è un romanzo umoristico e satirico che esplora temi dello scontro culturale, crescita personale e complessità delle relazioni umane. Offre un ritratto spiritoso e divertente del viaggio alla scoperta di sé di un giovane uomo mentre affronta le sfide della vita in una cittadina rurale nel Giappone di epoca Meiji. È un’opera classica della letteratura giapponese che offre sia una narrazione divertente che un’esplorazione stimolante di vari temi, rilevanti non solo al tempo, ma per ogni persona alla ricerca di una versione migliore di sé.
Pubblicato originariamente nel 1949, “Confessioni di una maschera” è un racconto dell’autore Yūkio Mishima. Secondo romanzo del famoso scrittore, è considerato una delle sue opere più celebri e influenti, seppure tra le prime, e figura indubbiamente tra i classici della letteratura giapponese moderna. Il romanzo è una storia semi-autobiografica che esplora i temi dell’identità, della sessualità e delle aspettative sociali nel Giappone del secondo dopoguerra.
TRAMA
La storia è narrata in prima persona, quasi fosse una raccolta di memorie, da un giovane giapponese che rimane senza nome per tutta la storia. Fin dalla tenera età, egli si rende conto di essere diverso.
“L’odore di sudaticcio dei soldati – quell’odore simile a una brezza di mare, simile all’aria, avvampante d’oro, che sovrasta la spiaggia – mi colpiva le narici e mi ubriacava. Questo fu probabilmente il mio più remoto ricordo di odori. Superfluo dire che in quell’epoca l’odore non poteva avere alcun rapporto diretto con sensazioni sessuali, ma destò effettivamente in me, graduale e tenace, una voglia sensuosa di un certo numero di cose, come il destino dei soldati, la natura tragica del loro mestiere, le contrade lontane che avrebbero visto, i modi in cui sarebbero morti…”
Egli si rende infatti conto di essere non solo omosessuale, ma anche di avere propensioni per il sadomasochismo. Formante in questo aspetto è un’esperienza ben precisa: un giorno, mentre sfoglia un’enciclopedia d’arte illustrata, i suoi occhi si fermano su un’immagine del San Sebastiano di pittore Guido Reni. Alla vista della pallida carne trafitta da frecce, il protagonista la trova bellissima e sente risvegliarsi in lui un’attrazione, una forza carnale e pagana, che lo porta ad eccitarsi. Da allora si ritrova spesso a ripensare alla scena del martirio, immedesimandosi sia nella figura del santo, sia in quella del carnefice.
Entrato nell’ambiente scolastico, egli si rende ancora di più conto delle differenze tra lui ed i suoi compagni in termini di desideri e fantasie sessuali. In particolare, racconta del suo primo amore per un compagno di scuola: Omi.
“Repentinamente, i suoi guanti di cuoio, inzuppati di neve, scattarono contro le mie guance. Schizzai da un lato. Una cruda sensazione carnale divampò dentro a me, m’impresse le guance di un marchio rovente. Mi sorpresi a fissare il mio compagno con occhi lucidi, cristallini… Fu allora che mi innamorai di Omi.”
Egli si sente costretto a nascondere il suo vero io dietro una maschera metaforica, creando un personaggio conforme alle aspettative della società. Ma nonostante i suoi diversi tentativi, non riesce mai a provare per le donne lo stesso erotismo che prova nei confronti degli uomini. Anzi, precisa sempre come il primo possa raggiungere al suo massimo una fascinazione, un apprezzamento sul piano estetico e della bellezza, ma mai un amore.
Questo conflitto interno tra il suo vero io e la maschera che indossa costituisce il tema centrale del romanzo. Nel corso della storia, Mishima esplora le lotte del protagonista con la propria identità, le sue complesse relazioni con gli altri e la sua crescente consapevolezza dei diversi volti che le persone indossano nella loro vita quotidiana al fine di conformarsi. Il romanzo scava in profondità nella psiche del protagonista alle prese con i suoi desideri, la sua alienazione dal mondo circostante e la sua ricerca di autenticità.
ANALISI
Confessioni di una maschera è famoso per la sua esplorazione introspettiva e psicologica del tumulto interiore del protagonista e per il suo commento sulle aspettative della società, sulla repressione e sulle complessità dell’identità. Per la stesura del romanzo, Mishima ha tratto forte ispirazione diretta dalla propria vita e dalla propria esperienza. Questo appare palese, nonostante il protagonista rimanga anonimo per l’intera narrazione.
Lo stile di Mishima è altamente poetico e si caratterizza per la sua natura introspettiva. In questa narrazione intrisa di ricordi e impressioni personali, l’autore predilige l’uso di analogie, simboli e associazioni di immagini. Mishima in particolare, rispetto agli altri maggiori autori giapponesi, si mostra capace, partendo da esperienze concrete, reali e spesso crude, di passare a ragionamenti dalla profonda natura filosofica. La sua prosa non lesina di affrontare questi temi in modo diretto e onesto, un fatto piuttosto innovativo per l’epoca.
In questo libro in particolare, si mostra capace di affrontare temi profondamente scomodi, controversi e carnali, usandoli come spunti per complesse ed intime riflessioni, nonché per parlare dell’esperienza umana con parole di una bellezza vivida e sconcertante.
Lo sguardo in prima persona è essenziale al fine di raggiungere una più profonda esplorazione psicologica del protagonista. Esso offre uno sguardo intimo sul suo mondo interiore e sull’evoluzione del suo io. Tramite lui si analizzano l’essenza dell’identità e dell’individualità all’interno del contesto storico e sociale del Giappone della metà del Novecento.
“Il sole del pomeriggio batteva senza sosta la superficie del mare, e tutta la baia er a un’unica, stupenda distesa di fulgore. All’orizzonte campeggiavano alcune nuvole estive, ferme nel silenzio, immergendo parzialmente in acqua le forme sontuose, funeree, profetiche. I muscoli delle nuvole erano pallidi come alabastro.”
Il romanzo è stato tradotto in decine di lingue ed è considerato tra le opere più importanti dell’autore. D’altronde, Mishima ha sempre riscosso un enorme successo in Occidente, rimanendo fino ad oggi lo scrittore giapponese più tradotto nel mondo, dove continua a essere studiato e celebrato per il suo significato letterario e per il suo contributo alla comprensione delle tematiche LGBTQ+ nella letteratura e nella società giapponese moderna.
Al contrario, la sua popolarità si figura come estremamente scarsa nello stesso Giappone, dove la sua vita trasgressiva ed i temi apertamente affrontati nei suoi scritti sono stati a lungo visti con ostilità. Ancora oggi in Giappone è estremamente raro trovare Mishima tra gli autori affrontati nei programmi scolastici e molti sono i giapponesi che non hanno mai nemmeno sentito nominare lo scrittore.
Si tratta di un libro potente, controverso, irriverente, provocante, e allo stesso tempo profondo, seducente, lirico. In una parola: sublime.
“Il sole si spegne” (titolo originale: 斜陽, Shayō), viene pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1947. Il romanzo, il primo dello scrittore, rispecchia la realtà in cui si trovavano la classe aristocratica e quella intellettuale nel secondo dopoguerra, annientate spiritualmente dal conflitto. L’aristocrazia ha perso ogni possedimento e potere e la classe intellettuale è diventata sempre più criticata: artisti e scrittori non trattano più i temi tradizionali, ma portano il seme del nichilismo e attirano su di sé le maldicenze per via della vita dissoluta che sono “costretti” a vivere. Molti fanno uso di droghe o diventano alcolizzati e dormono con altre donne nonostante abbiano moglie e figli, spesso non tornando a casa per giorni.
Questa è la vita narrata dalla protagonista Kazuko, una ragazza di ventinove anni appartenente a una famiglia aristocratica caduta in disgrazia, costretta a trasferirsi in una villa di campagna. È sorella maggiore di Naoji, in primis un intellettuale, ma anche un soldato che ha combattuto nel sud del Pacifico e che fin dal liceo ha fatto uso di oppiacei.
La madre dei due fratelli viene considerata dalla protagonista l’unica vera aristocratica rimasta in vita, in quanto segue ancora le regole della sua classe sociale. Kazuko, al contario, durante la guerra ha dovuto fare lavori pesanti e lavorare nei campi come altri civili, su richiesta del governo, scoprendo di trovarsi a proprio agio, letteralmente, nei panni del contadino.
La protagonista, inoltre, ha anche un divorzio alle spalle. Nonostante voglia compiere il desiderio di avere un figlio, è costretta a spostare interamente le sue attenzioni sulla madre malata di tubercolosi, senza ricevere aiuto dal fratello tornato dalla guerra, assorbito dalla vita scriteriata che porta avanti a Tokyo insieme al suo mentore e scrittore Uehara Jirō.
Kazuko si innamora del romanziere dopo il primo incontro che hanno e, nei sei mesi che separano il loro secondo e ultimo incontro, gli invia tre lettere in cui esprime la sua volontà di avere un figlio da lui nonostante sappia che lui è sposato e ha una figlia. Lo scrittore non risponderà mai a quelle lettere.
Dopo un mese dalla morte della madre e dal suicidio del fratello per la sua autoriconosciuta mancanza di “capacità di vivere”, attraverso un’ultima lettera senza risposta di Kazuko a Jirō, si scopre che la protagonista è rimasta incinta dello scrittore, avverando il suo sogno.
Attraverso questo romanzo, Dazai mostra un realtà che lui stesso conosce in quanto figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri: la realtà della vita sfrenata all’insegna di alcol, droghe e donne, che portano all’annichilimento del corpo e della mente.
Lo stesso Dazai, stremato dalla vita che lui stesso conduce che gli comporta anche l’aggravarsi delle condizioni di salute, viene trovato morto insieme all’amante nel bacino di Tamagawa a Tokyo il giorno del suo trentanovesimo compleanno.
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