Un’estate a Zushi – Tachibana Sotoo || Luni Editrice

L’associazione Takamori è lieta di segnalarvi il seguente testo pubblicato sul sito Web della Luni Editrice

L’opera di Tachibana Sotoo viene qui presentata per la prima volta al lettore italiano attraverso due racconti scritti nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento.

Un’estate a Zushi è un racconto di fantasmi pubblicato nell’agosto del 1937. L’ambientazione nel cimitero di uno sperduto tempio di montagna, la presenza di figure sinistre e la suspense creata dallo sviluppo della narrazione fanno rabbrividire il lettore, che tradizionalmente cercava un po’ di refrigerio dalla calura estiva anche attraverso l’ascolto o la lettura di storie di paura.

Nonostante sia palpabile la tensione creata dall’entrata in guerra del Giappone contro la Cina, la triste vicenda del giovane principe indiano è l’occasione per descrivere non solo le condizioni politiche e sociali dell’India dell’epoca, ma anche il caleidoscopico paesaggio urbano della Tokyo di quegli anni, soprattutto i quartieri di intrattenimento con i cineteatri, i bar affollati di stranieri e gli spettacoli di rivista. Un mondo destinato a spegnersi di lì a poco nel periodo più buio del secondo conflitto mondiale.

Pur appartenendo a generi diversi, i due racconti sono accumunanti dalla presenza di una voce narrante spontanea, a tratti poetica e intimista, talvolta mordace e greve. Spesso sembra coincidere con quella dell’autore per la sapiente mescolanza di realtà e finzione letteraria […]

Per continuare premere sul link inserito ad inizio pagina. A presto con nuove pubblicazioni!

Favole del Giappone – Niimi Nankichi || Recensione

“Favole del Giappone” è una raccolta selezionata di cinque favole tratte dalla vastissima produzione favolistica di Niimi Nankichi, uno dei più importanti autori giapponesi per l’infanzia del Novecento. Sebbene queste favole siano state realizzate in fasi diverse della produzione dell’autore e siano caratterizzate da personaggi e luoghi differenti, vi è possibile leggervi una soggiacente coerenza dei temi trattati, un costante ricorrere di alcuni motivi tipici poi dell’intera opera dell’autore, una struggente unità di toni e atmosfere.

Nella favola che apre la raccolta, Gon la volpe (ごん狐, Gongitsune) la vita del Giappone rurale è presentata parzialmente da una prospettiva “altra”, quella non umana della volpe Gon. Il mondo del villaggio è presentato nella sua interazione, non sempre pacifica ma comunque reciproca e costante, con l’universo animale; le due sfere scorrono parallele e caratterizzate da esperienze simili, come la solitudine e la perdita della figura materna.

La volpe è capace di comprendere i sentimenti degli umani e di empatizzare con loro, in fondo così simili. Proprio quest’empatia si trasforma in azione finalizzata a migliorare la condizione comune, a unire e curare due solitudini, quella dell’uomo e quella dell’animale, unite dal lutto materno.

Nonostante le buone intenzioni la comunicazione appare però impossibile; le due sfere si sfiorano brevemente, di nascosto, senza mai riuscire a instaurare un vero dialogo. E in assenza di comunicazione le buone azioni assumono conseguenze imprevedibili: a ciò contribuisce una certa cecità umana, incapace di comprendere il ruolo della volpe e di scorgerne le nobili motivazioni.

Questa distanza comunicativa, questa inabilità sarà quindi il motore dell’epilogo del racconto;

qui l’improvvisa, futile realizzazione delle azioni animali apre finalmente una finestra di comunicazione oramai effimera, ma comunque genuina e totale. E proprio su questo momento si chiude il racconto: i protagonisti vi rimangono fermi, protraendolo per sempre, incapaci di costruirvi una solitudine condivisa e avvolti da una luce di soffusa tristezza.

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Nella seconda favola, L’ultimo suonatore di kokyū (最後の胡引き, Saigo no kokyūhiki) vengono tratteggiati tre diversi momenti della vita di un suonatore di kokyū, dal momento in cui impara a suonare lo strumento fino alla vecchiaia.

Qui il mondo rurale è dipinto nella sua graduale evoluzione, delineata attraverso la progressiva scomparsa di una vecchia tradizione. Ogni anno, infatti, il giorno di Capodanno il suonatore intraprendeva assieme al cugino il lungo cammino per la città per suonarvi e ricevere le donazioni degli abitanti, ritornando poi al proprio villaggio. Tuttavia, con gli anni la modernità occidentalizzante avanza inesorabilmente; gli abitanti iniziano a preferire le nuove tecnologie come la radio e la vecchia tradizione ne soffre le conseguenze.

Nessuno vuole più ascoltare la musica del kokyū; ormai non voluti, i suonatori smettono di effettuare il pellegrinaggio annuale e solo il vecchio Kinosuke si appiglia ostinatamente al passato, decidendo di recarsi in città nonostante il parere contrario della famiglia, gli acciacchi dell’età, la defezione del cugino e il clima ostile.

A convincerlo ad affrontare tutte quelle difficoltà è il ricordo del gentile anziano che sin dai giorni lontani della sua infanzia l’aveva accolto nella sua casa e aveva ascoltato con passione la sua musica.

La scomparsa del vecchio rappresenta la sparizione dell’ultimo frammento vivo del vecchio Giappone:

ora il kokyū non ha più nessuno che ascolti il suo canto e viene suonato, per l’ultima volta, per commemorare un uomo e un mondo ormai perduti per sempre nel passato. Il cambiamento non viene qui accettato ma è piuttosto subito impotentemente dal suonatore, travolto dall’avanzare inclemente della modernità; ogni resistenza appare futile e la nostalgia si configura come l’unico rifugio possibile di fronte a un mondo ormai irriconoscibile.

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Anche nel terzo racconto, Il lume a petrolio del nonno (おじいさんおランプ, Ojisan no ranpu) la modernità  irrompe in un piccolo villaggio rurale. Il giovane protagonista visita la città vicina e rimane sorpreso dalla sua modernità, esemplificata dal grande numero di lampade e dalla sua luminosità, così diversa dall’oscurità dei villaggi della campagna.

Le luci del progresso entrano ora nel mondo rurale, illuminano gli spazi e le vite dei contadini, diradano le “retrograde” tenebre circostanti.

Il protagonista vede il proprio lavoro di venditore di lumi come una vera e propria missione “civilizzatrice”, nutrendo fiducia nel proprio ruolo e nella propria capacità di migliorare la vita del villaggio, aprendolo al nuovo mondo e portandovi il Progresso: questa fiducia è però messa in crisi dall’ulteriore evoluzione della tecnologia. L’arrivo della luce elettrica minaccia infatti il mondo delle lampade; la vita del protagonista ne viene scossa e la sua stessa professione viene messa a repentaglio.

Colui che si era posto fino a quel momento come un campione del progresso si oppone ora ostinatamente all’avanzare del nuovo.

Anche in questo caso la resistenza appare futile; tuttavia, la risposta del protagonista e il messaggio sono nettamente diversi da quelli della storia precedente. Dopo un breve, incompleto tentativo di opporsi in maniera violenta al nuovo che avanza, il venditore di lumi comprende la necessità di adattarsi al nuovo mondo e di ritagliarvisi un nuovo ruolo. Scegliendo di rimanere fedele ai propri principi etici anche a scapito degli interessi concreti più immediati, decide di assecondare il cambiamento.

Il rito dell’abbandono e della rottura delle lampade rappresenta quindi un atto di rottura totale col passato, il marchio inequivocabile di un nuovo inizio.

Impossibilitato a portare la luce “fisica” nel mondo rurale, il protagonista sceglie di dedicarsi alla professione del libraio e di portarvi la luce spirituale della cultura. Mutano quindi circostanze e oggetti, ma la missione etica e il sereno ottimismo rimangono gli stessi; avanti negli anni, il protagonista si trova infine a ricordare con gioia quei giorni lontani della sua gioventù, con la voce velata da una dolce nostalgia.

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Il quarto racconto, Andando a comprare i guanti (手袋を買いに, Tebukuro o kai ni) ha il mondo animale come vero protagonista. Un cucciolo di volpe ci viene presentato nel suo angolo sicuro, mentre gioca felice nella neve accompagnato dalla sua premurosa Mamma Volpe.

Il viaggio verso la città che il volpino è costretto a intraprendere da solo per acquistare dei guanti  lo costringe ad abbandonare per la prima volta la tranquillità della tana materna e a interagire con il pericoloso mondo degli uomini, da cui era stato messo in guardia. Nonostante i pericoli corsi e gli errori commessi, il viaggio ha un esito positivo.

Sulla via del ritorno, il cucciolo scorge da una finestra aperta una mamma umana che culla il suo bambino nel sonno, cantandogli dolcemente una canzone: il cucciolo pensa quindi alla sua mamma, che fa lo stesso per lui nel caldo della sua tana, e corre immediatamente da lei trovandola tremante ad attenderlo nella neve. Dimensione umana e dimensione animale sembrano di nuovo incontrarsi e assomigliarsi, accomunate dall’affetto incondizionato delle madri per i figli.

Ben diverso dall’epilogo del primo racconto, il finale esprime qui un totale ottimismo: uomo e animale riescono a interagire soddisfacentemente senza ricorrere alla violenza, contrariamente ai timori di Mamma Volpe, che inizia a ricredersi sul conto degli umani mentre imbocca col suo piccolo, felice e illeso, la sicura strada di casa.

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Nell’ultima storia, Piede di contadino, piede di bonzo (百姓のあし、坊さんのあしHyakushō no ashi, bōsan no ashi) la sfera religiosa e sociale del Giappone rurale sono tratteggiate più nel dettaglio da Niimi Nankichi.

A questa descrizione più complessa e sfaccettata, e certamente meno idealizzata e bucolica, della vita di villaggio si affianca una forte dimensione etico-religiosa alimentata da forti suggestioni provenienti dalla spiritualità buddhista.

Durante la raccolta del komebatsuho (la pratica di ritirare, casa per casa, il riso nuovo che i contadini offrono al vicino tempio buddhista) l’abate del tempio locale e il contadino Kikuji si ubriacano con il sake offertogli dai contadini e mancano di rispetto, calpestando il riso bianco offerto da uno zoppo. Nelle pagine successive traspare l’essenza del mondo contadino descritto nella sua intimità familiare, con il suo sistema morale di valori forti; il cibo, ottenuto solo grazie a lunghe ore di fatica e con l’amaro sudore della fronte, deve essere rispettato e le azioni di Kikuji sono condannate dalla stessa madre, rappresentante intransigente dell’etica contadina, che prevede tremante l’arrivo di una punizione.

Tale punizione non esita ad arrivare ma non colpisce tutti allo stesso modo: mentre il contadino è costretto a letto da un terribile dolore al piede con cui aveva calpestato il riso, l’abate appare in perfetta salute, sempre più rubicondo mentre consegna alla popolazione sermoni pieni di ipocrisia.

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Il contadino si scaglia quindi contro l’apparente ingiustizia del Cielo, che sembra in fondo replicare l’ingiustizia della Terra; mentre lui e la sua famiglia sono costretti a trascinarsi nella polvere dei campi, sopravvivendo solo grazie al duro lavoro, il monaco vive una vita tranquilla nello spazio sicuro del suo tempio, apparentemente estraneo alle conseguenze delle sue azioni. La sofferenza, però, si rivela indispensabile per la comprensione; solo grazie al dolore il contadino capisce il proprio errore e la giustizia della punizione ricevuta: a differenza dell’abate, lui coltivava la terra e conosceva il dolore del raccolto, lo sforzo amaro della vita dei campi, e proprio questo rendeva l’atto che aveva commesso ancora più grave.

La comprensione del proprio sbaglio permette il perdono, apre la strada della rinascita spirituale. Alla fine del racconto, il Cielo appare tutt’altro che ingiusto: nel loro incontro dopo la morte, mentre camminano su una lunga strada fiorita, l’abate continua a maltrattare il contadino che si dimostra al contrario umile e compassionevole.

Il religioso continua ad applicare le categorie umane anche dopo la morte, trascinandosele dietro dal mondo dei vivi: dall’alto delle sua posizione sociale, è convinto della propria superiorità rispetto al mite Kikuji, certo che la propria posizione sia sufficiente ad aprirgli la strada per il paradiso. Ma la giustizia sovrumana non sembra interessata allo status sociale. Trascinando la gamba, il contadino viene indirizzato sul sentiero di destra, quello che conduce al paradiso; mentre l’arrogante abate viene trasportato, in un risciò non destinato a lui ma che pretende come proprio di diritto, sull’altro sentiero, verso la perdizione.

Il messaggio del racconto è consolatorio ed esprime un totale ottimismo. All’apparente ingiustizia del mondo terreno fa da contrappeso la giustizia suprema della vita dopo la morte; la sofferenza che si prova in vita, percepita come una punizione, è in realtà lo stimolo maggiore per la comprensione delle proprie colpe e porta al raggiungimento della felicità ultraterrena.

Si può leggere in questo una dimensione autobiografica; tormentato dai terribili dolori della tubercolosi, che lo stroncherà alla giovane età di 30 anni, l’autore si confrontava quotidianamente con l’esperienza della sofferenza e questa alimentava la sua riflessione e il suo pensiero; in questa favola si potrebbe leggere quindi il tentativo autoconsolatorio di trovare una spiegazione per il proprio male e al tempo stesso la speranza di una fuga da esso, sia pure nella cornice mistica del mondo ultraterreno.

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È possibile quindi identificare una serie di temi che accomunano i cinque racconti della raccolta tratti dalla vastissima produzione di Niimi Nankichi.

Innanzitutto la centralità costante del mondo rurale e della vita di villaggio; lungi dall’essere vagheggiata bucolicamente, la realtà della campagna è descritta nella sua concretezza sociale, fatta di fatica, di profondi rapporti familiari, di sentite tradizioni, di un sistema di valori radicato alla terra e di resistenze al cambiamento. Si tratta di un mondo Altro rispetto a quello lontano della città, con le sue luci e i suoi negozi: al tempo stesso opposto e complementare, l’ambiente urbano incombe però sempre sul mondo delle campagne, fonte simultaneamente di minacce e di opportunità.

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La città è il luogo della modernità, del nuovo che si espande verso la realtà del villaggio minacciando di modificarla irrimediabilmente e di annichilirne le profonde tradizioni; luogo “liminale” in cui i protagonisti si recano solo brevemente per ottenere qualcosa (che si tratti di denaro, di lumi o di guanti) per poi tornare immediatamente alla sicurezza del proprio villaggio; a essa si guarda con timore, ma anche con fascinazione.

Questo movimento segue in fondo l’esperienza di vita dell’autore che, dopo aver vissuto e studiato nella capitale, spinto anche dalla malattia aveva scelto di ritornare in provincia, dove aveva riscoperto una dimensione più autenticamente rurale che sarebbe poi divenuta uno dei tratti più caratterizzanti della sua produzione letteraria.

Ogni forma di resistenza sembra in ogni caso futile: il vecchio viene travolto inesorabilmente dal nuovo e il mondo delle città avanza. La modernità può essere abbracciata con entusiasmo o rigettata totalmente, affrontata con rassegnazione o con un sereno ottimismo; in entrambi i casi il processo non è indolore e il nostalgico ricordo del passato risulta essere, se non l’unica consolazione di fronte a un mondo che diventa sempre più rapidamente estraneo come nel caso estremo della seconda favola, quantomeno un sereno rifugio di fronte al rapido fluire degli eventi.

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In tutte le storie di Niimi Nankichi è poi fondamentale la dimensione familiare (o la sua dolorosa assenza).

La casa – o la tana – è il luogo sicuro di una sommessa intimità, del calore umano e della cura reciproca, degli affetti più spontanei, il focolare che illumina un mondo avvolto dalla neve. L’amore materno accomuna uomo e animale, fornisce una guida sicura di fronte alle difficoltà del mondo, crea un luogo sicuro in cui rifugiarsi.

La solitudine, vissuta come assenza e compagna del lutto, è un’esperienza dolorosa che i personaggi sperimentano spesso e che provano a superare costruendo un nucleo nuovo, tentando di forgiare nuovi rapporti di cura reciproca, con esiti assai diversi. Essi spaziano dalla tragicità della prima favola, in cui la costruzione di una “famiglia” fallisce a causa dell’incomunicabilità reciproca, al successo del terzo racconto, in cui l’orfano venditore di lumi arriva a raccontare al proprio nipotino una vecchia storia nella tranquillità della propria casa e nella serenità della vecchiaia.

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Anche in questo caso traspare l’influenza dell’esperienza personale dell’autore: orfano di madre sin dalla più tenera età, la vita familiare di Niimi Nankichi era stata particolarmente travagliata.

Alla luce di questo dato andrebbero letti quindi i ricorrenti temi della solitudine e della perdita, ma anche le ricostruzioni di una vita familiare ideale:

quasi come in una forma di sublimazione del desiderio, l’autore esprime così la propria volontà di regredire verso una dimensione protetta, contemporaneamente una forma di ritorno alla culla e uno slancio verso la paternità di cui però la malattia e la sofferenza lo avrebbero privato. Per la complessità dei temi trattati e la profondità della visione l’opera non si rivolge quindi esclusivamente a un pubblico infantile, fornendo anzi interessantissimi spunti di riflessione e immagini suggestive anche a un pubblico più adulto.

Recensione di Mattia Natali

Tra incubo e visione: Labirinto d’erba di Izumi Kyōka

L’Associazione Takamori è lieta di proporvi il seguente articolo, pubblicato di recente sul blog della casa editrice Luni:

di Mattia Natali

Associazione Takamori

Arcipelago Giappone

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Avvolta da una spessa atmosfera onirica, Labirinto d’erba di Izumi Kyōka è un’opera densa e complessa, in cui mondi apparentemente diversi e distanti – il naturale, l’umano e il sovrannaturale- si intersecano costantemente e si influenzano vicendevolmente in maniere imprevedibili, mutando con la velocità di un battito di ciglia.

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La natura labirintica dell’opera è data dallo stesso procedere della narrazione, articolato su più livelli e soggetto a frequenti cambi di prospettiva. La narrazione si apre con la descrizione dello Ōkuzure, un promontorio a picco sul mare, e dei suoi dintorni.

La dettagliata presentazione di uno spazio naturale talvolta minaccioso ma anche di enorme bellezza estetica, popolato da arcane presenze sovrannaturali capaci all’occorrenza di procurare danno agli umani, sarà un elemento che ricorrerà frequentemente nell’intera opera in un binomio che oppone la paura per l’ignoto all’attrazione. In una piccola casa da tè nella provincia di Sagami, il bonzo Kojirō si ferma a riposare e ascolta, tra una tazza e l’altra, la lunga storia che gli viene narrata dall’anziana proprietaria. In questo modo viene a conoscenza degli oscuri eventi che stanno avvenendo nella regione; in sequenza sono narrate la sfortunata vicenda del giovane Kakichi, l’incontro del vecchio Saihachi con una misteriosa e potente figura femminile, lo strano comportamento dei ragazzini del villaggio che ripetono in processione, i volti coperti da foglie di taro forate, una strana filastrocca che sembrano aver imparato proprio da questa sconosciuta presenza femminile.

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Si arriva così al centro nevralgico dell’intera narrazione: la Porta Nera.

A seguito di eventi nefasti, questa residenza è temuta da tutti ed evitata dagli abitanti del villaggio, che la ritengono un luogo infestato. Solo il vecchio Saihachi vi si reca ancora; per questo la moglie chiede al bonzo di visitarla e di recitarvi un sūtra. Presentato al lettore in strane circostanze, la villa ha da poco un nuovo inquilino: il giovane Akira, uno studente venuto da lontano. Con il suo arrivo, l’opera inizia ad esprimere più concretamente la propria vocazione onirica.

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Finora limitati al racconto indiretto e percepiti come lontani, gli eventi inspiegabili si moltiplicano per numero e per intensità; non più narrati dalla voce esterna dell’anziana, sono ora raccontati dai diretti interessati e si manifestano nel loro svolgersi, rivelandosi gradualmente agli occhi increduli dei lettori.

La Porta Nera è un Non-luogo, dove il tempo scorre diversamente e dove anche la natura sembra comportarsi in maniera differente. Il sole cala prima, le foglie degli alberi proiettano strane ombre e lo scroscio della pioggia può essere udito anche quando il cielo è sereno.

Le assi dei tatami si muovono da sole, gettando nel panico gli uomini; le lanterne vorticano in maniera inspiegabile, generando strane luci e deformando i contorni delle cose; gli oggetti spariscono…

Nell’oscurità di una di queste stanze, al calar della sera, Akira rivela al bonzo Kojirō la ragione del suo viaggio.

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Izumi Kyōka

Orfano di madre, il giovane ha viaggiato per cinque anni alla ricerca di una filastrocca che cantava quando da bambino giocava a palla con le amiche.

Il ritrovamento di una palla identica a quella che possedeva da piccolo nel ruscello che attraversa il giardino della Porta Nera e le filastrocche cantate dai bambini del villaggio lo hanno indotto a restare in quel luogo, convinto che tra le mura di quella strana casa sarebbe riuscito a sentire per la prima volta dopo tanto tempo ciò che cercava, unica maniera di riportare in vita, seppur brevemente, la memoria della madre. L’oralità sembra quindi fornire una delle chiavi di lettura dell’intera opera. Non solo gran parte della narrazione avviene nella forma del racconto orale, ma anche i canti e le filastrocche vi ricoprono un ruolo rilevantissimo.

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L’ opera si apre proprio con una filastrocca e queste sembrano essere una vera e propria ossessione per il personaggio di Akira, che annota tutte quelle che ascolta. In diverse occasioni queste nenie sembrano poi ricoprire un ruolo quasi magico; la misteriosa figura femminile ne intona una nella notte dell’incontro con Kakichi, che viene modificata e ripetuta dai bambini che sfilano in un’occulta processione.

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Nella parte finale, le filastrocche lette dal monaco sembrano addirittura riuscire a materializzarsi nel presente.

In generale, il canto sembra capace di aprire un varco, schiudendo il passaggio tra il mondo degli umani e quello delle presenze sovrannaturali. E anche nel caso di Akira quello che il giovane studente ricerca è una sorta di varco: il potere della filastrocca sembra in grado di riportare alla luce il volto ormai dimenticato della madre e quindi violare il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In un atto di effimera necromanzia, lo studente cerca in un certo senso di riportare in vita la figura materna; al tempo stesso, la filastrocca e la palla rappresentano i mezzi principali di un tentativo di regressione all’infanzia.

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Il ricorrere a numerosi simboli femminili nell’opera, l’abbandono totale del giovane agli eventi e l’ambiente buio della casa della Porta Nera suggeriscono quasi una volontà di tornare al grembo materno, di risalire non tanto alla propria madre “reale” quanto a una più archetipica figura di Madre e a una più generale volontà di essere accudito. In quest’ottica sembra emblematica quindi la scelta di una casa in cui sono avvenute due morti di parto e che si vocifera essere infestata da Ubume, spiriti di donne incinta, come luogo prescelto di ricerca. Ancora più significativa sembra poi la disponibilità di Akira, nella visione profetica presentata nella parte finale dell’opera, ad accettare una madre “altra” ; questo rapporto si tramuta presto in un erotismo proibito, nonostante gli sforzi della madre reale che, contravvenendo alla legge dei Cieli, prova a intervenire per portare in salvo il proprio figlio. In questa ricerca del calore materno potrebbe essere ricercato il nucleo tematico dell’intera opera.

Ciò trova una parziale corrispondenza con la biografia dell’autore; orfano, a seguito di alcuni profondi lutti familiari si era ritirato nei pressi del luogo in cui è ambientata l’opera, in una casa in affitto.

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Più in generale, la maternità (e la paternità) sono vissute in maniera travagliata all’interno di tutta l’opera.

Tutti i personaggi principali non hanno figli. L’anziana proprietaria della casa da tè regala a tutti gli avventori sassolini provenienti da una roccia che si dice capace di donare fertilità; tuttavia, con rammarico dichiara di non essere riuscita ad avere prole. Le due gravidanze riportate nel racconto finiscono in tragedia, con la morte di entrambe le partorienti e dei nascituri oltre che il suicidio del padre; a rendere ancora più angosciante la relazione con la maternità contribuiscono le inquietanti presenze delle ubume e la terribile visione nel giardino.

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I bambini compaiono nell’opera solo come presenze di passaggio, irriconoscibili a causa delle foglie di taro che coprono e mascherano il loro viso, entità al confine tra l’umano e il soprannaturale; anche le figure dei genitori sono a malapena tratteggiate e nessun volto si riesce a distinguere nella massa indistinta.

Ciò contribuisce a dare maggiore rilievo e centralità alla figura di Akira, la cui infanzia è al contrario descritta con precisione e le cui figure materne rappresentano dei personaggi importanti: non solo la madre, la cui memoria muove le azioni del giovane, ma anche figure di maternità “complementare”, come la zia e le amiche di infanzia, ricoprono un ruolo importante nella sua ricerca. Sebbene l’opera sembri animata da una tensione costante verso l’archetipo, essa mantiene tuttavia un carattere tipicamente nipponico che ne pervade qualunque aspetto. Frequentissimo è il rimando al teatro kabuki, di cui l’autore era grande esperto e che contribuisce a fornire a molte pagine un notevole effetto drammatico; l’influenza degli interessi letterari dell’autore si nota poi anche nei contenuti, fortemente ispirati dalla letteratura fantastica di epoca Tokugawa. Le apparizioni e le entità sovrannaturali che si avvicendano nel romanzo sono profondamente radicate nella tradizione giapponese e in primo luogo nelle credenze popolari: le figure di yōkai si affollano tra le pagine del romanzo, contribuendo a rendere l’atmosfera più viva e sinistra.

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Anche lo Shintoismo e il Buddhismo forniscono numerosi spazi, suggestioni e figure. Spiriti piangenti, demoni e compassionevoli entità celesti si addensano soprattutto nella parte finale del romanzo, in cui i confini tra realtà e sogno sembrano farsi sempre più sfumati, fino a scomparire del tutto.

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La vita umana non sembra qui troppo lontana dal sogno stesso e lo scorrere degli eventi si fa incerto, si frammenta, sfugge al controllo e alla percezione dei protagonisti, rendendo impossibile distinguere gli eventi concreti dall’illusione e dalla visione.

Dipinto minuziosamente, lo spazio naturale è il luogo privilegiato dove le apparizioni si manifestano, che sia nella forma di una palla trascinata dolcemente da un ruscello o di una voce che risuona imperiosa sul mare. La natura appare sempre minacciosamente sul punto di irrompere nell’elemento umano e vincerlo: potrebbe essere questo il senso della pioggia che penetra dentro la casa dalla Porta Nera, delle erbacce che crescono rigogliose fino a coprirne il sentiero, delle strane ombre proiettate dalle foglie all’interno della residenza e, soprattutto, delle inquietanti maschere ricavate dalle foglie di taro usate dai bambini del villaggio. Quando le indossano essi appaiono irriconoscibili alle loro stesse famiglie, quasi come se l’applicazione dell’elemento naturale li tramutasse, sottraendoli alla sfera umana e trasformandoli indistintamente in qualcosa di Altro.

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Palcoscenico di eventi inspiegabili è soprattutto la montagna, in linea con la tradizione nipponica che da lungo tempo la percepiva come uno spazio Altro rispetto a quello antropico dei campi e dei villaggi, che sfuggiva al controllo umano.

Non è un caso quindi che la Porta Nera si trovi alle pendici dei monti, quasi a voler simboleggiare il luogo d’incontro tra i due mondi. Anche il percorso del monaco Kojirō sembra significativo. Bonzo itinerante, egli deve ancora prendere i voti e ha appena effettuato la sua prima tonsura. Il racconto degli eventi della Porta Nera da parte dell’anziana riesce però a fargli provare autentica compassione; conscio dei suoi limiti, non esita ad ammetterli al giovane Akira; nei momenti di paura, egli fa appello al Buddha con vera fede. Proprio lui riceverà quindi, nel finale del romanzo, la visita dei demoni e interagirà con essi; a lui verrà illustrata la visione profetica riguardo al destino di Akira e proprio lui cercherà di trattenere il giovane dal seguire la presenza femminile nel suo volo. Sebbene non culminante nell’Illuminazione, il suo percorso lo porta quindi a ricevere una rivelazione sovrannaturale e a prendere parte al mistico evento che chiude l’opera, che sembra voler rappresentare un evento risolutivo e di portata universale, coinvolgendo il Cielo e la Terra. Tanto quanto Akira, anche per il monaco quest’avvenimento rappresenta il culmine e il punto di arrivo del suo viaggio.

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“Labirinto d’erba” è dunque un’opera policentrica, in cui punti di vista e tempi si alternano costantemente e in cui il rapido fluire degli eventi si alterna alle modalità del racconto e si diluisce nell’atmosfera densa della visione e dell’onirismo.

Radicata saldamente nell’universo immaginativo giapponese, l’opera offre numerose chiavi interpretative ed è pervasa da una costante tendenza universalizzante che punta a raggiungere l’archetipo. Con la sua atmosfera intrisa di mistero e la sua simbologia complessa, si propone al lettore come un intricato enigma fatto di piante, presenze inafferrabili e drammi individuali, lo trascina in un alternarsi apparentemente caotico di lucidità e sogno, lo spinge a interrogarsi sulla realtà stessa delle cose.

Favole del Giappone || Luni Editrice

L’Associazione Takamori è lieta di annunciarvi una nuova pubblicazione. Edita da Luni Editrice, “Favole del Giappone” di Niimi Nankichi porta in scena l’affascinante universo immaginifico dell’arcipelago nipponico.
Sospesa tra realtà e fantasia, l’opera racchiude alcuni tra i racconti più noti dell’autore, uno degli scrittori più emblematici della letteratura giapponese per l’infanzia e spesso descritto come l’ “Andersen” giapponese. Tratteggiando l’immagine di un Giappone rurale, le sue favole aprono al lettore occidentale una finestra privilegiata sul folklore giapponese e sul suo complesso sistema di valori: fortemente allegoriche, queste favole forniscono profonde suggestioni e personaggi memorabili destinati a rimanere impressi nella mente del lettore.
Continuate a seguirci per altre novità sulla letteratura giapponese!

Favole del Giappone. Niimi Nankichi || Luni Editrice

L’associazione Takamori è lieta di segnalarvi il seguente testo pubblicato sul sito Web della Luni Editrice (consultabile al link https://www.lunieditrice.com/product/favole-del-giappone-niimi-nankichi-letteratura-giapponese-racconti/):

Niimi Nankichi è uno degli autori più rappresentativi della moderna letteratura giapponese per l’infanzia e per ragazzi: la sua idea di letteratura traspare dalle scelte dell’ambientazione e dei valori, ma anche dei personaggi che rimangono nella memoria dei lettori.

Il senso di solitudine e desiderio insopprimibile di comunicare a dispetto dell’instabilità e dell’imprevedibilità dell’esistenza, rappresentano non solo il leitmotiv dei racconti del primo periodo, ma la corrente che scorre nella sua produzione fino alle ultime opere.

Il racconto Gon la Volpe, che apre questa raccolta, è stato il suo primo grande successo: presente nei manuali scolastici giapponesi, oggetto di numerosi adattamenti, è entrato nell’immaginario collettivo giapponese; i suoi ultimi scritti sono di rara bellezza, ricchi di allegorie e simboli, come il racconto qui tradotto Il lume a petrolio del nonno che è tra le sue opere più conosciute.

Nei suoi racconti realtà e finzione letteraria si inseguono in contrappunto mentre il legame con i luoghi contadini della sua infanzia diviene più profondo: egli non è più osservatore, ma diviene parte stessa di quella sorta di universo sospeso, fatto di cristallina semplicità, nel quale la dimensione letteraria è accomunata alla capacità di coinvolgere il lettore, accompagnato dalla voce stessa del narratore.

Niimi Nankichi (1913-1943) è spesso presentato come l’Hans Christian Andersen del Giappone.

Originario di Handa, ha lasciato una ricca produzione di racconti, poesie, filastrocche e testi teatrali la cui accuratezza e grazia restituiscono il mondo della provincia rurale giapponese, tra tradizione e modernità. Abbandonata Tōkyō dove si era recato per studiare a causa delle difficoltà economiche e dopo aver contratto la tubercolosi, torna nella sua provincia di origine dove scopre un osservatorio privilegiato tra passato e futuro e in generale sull’essere umano al confronto con il passare del tempo, l’imprevedibilità dell’esistenza, il bisogno di comunicazione con l’altro. Il progredire della malattia è accompagnato da uno slancio creativo che testimonia la volontà dell’autore di affidare la sua voce alle storie che rimarranno dopo di lui.

Maria Gioia Vienna è docente di lingua e letteratura del Giappone presso l’Università per Stranieri di Siena. Ha tradotto fiabe del Giappone centrale, romanzi e racconti di Ozaki Kōyō, Edogawa Ranpo, Mishima Yukio, Ōba Minako e Uchida Shungiku.