Qp – Aoba Ichiko || Recensione


Aoba Ichiko è una cantautrice che si è imposta negli ultimi anni nella scena internazionale, in seguito al rilascio del suo album “Windswept Adan” nel 2022.
Prima della svolta Chamber pop della cantante, era conosciuta nella scena musicale per i vari album Folk che la contraddistinguevano con uno stile fortemente minimalista e performance che non uscivano mai fuori dal semplice assetto chitarra-voce.
Qp è l’ultimo album che conserva queste caratteristiche e allo stesso tempo l’album che ha fatto da crocevia per la carriera della cantautrice, rappresentando forse il lavoro che meglio dipinge il paesaggio sonoro dell’artista.

L’album si muove attraverso una fusione continua di sonorità folk ed ambient. La cantante si presenta con una voce angelica, calma e pacifica. Oltre a questo non c’è molto altro, ma nemmeno ce n’è bisogno. Non mostra abilità impressionanti in termini di performance vocali, tuttavia l’album è semplice, non cerca di attirare l’attenzione della gente, ma piuttosto di creare un ambiente etereo e pacifico e proprio per questo motivo il minimo sufficiente funziona alla perfezione.

La chitarra segue esattamente lo stesso processo di pensiero della voce, trasmette tranquillità senza mostrare alcuna abilità straordinaria, attraverso linee melodiche morbide ed eleganti che accompagnano perfettamente la voce.
L’atmosfera creata è molto leggera per quanto malinconica e l’album più che seguire una trama predefinita sembra essere più una raccolta di canzoni che condividono la stessa entità.
Questo è sia un pregio che un difetto: per quanto la semplicità della scrittura compositiva lo renda perfetto per un ascolto rilassato e disimpegnato, ascoltandolo più attivamente si ha l’impressione che le varie tracce finiscano col fondersi l’una con l’altra, rivelando la monotonia dell’album.

Qp resta, nonostante questo, un album d’alta qualità che permette, grazie anche ai testi che seguono i temi tipici di Ichiko Aoba, ovvero la natura e i suoi simboli, legati a vita, morte e spiritualità, di immergersi in un paesaggio sonoro senza tempo, in cui è possibile chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare per tutta la durata dell’album.

Our hope – Hitsujibungaku || Recensione

Hitsujibungaku è un trio indie rock fondato a Tokyo nel 2011. Inizialmente costituito da cinque membri, il gruppo inizia la sua carriera realizzando cover di altre band, per poi cominciare a scrivere materiale originale ed esibirsi durante i primi anni di liceo. Attualmente il trio è costituito da Shiotsuka Moeka, cantante, Kasai Yurika al basso e Fukuda Hiroa alla batteria. La parola bungaku nel nome sta a indicare l’importanza del testo nella musica della band; un lirismo delicato ma allo stesso tempo d’impatto, accompagnato da una musica che sa essere dolce e incisiva quando necessario, costituisce l’elemento distintivo dello stile di Hitsujibungaku.                              

Questa caratteristica emerge in particolar modo nel loro terzo album, our hope, che presenta influenza indie rock, dream pop e shoegaze. L’album si apre con hopi, in cui la voce della cantante e i cori, accompagnati da una chitarra riverberata e nostalgica, danno vita a un’atmosfera quasi sognante, resa ancora più suggestiva da un testo altrettanto evocativo.                                                                                                                      

 A seguire Hikarutoki (光る時), una delle tracce più rappresentative dei temi principali e del sound del disco: la voce cristallina di Shiotsuka Moeka è arricchita da armonizzazioni incisive e da una batteria che si mantiene inizialmente stabile e costante ma che cambia tempo nel ritornello, rilasciando l’aspettativa creatasi nella prima strofa ed esprimendo così in modo molto efficace il messaggio della canzone: il testo invita l’ascoltatore ad avere speranza nel futuro nonostante le avversità, poiché la bellezza della vita risiede proprio nella capacità dell’essere umano di poter fiorire di nuovo nonostante le intemperie. Il momento di splendore a cui fa riferimento il titolo può essere raggiunto affrontando la vita di petto senza farsi ostacolare dalla paura del futuro.                                                                                                                            

Un tema molto simile viene trattato nella quarta traccia, Mayoiga (マヨイガ), caratterizzata da un sound più oscuro dovuto alla presenza di una chitarra e un basso più intensi. La cantante sembra parlare direttamente all’ascoltatore, sottolineando l’importanza di agire per il proprio futuro, poiché la ricompensa di tale impegno ha un valore inestimabile. Allo stesso tempo, dobbiamo dare a noi stessi la possibilità di essere vulnerabili e dare sfogo alla nostra tristezza nei momenti più duri.                                   

our hope vuole ricordarci che ognuno di noi ha il potere di cambiare la propria vita e di costruire una realtà in cui splendere senza paura. L’album è un invito alla resilienza e alla speranza, a compiere piccoli miracoli apparentemente insignificanti ma che hanno il potere di mostrarci chi siamo davvero e il nostro potenziale; il tutto è incorniciato da un’atmosfera intima ed energetica allo stesso tempo, capace di mettere in luce le nostre paure più profonde ma anche di incoraggiarci ad agire per sconfiggerle.

Recensione di Francesca Marinelli

Chanmina || Takamori J-Sound

Bentornati su Takamori, oggi nella rubrica musicale vi parliamo di ‘Chanmina’, rapper e cantante giapponese!

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Nakamori Akina || Takamori J-Sound

Bentornati nella rubrica J-Sound di Takamori! Oggi vi parliamo di Nakamori Akina!

Nakamori Akina nasce a Kiyose nel 1965. Raggiunge la notorietà a soli 17 anni con il singolo “Slow motion” che resta al top delle classifiche per ben 39 settimane. In parallelo con la carriera da cantante si è contemporaneamente dedicata anche a quella di attrice e doppiatrice.

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House in the tall grass || Recensione

Artista: Kikagaku Moyo

Anno: 2016

Formazione: Kurosawa Go – voce, batteria, percussioni

Katsurada Tomo – voce, chitarra

Kotsu Guy – basso

Daoud Popal – chitarra

Kurosawa Ryu – sitar, tastiere

Sicuramente i Kikagaku Moyo sono uno dei gruppi più internazionali che il Giappone abbia tirato furori negli ultimi quindici anni. Fondati nell’estate 2012, il quintetto ha iniziato come busker per le strade di Tokyo. Ha riscontrato già dai primi lavori un riscontro positivo sia da parte del pubblico che dalla critica, suscitando oltretutto la curiosità degli appassionati oltreoceano. Nel corso di pochi anni sono stati in grado di evolversi e di maturare le loro idee musicali.

A differenza dei primi lavori – l’omonimo “Kikagaku Moyo” (2013) e “Forest of Lost Children” (2014) – dal sound avvolgente, sperimentale ma ancora acerbo, il consolidamento è avvenuto nel 2016 con l’uscita, per la label indipendente Guruguru Brain, di House in the tall Grass.

Basterebbe solo il titolo e la copertina per capire in che mondo veniamo immersi: la “casa” che rappresenta noi ascoltatori e “l’erba alta”, ovvero la musica che ci accompagnerà in una piacevole ed elegante perdizione.

Rispetto ai dischi precedenti il sound pare più strutturato e meno confusionario con canzoni, sebbene molto diverse, perfettamente coerenti tra di loro dando un senso di linearità all’interno del discorso musicale.

Quello che fanno i Kikagku Moyo in sostanza è ripensare in chiave moderna il mondo prog/psichedelico anglosassone degli anni ’60/70, per poi contaminarlo con il dream pop e l’indie del nuovo millennio, dando così vita non a un banale omaggio ai classici ma a un’opera con una propria identità.

La band si diverte a ripensare la forma canzone, con l’obiettivo non tanto di creare singoli di grande impatto o necessariamente accattivanti ma di proporre un’atmosfera rarefatta e lo fa prendendosi il loro tempo, diluendo il più possibile le composizioni, attraverso arpeggi di chitarra e sitar trasognanti e una ritmica tribale; una formula che ricorda i grandi gruppi americani come i Velvet Underground, i Doors e i Mazzy Star.  In tutto ciò la voce androgina di Katsurada Tomo è un bisbiglio che sbiadisce nella melodia, uno spettro gentile che si aggira nella “Tall Grass”.

Tra le canzoni che spiccano ricordiamo: Kogarashi (una parola giapponese che sta ad indicare il freddo e pungente vento autunnale) con la voce di Katsurada che si ripete all’infinito come un mantra; la lunga Silver Owl che dondola lentamente fino a esplodere con riff zeppeliniani – gli stessi guizzi di hard rock che ritroviamo nella più compatta Dune. Infine, Melted Crystal è un brano che porta quasi all’ipnosi perché è costituito da un unico tema di chitarra che si ripete per oltre cinque minuti, dove l’unico elemento di variazione sono i lenti cambi di dinamica delle percussioni.

I Kikagaku Moyo realizzeranno successivamente altri tre album di ottima fattura, ma questo “House in the tall grass” rimane un’opera cardine della loro carriera che li ha consacrati come una delle realtà più rilevanti di tutto il panorama neo-psichedelico.

Recensione di Martino Ronchi