Yorushika – Tōsaku || Recensione

Tōsaku (盗作) è il terzo album dell’ensemble giapponese Yorushika, nato nel 2017 e formato dal compositore e chitarrista n-buna unito alla cantante suis.
A oggi, il gruppo è tra i più rilevanti e popolari nella scena pop-rock nipponica odierna, con tre album e due mini-album pubblicati dalla formazione. La particolare commistione tra melodie upbeat e testi tendenti al cupo, insieme all’abilità di creare storie sia all’interno dei loro singoli, sia tra i loro album, hanno garantito il sempre più crescente favore del pubblico.
Infatti, alcuni dei loro brani, come Itte (言って) e Dakara Boku wa Ongaku wo Yameta (だから僕は音楽を辞めた), hanno avuto successo immediato, diventando delle hit da più di 100 milioni di visualizzazioni.
Proprio la loro abilità di creare delle storie non solo all’interno dei singoli pezzi, ma anche distribuite in album interi, è il motivo per cui Tōsaku è tra gli album più validi del suo genere.
Il filo conduttore delle composizioni di Tōsaku affonda le sue radici sul concetto del plagio, fenomeno comune nello scenario musicale di oggigiorno. Le intenzioni comunicative del progetto sono state espresse nella descrizione del video YouTube dell’omonimo singolo, dove n-buna si definisce un “ladro di suoni” – rubando melodie e sequenze da vari artisti sia occidentali, sia giapponesi – instillando al contempo nel pubblico il dubbio vari dubbi sul plagio in musica – come il fatto se sia intenzionale o meno visto l’esaurimento dei modelli melodici e le progressioni di accordi, oppure se un’opera d’arte perde davvero valore perché ha rubato qualcosa da qualcos’altro.
Il pop rock molto forte e appassionato che ha sempre caratterizzato le composizioni del duo trova massima espressione in Tōsaku, con delle sequenze di basso notevoli in Hirutonbi (逃亡) e Toubou (逃亡) e dei riff di chitarra molto grezzi, come in Bakudanma (爆弾魔). Come in Dakara Boku wa Ongaku wo Yameta, sono incluse parti di pianoforte e tastiera, le quali – pur non essendo un focus principale della struttura melodica – sono state incorporate magistralmente, come in Hana ni Bourei (花に亡霊), con un assolo che apre e chiude il pezzo.
La maggior parte dei brani segue la falsariga dell’antitesi composizione upbeat – testo cupo, creando un’atmosfera intensa e caleidoscopica; essa viene infatti spezzata da intermezzi strumentali, i quali calmano il rapido ritmo ma coprono anche un ruolo nella narrazione: infatti, in Ongaku Dorobou no Jihaku (音楽泥棒の自白), il piano suona le note di Moonlight Sonata intrecciata a suoni riecheggianti composizioni passate dell’ensemble.
L’ordine della lista dei brani, la quantità di canzoni campionate e la capacità di raccontare fluidamente una storia attraverso la musica, rendono questo album un must-listen per gli appassionati di musica giapponese.

Recensione di Giovanni Varia

Hashimoto Hideyuki || Recensione

Hashimoto Hideyuki, nato ad Osaka nel 1986, è un pianista giapponese tra gli artisti emergenti più interessanti all’interno del panorama nipponico indipendente.

La grande particolarità che discosta Hashimoto dai i suoi “altri” colleghi è la capacità di dare al pianoforte un sound unico capace di creare uno stupendo spazio vuoto ma denso al tempo stesso grazie al “rumoroso” feedback dei tasti.
Hashimoto dichiara che i suoi brani sono per la gran parte improvvisati e che si ispira principalmente ai suoni della natura.

Un grosso esempio di tale tecnica è il brano Kagamino ripreso dal suo primo album:

Le sonorità peculiari si uniscono a video, girati per la maggior parte da Watanabe Satoshi, che ne alimentano l’aspetto puramente onirico riuscendo così a catturare entrambi i sensi dell’ascoltatore.

Hashimoto nel 2012 ha rilasciato i suoi due primi lavori, Earth e Air, nei quali utilizza principalmente un suono d’ambiente come background delle sue improvvisazioni.

Nel 2013 alla Triennale di Setouchi ha partecipato all’evento Sea’s Terrace a Takamijima e, con un pianoforte dell’isola, ha rappresentato l’atmosfera della regione con la musica.

Da allora Hashimoto ha rilasciato numerosi album che continuano a portare avanti lo stile iconico che ormai l’artista ha fatto proprio.

— Recensione di Stefano Andronico

Takanaka Masayoshi || Recensione

Takanaka Masayoshi nasce nel 1953 a Tokyo, e la sua carriera professionale come musicista inizia nei primi anni ’70 con due band progressive rock, i Flied Egg e i Sadistic Mika band. Questa si rivela essere solo una breve parentesi, poiché già dal 1976 inizia la sua carriera solista con il suo primo album, Seychelles. Già in questo primo album le influenze rock iniziano a indebolirsi, privilegiando sonorità jazz, funk e talvolta quasi ambient. 

Takanaka è molto prolifico, e da questo momento sfornerà talvolta più di un album all’anno, spaziando tra le sonorità ma mantenendo uno stile particolare e inconfondibile. Due album sono sicuramente degni di nota in questo primo decennio da solista, se non altro come manifesto della sua poliedricità: il primo è Brasilian Skyes, registrato in parte in Brasile e di cui si percepisce l’influenza della samba e il mood dall’allegria contagiosa. L’altro è The Rainbow Goblins, un concept album fantasy che in una atmosfera sognante ci racconta, tramite una voce narrante, una favola. 

La sua produzione degli anni ’80 si avvicina maggiormente al cosiddetto City Pop, di cui è in realtà fonte di ispirazione, con sonorità tipiche del pop di questo decennio, meno improntante al jazz fusion e più al pop-funk. Sono di questi anni album come Traumatic – Far Eastern Detectives (1985), Rendez-Vous (1987) e Hot Pepper (1988).

Negli anni ’90, Takanaka espande ulteriormente in suoi orizzonti, accostandosi talvolta al rock di Santana, talvolta alla dance, tornando al rock per poi contaminare il tutto con l’elettronica e l’acid jazz. Strizza pure l’occhio al passato con un nuovo concept album intitolato The White Goblin (1997), ma stravolge le aspettative poiché, nonostante mantenga la struttura con voce narrante, la parte musicale è marcatamente più rock ed energica. 

Nel nuovo millennio, il chitarrista ci regala album sognanti e atmosferici, con mood romantici e rilassanti. La sua chitarra pulita ipnotizza l’ascoltatore con un suono che fa provare nostalgia e commuove, con gli album Hunpluged (2000), The Moon Rose (2002), poi cambiare di nuovo e sorprenderci nuovamente, con un nuovo album che rimette tutto in gioco.

Takanaka è anche famoso e riconoscibile per le sue chitarre appariscenti ed esagerate, come la celebre chitarra interamente dorata o la chitarra a forma di tavola da surf. Ciò è frutto di una grande ironia, come è possibile intuire anche da alcune copertine dei suoi album, che lo vedono talvolta fare sky diving, talvolta nei panni di un insegnante di musica, altre rilassato mentre siede in spiaggia. Il suo stile è giocoso e forte di una grande abilità e conoscenza della musica che gli ha permesso negli anni di spaziare tra i generi e di realizzare una moltitudine di cover riarrangiate nei modi più vari, tra cui la sigla di Star Wars in chiave samba, la colonna sonora di Titanic, Pastime Paradise di Stevie Wonder, Just the Way You are di Billy Joel…

All’età di 65 anni, Takanaka sta invecchiando come un buon vino, e potrà sicuramente regalarci ancora musica di gran qualità.

— Recensione di Chiara Coffen

Lamp – Koibito he || Recensione

Poco conosciuti al di fuori del Giappone ma costantemente attivi nel panorama musicale nipponico, i Lamp (ランプ) sono un power trio formatosi nel 2000 e composto da Nagai Yūsuke (永井祐介), Sakakibara Kaori (榊原香保里) e Someya Taiyō (染谷大陽).
Le loro produzioni mescolano forti elementi di bossa nova alla shibuya-kei con forti sonorità funk e chamber pop creando uno stile e delle sonorità che difficilmente possono essere ritrovate in altri artisti.
In questa recensione andremo ad analizzare il loro album studio d’esordio, il più iconico, in grado di far immergere l’ascoltatore nelle complesse quanto morbide sonorità dei Lamp.

 

Koibito he (恋人へ)

1 恋人へ / Koibito he 1:15
2 ひろがるなみだ / Hirogaru-Namida 4:34
3 最終列車は25時 / Saishū ressha wa 25 ji 4:23
4 日曜日のお別れ / Nichiyōbi owakare 5:06
5 明日になれば僕は / Ashita ni nareba boku wa 3:51
6 雨のメッセージ / Ame no messēji 5:26
7 愛の言葉 / Ai no kotoba 3:46
8 恋は月の蔭に / Koi wa tsuki no kage ni 5:09

Pubblicato nel 2004, ed anticipato solo da un EP, si tratta del primo vero e proprio lavoro in studio della band.
A differenza di quanto si possa pensare dalla bellissima copertina dell’album non si tratta di un disco dai toni cupi e tristi ma bensì di una produzione che lungo tutte le tracce fa scorgere un ottimismo che non sembra mai arrestarsi.
Al suo interno troviamo sonorità forti e ben sviluppate che passano da una semplice e melodica Koibito he, titletrack del disco, suonata utilizzando solo una chitarra classica e mixata con effetti “telephone” il cui punto forte è il testo breve ma profondo, a tracce la cui complessità lascia increduli davanti al fatto che all’epoca dell’uscita del disco la band era composta da poco più che ventenni.
Dalla prima all’ultima canzone possiamo notare un’enorme quantità di strumenti situazionali utilizzati egregiamente quali flauti traversi, sassofoni e sintetizzatori, questi ultimi usati in modo da costruire un ambiente “contenitore” attorno alle tracce stesse.
Le fluide melodie, che si mischiano benissimo alle armonie vocali dei due vocalist Kaori e Yūsuke, sono un piacere per le orecchie.
I due riescono a dare vita ad armonie incredibili senza sovrastarsi a vicenda nel modo in cui spesso sembri proprio di sentire una sorta di dialogo domanda – risposta.

L’album si apre e si chiude con lo stesso spirito inscatolando però al suo interno delle tracce la cui composizione non può far altro che rendere più ottimista anche il più cupo tra gli ascoltatori, grazie anche alla bellissima voce di Kaori che si ritrova ad essere perfetta in ogni circostanza.

Koibito he dei Lamp è una vera e propria perla ancora poco esplorata se non da pochi amanti del genere che l’hanno resa un cult.
Vi invitiamo quindi a scoprire di più riguardo alla discografia dei Lamp e a farvi travolgere dalla loro musica, di seguito la loro discografia parziale.

2003 そよ風アパートメント
2004 恋人へ
2005 木洩陽通りにて
2008 ランプ幻想
2010 八月の詩情
2011 東京ユウトピア通信
2014 ゆめ
2018 彼女の時計

–Recensione di Stefano Andronico

Fukui Ryō : Il Jazz dell’Hokkaidō

Il jazz giapponese, talvolta chiamato jap-jazz, si forma a seguito della Seconda Guerra Mondiale in un momento che vede i soldati americani portare il genere nell’arcipelago.
Il jap-jazz si è evoluto da allora portandosi dietro una chiara ispirazione occidentale ma ottenendo nel corso del tempo connotazioni puramente nipponiche che aggiungono colore e identità ad un genere che i giapponesi hanno fatto proprio.
Fukui Ryō (福居良) è uno di coloro che permise la nascita, lo sviluppo e la capacità di dare una nuova identità a questa nuova corrente musicale.

Nasce a Biratori, nella prefettura di Hokkaidō, impara a suonare il pianoforte da autodidatta all’età di 22 anni e nello stesso periodo si trasferisce a Tōkyō.
Proprio nella capitale, Fukui incontra uno dei migliori sassofonisti della sua epoca; Matsumoto Hidehiko (松本英彦), soprannominato “sleepy”, il quale incoraggia Fukui a migliorare tecnicamente per intraprendere una vera e propria carriera.
Durante gli anni 70′ il jazz giapponese si trova ancora in una fase embrionale, una crisi identitaria causata della troppa evidente copiatura dell’ormai stantio jazz americano.
Mentre molti artisti, suoi colleghi, si concentrano sulla ricerca e sullo studio di un tessuto musicale più profondo, situazione che porta allo sviluppo del genere del citypop, Fukui si dimostra più concentrato a trovare una composizione più lineare, diretta e, soprattutto, propria.
Dopo 6 anni vissuti a Tōkyō, pubblica uno dei maggiori capolavori del jazz giapponese, capace di dare finalmente un’identità propria al jap-jazz.

Nel 1976 pubblica Scenary (シーナリィ), album che non si concede a virtuosismi ma ad un’elegante e ricercata composizione. Al suo interno troviamo elementi bebop, cool jazz e blues, il tutto mischiato rendendo l’album qualcosa di estremamente unico.
Le tracce sono un susseguirsi malinconico di note le quali vengono suonate con estrema destrezza da Fukui, esibendo un’estrema consapevolezza di cosa siano la melodia e il ritmo. I brani sono accompagnati dal basso suonato da Denpo Satoshi e dalla batteria suonata da Fukui Yoshinori, fratello dell’artista.

L’anno successivo pubblica Mellow Dream (メロー・ドリーム), opera di forte ispirazione romanza rispetto al lavoro precedente, pur mantenendo però una chiarissima impostazione jazz e bebop.
Fukui si rivela ancor più concentrato sulla complessa composizione che pervade l’intero album senza però riuscire a superare il livello di sincera ispirazione raggiunto con l’album precedente.
I brani sono tutti accompagnati da basso e batteria suonati dalle ormai due storiche figure che hanno accompagnato l’artista lungo i suoi lavori.

 

Dopo un lungo periodo di assenza, nel 1994 viene pubblicato My Favorite Tune. Album privo di percussioni e basso in cui esordisce un Fukui più maturo e consapevole. Al suo interno troviamo un susseguirsi di brani eseguiti solo tramite il pianoforte con l’estrema cura esecutiva dell’ormai maestro indiscusso del panorama del jazz giapponese.
Si tratta di un’opera passata in sordina sia in patria che all’estero a causa (o grazie) della noncuranza e al disinteresse di Fukui nei confronti dei riflettori e dell’attenzione mediatica ma che è stata riscoperta dopo la morte dell’artista.

 

A partire dagli anni 90′ Fukui si esibisce con costanza al locale Slowboat a Sapporo, fondato con la moglie Yasuko, diventando parte attiva del palinsesto musicale del club e portando con sé anche artisti americani, tra cui l’amico di lunga data Barry Harris, anch’esso un pianista e mentore musicale di Fukui.

Nel 2015 pubblica il suo ultimo album, A Letter From Slowboat.
Opera che si ispira alle origini dell’artista, richiamando le sonorità dell’ormai facente parte dell’Olimpo musicale Scenary.
Registrato in soli due giorni al locale Slowboat di Sapporo ed eseguito da pianoforte, batteria e basso, l’album è una magnifica reinterpretazione intima di un jazz contemporaneo al cui interno possiamo godere dell’abilità e delle melodie di uno dei pianisti più talentuosi di tutti i tempi.

Con alle spalle una lunga carriera, Fukui si spegne nel 2016 all’età di 68 anni lasciando segno indelebile nella musica giapponese e tra gli artisti di un genere la cui evoluzione è continua e inarrestabile.

–Recensione di Stefano Andronico