Takanaka Masayoshi nasce nel 1953 a Tokyo, e la sua carriera professionale come musicista inizia nei primi anni ’70 con due band progressive rock, i Flied Egg e i SadisticMikaband. Questa si rivela essere solo una breve parentesi, poiché già dal 1976 inizia la sua carriera solista con il suo primo album, Seychelles. Già in questo primo album le influenze rock iniziano a indebolirsi, privilegiando sonorità jazz, funk e talvolta quasi ambient.
Takanaka è molto prolifico, e da questo momento sfornerà talvolta più di un album all’anno, spaziando tra le sonorità ma mantenendo uno stile particolare e inconfondibile. Due album sono sicuramente degni di nota in questo primo decennio da solista, se non altro come manifesto della sua poliedricità: il primo è Brasilian Skyes, registrato in parte in Brasile e di cui si percepisce l’influenza della samba e il mood dall’allegria contagiosa. L’altro è The Rainbow Goblins, un concept album fantasy che in una atmosfera sognante ci racconta, tramite una voce narrante, una favola.
La sua produzione degli anni ’80 si avvicina maggiormente al cosiddetto City Pop, di cui è in realtà fonte di ispirazione, con sonorità tipiche del pop di questo decennio, meno improntante al jazz fusion e più al pop-funk. Sono di questi anni album come Traumatic – Far Eastern Detectives (1985), Rendez-Vous (1987) e Hot Pepper (1988).
Negli anni ’90, Takanaka espande ulteriormente in suoi orizzonti, accostandosi talvolta al rock di Santana, talvolta alla dance, tornando al rock per poi contaminare il tutto con l’elettronica e l’acid jazz. Strizza pure l’occhio al passato con un nuovo concept album intitolato The White Goblin (1997), ma stravolge le aspettative poiché, nonostante mantenga la struttura con voce narrante, la parte musicale è marcatamente più rock ed energica.
Nel nuovo millennio, il chitarrista ci regala album sognanti e atmosferici, con mood romantici e rilassanti. La sua chitarra pulita ipnotizza l’ascoltatore con un suono che fa provare nostalgia e commuove, con gli album Hunpluged (2000), The Moon Rose (2002), poi cambiare di nuovo e sorprenderci nuovamente, con un nuovo album che rimette tutto in gioco.
Takanaka è anche famoso e riconoscibile per le sue chitarre appariscenti ed esagerate, come la celebre chitarra interamente dorata o la chitarra a forma di tavola da surf. Ciò è frutto di una grande ironia, come è possibile intuire anche da alcune copertine dei suoi album, che lo vedono talvolta fare sky diving, talvolta nei panni di un insegnante di musica, altre rilassato mentre siede in spiaggia. Il suo stile è giocoso e forte di una grande abilità e conoscenza della musica che gli ha permesso negli anni di spaziare tra i generi e di realizzare una moltitudine di cover riarrangiate nei modi più vari, tra cui la sigla di Star Wars in chiave samba, la colonna sonora di Titanic, Pastime Paradise di Stevie Wonder, Just the Way You are di Billy Joel…
All’età di 65 anni, Takanaka sta invecchiando come un buon vino, e potrà sicuramente regalarci ancora musica di gran qualità.
IchikawaTakuji, autore del successo mondiale Quando cadrà la pioggia tornerò ci trasporta ancora una volta in una delle sue travolgenti storie.
Protagonista del romanzo è Satoshi che, con i suoi amici d’infanzia Yuji e Karin, condivide la passione per tutto ciò che è inutilizzabile, guasto o caduto in disuso. Introducendoci in un primo momento all’amicizia fra i tre adolescenti, il racconto riprende a circa quindici anni di distanza, il giorno esatto in cui nel negozio di piante acquatiche dell’ormai adulto Satoshi si presenta Morikawa Suzune, popolarissima attrice e modella. Sebbene egli fatichi a riconoscerla, la giovane donna si rivela ben presto Karin, un amore passato dal quale il protagonista non sembrava essersi mai davvero emancipato. Nel frattempo un grave incidente coinvolge Yuji…
Con quel tocco finale di sovrannaturale che caratterizza la scrittura di Ichikawa, formula letteraria di cui è indiscusso maestro, Sono tornata, amore è un romanzo sorprendentemente profondo. Una storia tenera e commovente che si contraddistingue per la capacità di trattare tematiche quali la vita e la morte tramite il linguaggio universale delle esperienze vissute, i ricordi di amicizie solo apparentemente dissipate e le memorie dei primi amori.
Un racconto quindi malinconico, a tratti onirico e dai toni delicati che evidenzia tutta l’abilità della scuola letteraria giapponese di trattare temi profondissimi tramite frammenti di intima quotidianità. Una storia che va dritta al cuore e un romanzo da consigliare non solo agli amanti della letteratura giapponese ma soprattutto a chi, con questa, sta ancora familiarizzando.
Poco conosciuti al di fuori del Giappone ma costantemente attivi nel panorama musicale nipponico, i Lamp (ランプ) sono un power trio formatosi nel 2000 e composto da Nagai Yūsuke (永井祐介), Sakakibara Kaori (榊原香保里) e Someya Taiyō (染谷大陽).
Le loro produzioni mescolano forti elementi di bossa nova alla shibuya-kei con forti sonorità funk e chamber pop creando uno stile e delle sonorità che difficilmente possono essere ritrovate in altri artisti.
In questa recensione andremo ad analizzare il loro album studio d’esordio, il più iconico, in grado di far immergere l’ascoltatore nelle complesse quanto morbide sonorità dei Lamp.
Koibito he (恋人へ)
1 恋人へ / Koibito he 1:15
2 ひろがるなみだ / Hirogaru-Namida 4:34
3 最終列車は25時 / Saishū ressha wa 25 ji 4:23
4 日曜日のお別れ / Nichiyōbi owakare 5:06
5 明日になれば僕は / Ashita ni nareba boku wa 3:51
6 雨のメッセージ / Ame no messēji 5:26
7 愛の言葉 / Ai no kotoba 3:46
8 恋は月の蔭に / Koi wa tsuki no kage ni 5:09
Pubblicato nel 2004, ed anticipato solo da un EP, si tratta del primo vero e proprio lavoro in studio della band.
A differenza di quanto si possa pensare dalla bellissima copertina dell’album non si tratta di un disco dai toni cupi e tristi ma bensì di una produzione che lungo tutte le tracce fa scorgere un ottimismo che non sembra mai arrestarsi.
Al suo interno troviamo sonorità forti e ben sviluppate che passano da una semplice e melodica Koibito he, titletrack del disco, suonata utilizzando solo una chitarra classica e mixata con effetti “telephone” il cui punto forte è il testo breve ma profondo, a tracce la cui complessità lascia increduli davanti al fatto che all’epoca dell’uscita del disco la band era composta da poco più che ventenni.
Dalla prima all’ultima canzone possiamo notare un’enorme quantità di strumenti situazionali utilizzati egregiamente quali flauti traversi, sassofoni e sintetizzatori, questi ultimi usati in modo da costruire un ambiente “contenitore” attorno alle tracce stesse.
Le fluide melodie, che si mischiano benissimo alle armonie vocali dei due vocalist Kaori e Yūsuke, sono un piacere per le orecchie.
I due riescono a dare vita ad armonie incredibili senza sovrastarsi a vicenda nel modo in cui spesso sembri proprio di sentire una sorta di dialogo domanda – risposta.
L’album si apre e si chiude con lo stesso spirito inscatolando però al suo interno delle tracce la cui composizione non può far altro che rendere più ottimista anche il più cupo tra gli ascoltatori, grazie anche alla bellissima voce di Kaori che si ritrova ad essere perfetta in ogni circostanza.
Koibito he dei Lamp è una vera e propria perla ancora poco esplorata se non da pochi amanti del genere che l’hanno resa un cult.
Vi invitiamo quindi a scoprire di più riguardo alla discografia dei Lamp e a farvi travolgere dalla loro musica, di seguito la loro discografia parziale.
Autore: Murakami Ryū
Titolo originale: In the Miso Soup (イン ザ・ミソスープ)
Editore: Mondadori Editore
Collana: Strade Blu
Traduzione: Tashiro Kaoru e Bagnoli Katia
Edizione: 2006
Pagine: 232
Tokyo Soup, come altri libri di Murakami Ryu, è più di quello che promette. Spesso definito un thriller, sfocia in realtà nell’horror più viscerale, con uno splatter che ha molto di psicologico e ha poco a che fare con il “pulp” a buon mercato.
Tutto inizia quando Kenji, un ventenne che fa la guida per stranieri in cerca di turismo sessuale a Tokyo, viene ingaggiato da Frank, un americano che da subito gli trasmette quella sensazione istintiva e profonda di “qualcosa che non va”. Man mano che lo osserva e ci interagisce, Kenji trova Frank sempre più bizzarro e inumano: la sua pelle sembra quasi artificiale, le sue espressioni facciali sembrano un’imitazione di quelle di un essere umano, i suoi occhi sono profondi e privi di luce e sospetta che tutto ciò che racconta siano bugie. L’inumanità grottesca di Frank fa sì che un’idea inizi a farsi strada nella mente di Kenji: e se la ragazza trovata fatta a pezzi qualche giorno prima nel quartiere fosse stata uccisa da Frank?
I temi trattati da Murakami sono molteplici e su più livelli; il primo è sulla natura intrinseca dell’essere umano e su come affronta la più autentica e antica delle emozioni: la paura. Essa permea l’intero romanzo ed è il motore di molte delle azioni del protagonista, mantenendolo sulle prime vigile e cauto, e portandolo allo shock quando l’orrore esploderà come una diga. Così anche gli altri personaggi reagiranno in modo quasi buffo di fronte al terrore assoluto che li investe, e a rendere il tutto assolutamente terrificante sono la plausibilità e il realismo. Nemmeno Frank è immune alla paura: in un’occasione ha infatti una crisi che il protagonista fatica a comprendere, ma che ci ricorda che, di base, Frank è un essere umano, disturbato e traumatizzato, tuttavia capace di provare a modo suo emozioni.
Le reazioni dei personaggi sono in realtà una critica non troppo velata che porta al secondo livello tematico affrontato nell’opera, ovvero una critica impietosa dello stato del Giappone odierno. I personaggi non sanno come reagire alla paura e restano fermi o ridacchiano come idioti perché stanno vivendo una vita vuota, insulsa e insipida che cercano di rendere meno insopportabile con chiacchiere, alcool, sesso e consumismo. Frank si lamenta di come gli stranieri sappiano della cultura giapponese più dei Giapponesi stessi: essi hanno perso contatto con la loro storia, la loro natura più vera; vivono nell’adorazione degli Stati Uniti e nella vuota venerazione di accessori e oggetti di marchi altisonanti, ma che non sono nemmeno in grado di apprezzare. Ne esce il ritratto di un paese che ha sempre avuto dei grossi limiti nel relazionarsi con “l’altro”, e ora che sta perdendo la sua stessa identità la sta ricercando nel posto sbagliato, vivendo inavvertitamente e senza passione al punto che anche davanti al pericolo non sa come reagire e si lascia morire in modo ridicolo.
Kenji uscirà trasformato dall’esperienza, ma il finale non è propriamente edificante. Non c’è una apertura speranzosa al futuro e un superamento della condizione iniziale, perché forse l’unica parvenza di percorso l’ha fatta Frank, unico personaggio veramente padrone e consapevole delle proprie azioni e che giunge a una sorta di catarsi. Frank viene presentato quasi come un Hannibal Lecter dei poveri, che spesso si cimenta in riflessioni filosofiche e aforismi che il lettore potrebbe sulle prime interpretare come pensiero dell’autore, ma che in realtà non necessariamente lo sono. I pensieri di Frank sono infatti uno strumento per muovere una critica, ma sono anche stranianti e talvolta presuntuosi e stupidi. Alcuni hanno visto in queste contraddizioni una carenza di Murakami nella costruzione dell’opera, ma si tratta forse proprio del messaggio che l’autore voleva consegnare, dando una chiave di lettura per andare oltre il caos del mondo.
Titolo originale: モリのいる場所 Regista: Okita Shūichi Uscita al cinema: 7 aprile 2018 Durata: 99 Minuti
RECENSIONE:
Tra i massimi esponenti della pittura giapponese del XX secolo, Morikazu Kumagai (1880- 1997) fu un personaggio altrettanto noto per il suo stile di vita; passò infatti trent’anni della sua vita senza mai lasciare l’abitazione, deliziandosi quotidianamente con delle lunghe escursioni nei rigogliosi giardini circostanti in piena contemplazione della flora e fauna.
Il film di Okita Shūichi, Mori, TheArtist’s Habitat, ambientato nel 1974 durante gli ultimi anni di vita dell’artista, desidera essere ben più che una semplice biografia.
Senza mai davvero concentrarsi sull’impegno di Morikazu nella pittura, il film vuole iniziarci piuttosto all’etica che precede l’operato artistico del pittore, che ogni giorno esplora il suo giardino incolto, osservando gli insetti, le trame delle pietre e il mutare della luce tra gli arbusti.
Scevro di conflitti e colpi di scena, il film si concentra sullo sguardo di un’artista che ha fatto della semplicità (ma non per questo invariabilità) la sua musa ispiratrice e che, liberato da ogni idea preconcetta sul mondo, è in grado di vederlo sempre diverso, trovando la gioia più grande sotto le rocce più piccole.
Okita fa del suo ritratto d’artista l’espediente per un’analisi ben più universale del tempo e dello spazio. La casa-giardino di Morikazu non può negare né frenare le forze motrici del mondo fuori, più vasto, difficoltoso e contraddittorio. Il giardino diventa un rifugio, allegoria di un mondo ideale, in cui l’artista (e quindi l’umano) cercano costantemente di rifugiarsi.
Come il pittore osserva gli insetti e il delicato universo che li circonda, così il registra osserva i propri protagonisti muoversi e relazionarsi. Nella casa-giardino Okita stesso si perde, trascinato dallo spirito contemplativo di Morikazu, e come lui si fa recipiente degli stessi concetti artistici, donandoci un’opera contemplativa, dai toni delicati, minimalisti, attenta alla natura multiforme della semplicità e che indaga la sottile linea che accomuna e separa il mondo naturale a quello umano.
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