Le nostre adorate ragazze || Recensione

Autrice: Matsūra Rieko

Traduzione: Anna Specchio

Editore: Asiasphere

Anno: 2017

Le nostre adorate ragazze” (titolo in giapponese: 最愛の子供) è l’ultimo libro di una delle autrici più rappresentative del panorama letterario giapponese contemporaneo, Matsūra Rieko, pubblicato nel 2017. L’autrice si è distinta fin dai primi anni di università per le sue opere, vincendo il premio letterario Bungakukai per esordienti. Tutta la sua produzione non manca di varietà di contenuti e nelle sue opere l’autrice parla di minoranze sessuali e relazioni famigliari al di fuori delle convenzioni, con un particolare focus su tematiche come il corpo e la sessualità femminile

“Le nostre adorate ragazze” parla di tre studentesse che frequentano una classe femminile dell’Istituto privato Tamamo: Hinatsu, Mashio e Utsuho. Qui, il trio di ragazze ha formato quella che le loro compagne definiscono una “famiglia”, all’interno della quale ognuna ha il suo ruolo: Hinatsu è il papà, Mashio la mamma e Utsuho il principe. 

Hinatsu e Mashio, come veri genitori, riservano sempre particolari attenzioni per la dolce Utsuho, coccolandola come fosse davvero la loro figlia, e tra di loro il legame affettivo è sempre più forte. Quello che però andrà a intaccare questo felice quadretto famigliare è lo sguardo pregiudicato e severo degli adulti che le circondano. Come viene spiegato sin dai primi capitoli, nessuno ricorda con esattezza come è nata l’idea di quella loro famiglia né come siano stati assegnati i ruoli, ma nessuna delle ragazze dell’istituto sembra trovare nulla di strano in quella situazione.

Tutto ciò viene raccontato dal narratore, o meglio da un “noi narrante” rappresentato dalle compagne di classe delle tre protagoniste. Quello che più emerge dalla narrazione è come le narratrici desiderino semplicemente vedere la loro “famiglia” felice e unita, per poter continuare a “osservare, interpretare, edulcorare e raccontare la loro storia”. Non si delinea altro che curiosità, nessuna critica o pregiudizio nei confronti delle tre ragazze e, grazie alle loro parole, Matsūra Rieko smonta ogni preconcetto riguardo la famiglia “tradizionale”, slegandola dai rapporti di sangue e allontanandosi dalla visione delle vecchie generazioni ancora chiuse al cambiamento e alle novità. In questa maniera, l’autrice amplia il concetto stesso di famiglia e fornisce di questo nuovo tipo di rapporto una visione molto positiva. 

Recensione di Maria Elisa Contarelli

Love Life || Recensione

Regia: Kōji Fukada

Anno: 2022

Durata: 123 min

Genere: Drammatico

Attori principali: Fumino Kimura, Kento Nagayama, Atom Sunada

La storia ruota attorno alle vicende di una famiglia che conduce un’esistenza sostanzialmente tranquilla. Abbiamo Taeko, un’assistente sociale sposata con Jiro e madre di Keita, un bambino di sei anni con una spiccata intelligenza e campione di Othello (un popolare gioco da tavolo). In occasione del compleanno del signor Osawa, il padre di Jiro, vanno a fare visita i suoceri nel loro appartamento. Il padre è visibilmente scocciato di essere lì e rivela senza mezzi termini che non ha mai accettato Taeko in famiglia per essere una donna più grande del suo consorte e soprattutto per avere un figlio nato da una relazione precedente. Purtroppo non è la cosa più grave che succede quel giorno: Keita, mentre sta giocando in bilico sul bordo della vasca, scivola battendo la testa e annegandoci dentro. Durante il funerale ricompare dopo quasi quattro anni l’ex marito di Taeko, Park, un sordomuto coreano senza permesso di soggiorno che negli ultimi anni è stato costretto a vivere per strada.

La morte del bambino, oltre ad essere un pugno nello stomaco rivolto allo spettatore, lascia un vuoto incolmabile nelle vite dei personaggi. Si creerà uno spazio di riflessione per ciascun membro della famiglia, dando loro l’occasione di ripensare sé stessi, riavvicinandosi anche con il proprio passato. Se nella prima mezz’ora del film la famiglia viene raffigurata come un tutt’uno, adesso ogni personaggio viene isolato dagli altri, collocato in uno spazio silenzioso all’interno del quale si interroga su alcune questioni esistenziali come l’elaborazione del lutto, la fede in Dio e la paura della solitudine.

Taeko avrà il compito più arduo: quello di recuperare la forza di andare avanti malgrado i sensi di colpa per non aver svuotato l’acqua della vasca prima che succedesse la tragedia, mentre il ricordo di Keita riecheggia come un fantasma tra le pareti. Sarà riallacciando i rapporti con Park che la donna riuscirà a raccogliere i cocci della sua esistenza: emblematica è una delle sequenze finali dove la protagonista balla goffamente sotto la pioggia come finalmente pervasa da un sentimento di immotivata speranza.

“Love life”, in concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, pone l’accento sulle reazioni delle persone di fronte a un evento più grande di loro dando vita a un’opera silenziosamente lacerante quanto delicata.

Recensione di Martino Ronchi

Un’esperienza personale – Ōe Kenzaburō || Recensione

Autore: Ōe Kenzaburō

Opera: Un’esperienza personale

Anno: 1964

Una tra le opere più note del Premio Nobel per la letteratura Ōe Kenzaburō, “Un’esperienza personale” narra un periodo travagliato della vita del protagonista, Tori-Bird.

Professore di una scuola di preparazione per gli esami di ammissione all’università, Tori-Bird si trascina in un’esistenza stanca e monotona, trovando una via di fuga dalla vita quotidiana solo nella sua ossessione per l’Africa e nella speranza di un viaggio verso quel continente lontano, sognato come terra di avventure in cui provare il proprio coraggio. Quando sua moglie partorisce un bambino con un’apparente ernia cerebrale per cui i dottori prevedono una speranza di vita di soli pochi giorni, il protagonista si trova a dover fare i conti con le proprie battaglie interiori e i fantasmi irrisolti del proprio passato. Oppresso da un senso di vergogna verso sé stesso e la fragilità del corpo umano, Tori-Bird deve gestire una situazione complessa ed emotivamente devastante, barcamenandosi in un mondo incerto fatto di ospedali e medici; anche la vita familiare ne viene complicata, dovendo nascondere la notizia della condizione del figlio alla moglie convalescente e gestire un rapporto già difficile con i suoceri.

Il protagonista risponde quindi alla nuova situazione nell’unico modo che conosce: fuggendo. Una fuga che è non solo fisica, come esemplificato dalla corsa iniziale in bicicletta, ma anche e soprattutto morale e spirituale. La sua mente si rifugia spesso negli immensi spazi africani ma anche questi sembrano incapaci di fornire conforto, celando trappole insidiose. Cerca allora una via di fuga nel whisky, vecchio vizio che l’aveva già spinto ad abbandonare il corso di specializzazione negli anni dell’università. Anche questo si rivela però un rifugio temporaneo e insidioso, traducendosi in terribili postumi che comprometteranno la sua vita lavorativa.

Tori-Bird è un personaggio debole, incapace sia di azione che di reazione, che posto davanti a un durissimo quesito morale rifugge dalla scelta e si nasconde in una tana buia, limitandosi ad aspettare  passivamente il corso degli eventi. Anche il colloquio con il direttore della scuola dimostra l’incapacità del protagonista di lottare: Tori-Bird non prova nemmeno a difendere il proprio posto di lavoro e rifiuta l’aiuto offertogli da alcuni suoi studenti, accettando semplicemente il dipanarsi degli eventi e non elaborando nessun piano per il futuro.

La forma di fuga suprema è costituita dall’amante Himiko. Vedova di un suicida, la donna passa le giornate chiusa in camera al buio a fumare, filosofeggiare e ricevere le visite dei suoi vari ammiratori, sfrecciando durante la notte sulla sua macchina sportiva. Tori-Bird trova nella sua casa una tana buia e sicura dove aspettare senza agire la morte del suo bambino; il loro rapporto rappresenta una sorta di forma di regressione che prova a rimediare agli errori del passato e che permette al protagonista maschile di trovare conforto, dimenticando la paura e il rigetto che provava nei confronti della natura femminile dopo la notizia del problema del suo bambino, portando a maturità la sua sfera sessuale. È un rapporto che sembra essere in una prima fase quasi costruttivo: tuttavia anche questo si caratterizza per un momento come una futile fuga. L’idea del divorzio dalla moglie e di un viaggio in Africa con Himiko non è altro che l’ultimo, estremo tentativo di rivendicare una libertà possibile e immaginata di fronte alla minaccia della gabbia delle responsabilità familiari, esemplificate dalla figura onnipresente del “bambino-mostro”. Il rifiuto dell’intervento non è infatti altro che il rigetto totale della responsabilità, che si manifesta ancora una volta in una fuga in macchina verso la clinica abortista. Il protagonista ha finalmente deciso di agire, ma anche questa decisione sembra guidata più da Himiko che dal protagonista, che si limita ancora una volta a lasciarsi trascinare dagli eventi.

Solo nel finale Tori-Bird riesce a prendere una decisione veramente propria. In un bar gay gestito da Kikuhiko, un amico che Tori-Bird aveva abbandonato anni prima e da cui il figlio prende il nome, il protagonista vomita subito dopo aver ingerito un solo bicchiere di whisky, simbolo del rigetto di anche quella forma di fuga per lui tanto rassicurante. Improvvisamente sicuro, decide di smettere di fuggire e di abbracciare le proprie responsabilità, abbandonando il progetto del tanto sognato viaggio in Africa e decidendo di far sottoporre il figlio all’operazione.

L’opera si conclude in maniera relativamente serena, mostrandoci un Tori-Bird inserito nel suo ruolo di padre all’interno di una famiglia ricostituita e maturato o, per dirla con le parole dell’austero suocero, “cambiato”; deciso ad accettare la sua responsabilità e la sua nuova vita, è pronto a intraprendere una nuova carriera. Così come, all’inizio del romanzo, il pensiero del figlio in arrivo dà al protagonista la forza di smettere di scappare e di difendersi dal gruppo di giovani teppisti che l’avevano circondato e assalito, il bambino aveva vinto, dandogli la forza di affrontare la paura della responsabilità e di costruirsi un futuro, correggendo il suo costante istinto alla fuga. Tori-bird non sogna più rocambolesche avventure nella lontana Africa: con i piedi per terra, vuole adesso diventare una guida turistica in Giappone.

Sempre centrale è l’analisi della psicologia del protagonista, che funge da filtro costante della narrazione. L’intera opera è narrata mediante i suoi meccanismi psicologici; in una maniera quasi egocentrica ed interamente autoriferita, gli altri personaggi sono solamente abbozzati, presi in considerazione solo in funzione della loro interazione con il protagonista. Lontano però dal rappresentare una figura titanica, egli è un uomo piccolo e inetto, incapace di occupare l’opera con l’azione: la narrazione è quindi riempita dalle sue ombre, incertezze e paure, rappresentate dalla figura del “Bambino-mostro” e dal ricorrente terrore per il vuoto che circonda l’esistenza e un eventuale Giudizio.  Conscio delle proprie debolezze e dei propri limiti, cede all’autocommiserazione, si affligge fino al masochismo. Solo nella parte finale Tori-Bird riesce a raggiungere una totale, improvvisa redenzione, evitando le “trappole” che ha incontrato lungo il cammino e arrivando ad un’inaspettata maturità.

Complesso ed emotivamente denso, questo romanzo contiene molti elementi autobiografici. Vi si intravede nettamente lo sforzo dell’autore di comprendere e rielaborare la propria esperienza personale, di indagarla con uno sguardo fortemente autocritico e con una profondità ineguagliabile di analisi psicologica che fanno risaltare ancora di più lo sforzo e la totalità della metamorfosi finale. Questi elementi rendono l’opera interessantissima per il lettore, che non può evitare di rimanere emotivamente coinvolto negli eventi narrati –anche se spesso trascinandosi dietro una distinta sensazione di amarezza.

Recensione di Mattia Natali

Zombie contro Zombie – One cut of the dead || Recensione

Regia: Shin’ichirō Ueda

Anno: 2017

Durata: 96 minuti

Genere: horror, commedia

Attori principali: Takayuki Hamatsu, Harumi Syuhama, Mao Higurashi

“Zombie contro zombie”, il cui titolo originale è “One cut of the dead”, è un film che parla della realizzazione di un film ambientato durante le riprese di un film.

Proviamo a spiegarci meglio, la storia è divisa in tre parti: nella prima vediamo una troupe intenta a realizzare un film horror all’interno di un impianto di filtraggio d’acqua abbandonato. La leggenda vuole che l’edificio sia infestato dagli zombie perché è stato usato anni prima dall’esercito giapponese per sperimentazioni sugli esseri umani. Il regista è molto esigente, quasi manesco nei confronti degli attori e pretende che la recitazione sia il più credibile possibile. Ad un certo punto due membri della troupe vengono morsi da uno zombie, diventando zombie a loro volta, ma il regista, entusiasta che la realtà diventi essa stessa il racconto, continua a girare con la sua macchina da presa. Dopo una serie di risvolti rocamboleschi l’unica a rimanere in vita è la giovane attrice Chinatsu.

Appena dopo i titoli di coda sentiamo “ok, stop!” che ci porta fuori dalla diegesi e ci fa capire che tutto quello che è successo era le riprese di un altro film. Nel secondo atto, ambientato un mese prima, al regista Higurashi viene commissionato, da parte di un’emittente televisiva, un mediometraggio horror in diretta girandolo con un unico piano sequenza. Higurashi accetta questa proposta al limite dell’impossibile e si dedica al casting e alle prove, coinvolgendo la figlia come aiuto alla regia e la moglie come attrice. La terza e ultima parte consiste nella messa in atto del telefilm, visto stavolta dalla parte della vera troupe, mostrandoci tutti gli imprevisti che hanno portato a cambiamenti repentini rispetto alla sceneggiatura di partenza come caviglie slogate e attacchi di diarrea. Questa parte giustifica alcune soluzioni di regia che sembrano il frutto di una negligenza registica.

L’incipit si presenta come un zombie-movie indipendente al limite del trash, nonostante un magistrale piano sequenza di quasi quaranta minuti che ricorda il linguaggio dei videogiochi. Ma i toni in seguito si fanno leggeri e divertenti e il film ci svela il dietro le quinte di una produzione low budget dove l’errore e il tentativo di risolverlo costituiscono l’espediente comico principale.

Quando si tratta di film metanarrativi o ambientati su un set cinematografico la dialettica tra realtà e finzione emerge spontaneamente e “Zombie contro zombie” non fa eccezione:  Harumi, la moglie di Higurashi, in passato ha dovuto rinunciare alla recitazione perché si immedesimava troppo nei personaggi e questo eccessivo coinvolgimento emerge durante le riprese, mettendo in difficoltà gli altri attori. Un altro esempio è Hosoda, l’attore che interpreta il direttore della fotografia, il quale prima di entrare in scena si beve un’intera bottiglia di sakè stordendosi completamente. Una volta che il suo personaggio diventa zombie, Hosoda non sta recitando ma il suo barcollare deriva dalla sua condizione psicofisica.

Un film a dir poco geniale che si sviluppa su tre livelli di narrazione, come una matrioska di racconti, però creato in modo tale che lo spettatore possa orientarsi senza confondersi. 

Recensione di Martino Ronchi

Eve – Bunka || Recensione

Eve (いぶ) è un artista che sta assumendo sempre più rilevanza nel panorama indie-pop e pop giapponese e la cui popolarità sta diventando sempre più diffusa anche internazionalmente.

Eve è attivo sotto questo pseudonimo sulla scena musicale fin dal 2009, quando all’età di soli 13 anni ha cominciato a pubblicare cover sul sito giapponese Nico Nico Dōga, per poi espandersi negli anni cominciando a pubblicare canzoni in proprio oltre che a cover, passando alla piattaforma Youtube per le sue canzoni. Oggi pubblica esclusivamente contenuti originali e conta ben cinque album completi, oltre ad innumerevoli singoli e mini album.

Eve viene spesso associato alla sua voce chiara e medio-alta, leggermente nasale, che porta un velo di freschezza alle sue canzoni. I suoi brani sono spesso ritmati e accattivanti, tuttavia i testi rivelano un sottofondo di amarezza e inadeguatezza, leggermente malinconici ma mai pesanti o banali, spesso ricchi di metafore, giochi di parole e riferimenti alle sue stesse canzoni, creando un universo ricco e coeso.

Bunka (文化) è il suo secondo album, pubblicato nel 2017 sotto la sua etichetta, Harapeco Records, e conta 10 canzoni. Ciò che rende questo suo album più unico e distinto dal primo, Official Number, è il fatto che Eve ha personalmente scritto e composto tutti i brani presenti nell’album, invece di affidarsi a compositori esterni. Inoltre, un punto che rende questo album davvero interessante è il fatto che è aperto e concluso da due brani esclusivamente strumentali, ovvero Fanfare e Paradigm. In questo album troviamo alcune delle canzoni più iconiche e memorabili di Eve, tra cui possiamo ricordarne tre:

-Bungaku Nonsense (文学ナンセンス), il primissimo brano interamente composto e scritto da lui. La natura ritmata e veloce della canzone dà un forte senso di adrenalina, e le numerose allitterazioni e onomatopee presenti nel testo la rendono sicuramente molto memorabile. Tuttavia il testo rimane piuttosto cupo, con forti allusioni al sentirsi esterni alla società ed isolati.

Dramaturgy (ドラマツルギー), la canzone che lo ha davvero portato sotto i riflettori è ancora oggi tra le più amate, arrivando a più di 150 milioni di visualizzazioni solo su Youtube, grazie anche all’iconico video musicale animato dall’artista indipendente Mah. Anch’essa è una canzone molto veloce, ma spesso rallenta leggermente per spaziare ritmo e testo, dando un attimo di respiro all’ascoltatore ma anche uno spiraglio sulla natura del testo, che anche in questo caso si concentra su temi di inadeguatezza e il bisogno di mettere una maschera e recitare costantemente.

Okinimesumama (お気に召すまま) è un altro brano estremamente amato, grazie al suo ritmo e alle tendenze pop-rock presenti, che lo rendono immediatamente un classico della discografia di Eve. Il brano a primo sguardo sembra molto allegro dal punto di vista ritmico, inducendo l’ascoltatore al sorriso, ma anche il testo di questa canzone rimane legato alla disillusione verso la propria vita, benché in modo più leggero e giocoso rispetto ai termini pesanti usati in Dramaturgy.

Eve è un cantautore che lascia una forte impressione su chi lo ascolta, sia per la sua voce piacevole ed espressiva, che per le sue canzoni, con i loro ritmi tanto orecchiabili quanto pensati e i loro testi che spingono chi ascolta a riflettere su di essi, facendoli suoi. Spingiamo i nostri lettori a constatare il suo peculiare approccio alla musica ascoltando loro stessi la sua ricca e meravigliosa discografia.

Recensione di Camilla Ciresa